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2. IL SISTEMA

2.2 F INITO E INFINITO

2.2.2 L’infinitudine dell’Uno

Sebbene l’Uno di Plotino non sia un infinito spazio-temporale, quindi non un infinito quantitativo in senso proprio214, è pur vero che la sua caratteristica fondamentale è proprio l’“infinitudine”, una infinitudine radicale affine, per certi versi, a quella dei naturalisti. L’infinito plotiniano è forza creatrice, principio immateriale che si erge al di sopra di ogni determinazione, della stessa Intelligenza platonica e dell’Essere aristotelico, fonte di tutto e che quel tutto trascende215. È indefinibile e indicibile, ragione per la quale ci si può riferire ad esso solo per via negativa: la qualificazione positiva infatti è del tutto incapace di cogliere un aspetto quale che sia dell’Uno, per via della conseguente limitazione che tale attribuzione provoca in virtù del principio di non contraddizione. Se è qualcosa, esso non può contemporaneamente esserne l’opposto. Ne segue che dell’Uno non si può dire a rigore neanche che è o che non è. Particolarmente interessanti risultano per noi le considerazioni plotiniane sulla coppia aristotelica essere in potenza/in atto (Enn, II 5), il cui culmine è l’analisi strategica del rapporto tra il concetto di sostanza e quello di qualità (Enn, II 6). Nel primo di questi due trattati Plotino asserisce che l’essere in potenza appartiene solo ed esclusivamente al mondo sensibile, mentre

in quello intelligibile «non c’è posto per la potenzialità»216. Il passaggio da potenza ad atto implica

infatti una trasformazione il cui agente è, ancora una volta, atto. Ciò che è in sé e per sé può essere solo atto, e nel suo essere in atto è potenza, energeia e forza vitale. Ne segue che il non-essere, identificato con la materia, non è in sé e per sé, ossia non si contrappone come altro rispetto all’Uno, non è altro dall’Uno. La si dice in potenza perché permane immobile e immutabile in sé in attesa di una forma che le venga dall’esterno, ma la si dovrebbe definire piuttosto come un non-essere in atto,

214 Sull’ambiguità della posizione plotiniana sull’infinito in atto, un ottimo riferimento rimane l’analisi del Lovejoy di La

grande catena dell’essere. Dopo aver presentato l’Uno e il processo di emanazione, sottolineando che in Plotino si trova

già in qualche forma l’espressione del principio di pienezza, Lovejoy precisa: «Plotino non vuol dire che che il numero degli esseri temporali, o il numero che corrisponde ad essi nel Mondo Intelligibile, sia letteralmente infinito. Come la maggior parte dei filosofi greci, egli prova un’avversione estetica per l’idea dell’infinito, che è incapace di distinguere dall’indefinito. Dire che la somma delle cose è infinita equivale a dire che non esiste assolutamente un preciso carattere aritmetico. Nulla che sia perfetto, o in pieno possesso del proprio essere potenziale, può mancare nei limiti determinati. L’idea di numero infinito è, oltre tutto, contraddittoria; è, dice Plotino ripetendo un argomento già trito, contraria alla stessa natura del numero. D’altra parte, egli non può ammettere che il Numero Ideale, l’archetipo dell’aspetto numerico del mondo sensibile, sia un determinato numero finito. Infatti noi possiamo sempre concepire un numero maggiore di esso; ma nel mondo intellegibile non è ammissibile pensare un numero che superi il numero pensato dall’intelletto divino, perché quel numero è già completo: “non fu mai preso e non sarà preso giammai un numero tale da poter essergli aggiunto”. Così la posizione di Plotino resta sostanzialmente equivoca; il numero degli essere è ad un tempo finito e maggior di qualsiasi numero finito. È proprio a questa stessa evasività che vedremo ricorrere molti altri. Ma, finito o no, il mondo è in ogni caso per Plotino, nella sua dottrina consueta, per quanto non sempre costante, così “pieno” che non vi manca alcun genere possibile di essere», cfr. A. O. Lovejoy, La grande catena dell’Essere, tr. it. di L. Formigari, Feltrinelli, Milano 1966, p. 72.

