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2. IL SISTEMA

3.2 F OUCAULT

3.2.2 Oltre Hegel: il discontinuo

Per quanto l’analisi più nota de Le parole e le cose sia quella dedicata al quadro Las Meninas di Velazquez, il testo si apre in realtà, in prefazione, con una citazione e un primo commento a un testo di Borges, nel quale si

menziona «una certa enciclopedia cinese» in cui sta scritto che «gli animali si dividono in: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche». Nello stupore di questa tassonomia, ciò che balza subito alla mente, ciò che, col favore dell’apologo, ci viene indicato come il fascino esotico d’un altro pensiero, è il limite del nostro, l’impossibilità pura e semplice di pensare tutto questo. Che cosa dunque è impossibile pensare, e di quale impossibilità si tratta?371

Si tratta, per l’appunto, dell’impossibilità di tenere insieme il disparato, di pensare la stasi e il movimento insieme, l’astratto e il concreto, il morto e il vivo, il dentro e il fuori, di pensare cioè un insieme senza poter contare su nessuna delle categorie che comunemente operano nell’individuazione di quegli elementi che dell’insieme fanno parte, e che assumono al contempo su di sé il compito fondamentale di separarli da tutti gli altri, secondo l’insuperata coerenza dell’omnis determinatio est

negatio. Affinché vi sia un ordine, è infatti necessario un «sistema degli elementi»372, che è in parte

interno alle cose stesse nella forma della legge e al contempo dipendente dallo sguardo di chi le

370 M. Foucault, «La follia, l’assenza di opera», in Id. Storia della follia, cit., pp. 476-477.

371 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it. di E. Panaitescu, BUR, Milano 1999, p. 5.

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contempla. Inoltre, scriverà Foucault qualche anno dopo ne L’archeologia del sapere, il XX secolo si è trovato nell’imbarazzo di dover pensare questo ordine nonostante i decentramenti operati dai maestri del sospetto. Contro il decentramento operato da Marx (analisi storica dei rapporti di produzione, delle determinazioni economiche e della lotta di classe), ci si è lanciati alla ricerca di una storia globale; contro il decentramento nietzschiano, si è cercato un fondamento originario che facesse della razionalità il telos dell’umanità; contro le scoperte della psicoanalisi poi, ma anche della linguistica e dell’etnologia, che hanno decentrato il soggetto rispetto alle leggi del desiderio, alle forme del suo linguaggio, alle regole della sua azione o ai meccanismi dei suoi discorsi mitici o favolosi, si è invocata la continuità della storia, il suo presunto divenire non come sistema ma, al contrario, come duro travaglio della libertà. Foucault si chiede allora:

se si dimostrasse che il problema delle discontinuità, dei sistemi, e delle trasformazioni, delle serie e delle soglie, si pone in tutte le discipline storiche (e in quelle che concernono le idee o le scienze non meno che in quelle che concernono l’economia e la società), come si potrebbe allora contrapporre con qualche parvenza di legittimità il “divenire” al “sistema”, il movimento alle regolazioni circolari, o, come si dice con molta leggerezza e irriflessione, la “storia” alla “struttura”?373

Liberatosi dalla trappola teorica della continuità, Foucault cerca una forma di regolarità in grado di

descrivere quelli che adesso prendono il nome di «sistemi di dispersione»374. Tale forma di regolarità,

che fa del discontinuo la propria cifra, non si fonda più sull’egemonia di un soggetto di stampo kantiano, ma fa dell’esperienza la base fondamentale per l’elaborazione della teoria. La valorizzazione della discontinuità, contrassegno specifico dell’impegno di Foucault nel campo dell’archeologia delle scienze umane, mira a sconfessare più o meno esplicitamente per lo meno due presunte coppie oppositive: divenire/sistema e storia/struttura. Per limitarsi alla discontinuità più evidente e maggiormente ribadita, essa sta senz’altro nel passaggio tra età classica ed età moderna. Secondo la consuetudine francese, l’âge classique indica in Foucault il periodo che va dall’inizio del XVII secolo (fine del Rinascimento) fino alla fine del XVIII, con il risultato che sotto la categoria di “moderno” rientra, con un leggero imbarazzo per il lettore italiano, il pensiero di Hegel. Per quanto questa precisazione possa suonare inutile e pedante, essa mantiene comunque il vantaggio di far emergere con più chiarezza la polemica antidialettica che a tratti emerge nella speculazione foucaultiana, e che Canguilhem esplicita in occasione del dibattito suscitato proprio dalla pubblicazione di Le parole e le cose:

373 M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, cit., p. 19.

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Ci eravamo insediati nella dialettica. Superavamo l’anteriore (necessariamente secondo alcuni, liberamente secondo altri), ma sempre nella persuasione che il superamento lo includesse. Ed ora, ecco che uno viene a parlarci di «rotture essenziali», a preoccuparsi «di non poter più pensare un pensiero», «nella direzione ove il pensiero sfugge a se stesso», e ci invita semplicemente ad «accogliere queste discontinuità nell’ordine empirico, evidente e oscuro a un tempo, entro il quale si danno»375.