215 Sulla convergenza tra platonismo e aristotelismo in Plotino, cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, tr. it. di R. Bordoli, Laterza, Bari 2009, pp. 378-379: «Plotino può venir definito sia neoplatonico, sia neoaristotelico; in lui si trovano parecchie esposizioni, relative ad un’unica e medesima idea fondamentale, le quali sono di carattere interamente aristotelico; le forme aristoteliche della dynamis, potentia, energeia, energia, eccetera giocano un ruolo importante anche in Plotino ed anche in lui tema essenziale della trattazione è la relazione fra esse. Dunque, questa scuola non è neoplatonica in antitesi ad Aristotele».

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falsificazione, simulacro (eidolon in greco),217 perché simulacro è tutto ciò che rompe la semplice

unità dell’Uno, potenza di tutte le cose218; simulacro è il nome con il quale si potrebbe indicare il

Misto del Filebo, il mondo sensibile nel suo essere pluralità, ossia mera immagine (eidos). Ma come affrontare la molteplicità, come trattare gli enti? Prima di rispondere, Plotino invita a una accortezza metodologica:

Del resto, sta sempre qui l’origine dei nostri errori nel trattare del “qualcosa”, perché nella ricerca che lo riguarda noi fatalmente scivoliamo, ricadendo nell’ambito delle qualità. In verità, l’essere del fuoco non è quello che noi affermiamo a partire dalla sua qualità visibile, ma è la sostanza; invece, quegli aspetti che noi ora vediamo, e che non perdiamo di vista mentre ne parliamo, ci distolgono da questo «qualcosa», spingendoci a definirlo come qualità. Ciò, tuttavia, non è irragionevole nel caso delle realtà sensibili, perché nessuna di esse è una sostanza, ma è affezione della sostanza219.

La percezione dunque, e la tensione che il soggetto prova nei confronti dell’oggetto percepito, rischia di inquinare il procedimento logico che permette di separare la sostanza dalla qualità, quindi il vero in sé, l’autentico, da una forma di abbaglio sensoriale sul piano ontologico, la cui funzione ha esclusivamente a che fare con il condursi della vita nel mondo. Per accedere all’ontologia, occorre avviare una indagine intorno alle cause della messa in forma della materia, ossia del darsi della potenza divina come causa emanativa del mondo. Ritenendo necessario precisare il concetto di qualità nel suo aspetto non ingannevole, Plotino prosegue affermando che la qualità non è né forma né sostanza, ma che

<Piuttosto, il titolo di qualità spetta> a quei caratteri che sono più esterni a ogni sostanza e qui non appaiono in certi casi come qualità e in certi altri come non qualità, ma semplicemente contengono quello che serve da complemento alla sostanza, come le virtù, i vizi, il pudore, la bellezza, la salute e l’essere conformati in un certo modo. Così, per esempio, né il triangolo, né il quadrato sono di per sé qualificati, mentre dobbiamo dire essere qualificato l’assumere figura triangolare, perché questo equivale ad assumere una certa figura. Dunque, non la triangolarità è una qualità, ma la figura di triangolo, e così pure lo sono le arti e le abilità. In tal senso la qualità è una certa disposizione che

217 Ivi, p. 387: «Sia dunque la materia non-essere, ma non nel senso di qualcosa di diverso dall’essere, com’è il movimento che si lascia portare dall’essere ad un tempo sua origine e sua sede. La materia invece è come espulsa e del tutto separata dall’essere: essa, invero, non riesce neppure a trasformare se stessa, ma qual era in origine, cioè non-essere, tale si mantiene per sempre. Ora, quel suo starsene appartata da tutti gli esseri fa sì che fin dal principio non fosse in atto e che mai lo sia diventata. Infatti, quelle cose in cui voleva calarsi neppure l’hanno sfiorata, perché essa, la materia, si mantiene sempre in quello stato di relazione potenziale con ciò che la segue; e così, là dove finiscono gli esseri intellegibili eccola comparire, riassorbita dalle realtà successive, rispetto alle quali si pone al limite. In tal modo, essendo catturata da ambedue i tipi di essere, la materia non è in atto nessuno dei due e quindi può essere solo in potenza, un’inconsistente e oscuro simulacro che non riesce a prendere forma: dunque, un’immagine in atto, una falsificazione in atto».

218 Enn, III, 8, 10: «Ma che cos’è, insomma, <questo Uno>? È la potenza di tutte le cose, senza la quale nulla esisterebbe, e neppure l’Intelligenza sarebbe vita originaria e universale».

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inerisce a sostanze già esistenti tanto come carattere acquisito quanto come carattere originario, ma, in ogni caso, se anche la qualità non si accompagnasse <alla sostanza>, questa non ne soffrirebbe. La qualità, poi, può essere più o meno mutevole, tanto che si distingue in due generi: quella passeggera e quella stabile220.

Anche Aristotele, in Metafisica V, aveva distinto due sensi della categoria qualità: essa è differenza della sostanza in senso forte (come nel caso dei numeri) e in senso debole affezione delle sostanze mobili. Plotino continua ad accettare la distinzione aristotelica ma, come nel caso della distinzione tra essere in atto ed essere in potenza, la modifica profondamente: la qualità in senso forte altro non è che l’immagine di una forma, ossia il movimento di astrazione attraverso il quale si isola una caratteristica da una sostanza. Simulacro a sua volta di un puro atto, essa è consistente solo per la ragione che analizza la sostanza, ma non le aggiunge e non le toglie niente. L’errore da non compiere è quindi quello di pensare che la qualità definisca in qualche sua forma essenziale la sostanza; di più, Plotino afferma chiaramente che qualità è solo ciò che è accidentale, perché atta a conoscere la forma, mentre per comprendere la ragione formale delle cose occorre considerarle come un “qualcosa”. In Enneadi VI, 3, luogo dedicato all’analisi della quantità, della qualità e della misura, Plotino afferma che la prima tratta del numero e della grandezza, e che la contrarietà ne faccia parte, perché possiamo opporre il grande al piccolo, il molto al poco, passando dall’uno all’altro per incremento. La

geometria dunque si occupa propriamente della quantità, perché si occupa di grandezze221.

Quando Deleuze si troverà a dover distinguere la causa neoplatonica da quella spinoziana, egli sottolineerà che la differenza tra le due non è affatto semplice da porre. Questo perché la causa emanativa e la causa immanente sono entrambe causalità efficiente, causa per sé e causa prima. Lo scarto tra le due non si gioca all’interno di una teoria classica della causalità, bensì sul piano dei loro effetti, ossia della loro produzione del reale. Le due catene generative si distinguono infatti perché il prodotto della causa emanativa non è in sé, ossia non trova in sé la ragione e il senso dell’operazione di genesi e viene come espulsa dall’unità originaria della sua causa. In altre parole, nel neoplatonismo

220 Ivi, p. 399.

221 Cfr. Enneadi, VI, 3, 14, pp. 1581-1583: «Che cosa vogliamo dire della linea retta? Non è forse una grandezza? Qualcuno potrebbe suggerire che la retta è una grandezza dotata di qualità. In tal caso che cosa impedisce che sia una specificazione della linea? Del resto, il retto che altro è se non uno stato della linea? E poi anche le differenze della sostanza noi le deduciamo dalla qualità. Per tanto, se la linea retta è una qualità differenziata, allora, per ciò stesso, non è il composto della linea e della caratteristica dell’essere retto: se proprio la si volesse come composto, allora lo sarebbe con la sua differenza specifica. E perché non includere nella quantità anche quella figura che è costituita da tre rette, cioè il triangolo? […] Dal momento che noi diciamo qualitativamente caratterizzato il triangolo, dobbiamo dire lo stesso anche del quadrato e quindi siamo tenuti a porlo nella qualità, sicché nulla impedisce che lo stesso oggetto finisca in più categorie: in tal modo, nella misura in cui è una grandezza, una ben definita grandezza, si troverà nella quantità; nella misura in cui condivide una certa figura, si troverà nella categoria della qualità. Il triangolo di per sé è una data figura; e dunque perché non definire qualità anche la sfera? Certo che, a questa stregua, la geometria finirebbe per occuparsi non più della quantità, ma della qualità. Non mi sembra il caso: il suo oggetto specifico è la grandezza».

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la produzione è ottenuta per distinzione e differenziazione, non per composizione, con il risultato fondamentale che l’effetto è meno della sua causa, secondo il canone di ogni teoria della degradazione. In Spinoza si tratta, al contrario, di composizione della sostanza, sebbene la teoria della distinzione si dia con altrettanto rigore. Dio come causa efficiente di tutte le cose diviene allora la formula per indicare non più una catena generativa, ma un unico piano all’interno del quale ogni effetto rimanda a un altro come sua causa, perdendo così l’illusione finalista che animava ancora Plotino. In termini di causa sui, occorre insistere sul fatto che non solo il Dio di Spinoza ha la causa di sé in sé e non in altro, aspetto che condivide con l’Uno neoplatonico, ma anche che ha i suoi effetti in sé, per combinazione e non per partecipazione. Alla teologia negativa si oppone quindi una posizione di affermazione. Conseguenza fondamentale della causa immanente è la teoria del parallelismo, assolutamente incomprensibile dal punto di vista di una causa occasionale o da una causa ideale. Una sola e stessa costanza è “compresa” sotto più attributi e una sola e stessa cosa è “espressa” da tutti gli attributi: si dà così una “identità d’essere” che afferma l’unità ontologica tra tutte le serie degli attributi. L’univocità della serie generativa del neoplatonismo, connessa al suo rapporto con un fuori o con un limite esterno di tale produzione (la materia come ciò che l’Uno non è, l’altro polo), porta a una concezione del sistema che vede nel rapporto causa-effetto l’elemento centrale da analizzare per coglierne l’essenziale, ma che sacrifica in suo onore la rete di rimandi tra gli effetti, mancando così l’indagine sul reale. Il rapporto tra finito e infinito è quindi sempre un rapporto di verticalità: l’uomo, negando la via dei sensi e seguendo quella della ragione, può percorrere a ritroso il movimento di emanazione fino a cogliere l’Uno, che si è dato nel molteplice attraverso la degradazione.

Con Plotino e Proclo si conclude, per lo Hegel delle Lezioni sulla storia della filosofia, «il primo periodo, quello della filosofia greca»222, caratterizzato da un semplice progredire dell’astratto

dall’immediatezza, come essere, al pensare (nous)223.

222 G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., p. 389.

223 Cfr. R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, cit., pp. 37-38: «Durante tutto il Medioevo ragione ed effettualità non hanno mai costituito un’endiadi. Il “mondo intellegibile” aveva un’esistenza separata e proclamava la sua natura di unica realtà effettuale, di fronte alla vuota parvenza, alla vanitas vanitatum, del mondo terreno; questo, a sua volta, non aveva nessun effettivo riconoscimento da parte della coscienza, in quanto era sostanzialmente dominato dall’arbitrio, dalla particolarità e dal privilegio feudali. Con l’era moderna l’universale discende nel mondo e si intreccia alla realtà, che diventa, a questo contatto, effettualità; e il mondo terreno, ottenendo la sua autentica consacrazione dalla coscienza, diventando “patria” dello spirito, si innalza verso la ragione. Ormai la storia è intessuta di questa trama contigua di ragione ed effettualità, giacché la ragione è penetrata nel mondo (soprattutto in Francia) e il mondo è penetrato nella ragione (soprattutto in Germania). L’ulteriore sforzo ancora da compiere è la mediazione completa nel mondo e nella coscienza di questi due movimenti locali».

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