Canguilhem sembra quindi suggerire che le analisi di Foucault sull’episteme rappresentino a loro volta una cesura nel modo di conoscere, una nuova forma del pensiero che si distanzia radicalmente dal paradigma “moderno”, intriso di dialettica. L’opera, sulla quale si concludeva Storia della follia, è il luogo privilegiato all’interno del quale questo nuovo rapporto tra possibile e impossibile del pensiero si dà. Non ci si rivolge più a uno spirito del tempo innanzi al quale solo alcune forme sarebbero adeguate, ma occorre misurarsi con la costante inattualità dell’opera, con la sua capacità di dire l’impossibile di ogni tempo, l’impossibile del pensiero stesso. È questa l’esperienza alla quale Foucault dà voce nei suoi testi da archeologo, all’interno dei quali ci si rende conto che, per quanto un insieme possa sembrare infondato, come accadeva nel caso delle case di internamento (mendicanti, omosessuali, venerei, folli, bestemmiatori, maghi e così via), o per quanto, al contrario, le categorie interpretative di una data cultura possano pretendersi omnicomprensive, la semplice esistenza, nel concreto o nel pensiero, del dato, sfugge all’ordine del metodo e del sistema, pur svelando, in questo sottrarsi, che nonostante l’accento posto sulle fratture, una forma di continuità, un ordine, persiste. La tassonomia di Borges, in fin dei conti, è fondata; essa si estende nel luogo in cui la spazialità fa da padrona, sulla sterminata (o quantomeno presunta tale, nel nostro immaginario) estensione della Cina. L’analisi del Medesimo condotta in Le parole e le cose, pendant teorico del progetto di Storia della follia, che si rivolgeva, come visto, all’Altro, suggerisce proprio attraverso la sequenza delle fratture epistemologiche un continuum che si svela essere non solo il luogo del discorso, ma il discorso stesso. La distanza che Canguilhem individua nei testi di Foucault rispetto al paradigma hegeliano non ha la forma di un controcanto a quest’ultimo, bensì quella di una rottura epocale in favore della discontinuità del pensiero stesso; di conseguenza, una interpretazione che li legga come rifiuto di tale o talaltra postura filosofica rischierebbe di incorrere nell’errore di non prendere sufficientemente sul serio le indicazioni intorno alla necessaria rinuncia al tema della continuità, della eredità e della filiazione (sia anche nella forma del contrappunto), che proprio Canguilhem e Bachelard avevano offerto con determinazione. Altri interpreti non hanno infatti mancato di far notare che le analisi

foucaultiane sulla follia non sono in effetti in contrapposizione netta con il percorso dialettico376, e

375 G. Canguilhem, «Morte dell’uomo o estinzione del cogito?», tr. it. di S. Agosti, in M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 421.

376 F. Carmagnola, «Foucault lettore di Roussel», in F. Carmagnola (a cura di), L’estrema prossimità. Cinque letture sulla

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altrettanto si può sostenere affrontando Le parole e le cose377. Una forma di confronto con il pensiero

hegeliano sussiste e persiste nelle urgenze filosofiche del pensiero di Foucault – come non mancherà di notare Derrida378, riferendosi appunto a questa prima fase del progetto teorico del filosofo di Poitiers; l’opposizione alla dialettica non risolve la complessità del posizionamento assunto nei confronti dell’insieme della filosofia hegeliana, come se vi fosse qualcosa in Hegel, dai tratti soffusi e sfumati, a cui non si può rinunciare.

Un luogo della scrittura foucaultiana particolarmente rilevante per mostrare il dialogo, altrove tacito, con la filosofia di Hegel – sia dal punto di vista dei contenuti sia sul piano simbolico379 – è la sua prima lezione da titolare della cattedra di «Storia dei Sistemi di Pensiero» presso il prestigioso Collège de France, tenutasi il 2 dicembre 1970. Tenutasi, perché il testo, pubblicato con il titolo L’ordine del discorso, esprime il desiderio del suo autore di trovarsi già dall’altra parte del discorso, di non essere altro che luogo di installazione di un dire che gli preesiste e che lo ingloba, aggirando così la questione del cominciamento. Questione, quella del soggetto enunciatore, che pervade il discorso strutturalista nella molteplicità delle forme che quest’ultimo ha preso, e che Davide Tarizzo

battezza, senza mezzi termini, «la questione del soggetto al di là del soggetto»380. Una volta distrutto

l’imperativo epistemologico dettato dal soggetto cartesiano, occorre infatti pensare il profilo, ossia le possibilità e i limiti, di un nuovo soggetto (per indicare il quale bisognerà inoltre proporre un nome) che sostituirà l’interrogazione sulla propria fondatezza con quella intorno ai suoi prodotti. A partire da questa premessa, è più agevole capire perché, incastonato tra la decennale ricerca archeologica iniziata con Storia della follia e lo studio del potere e delle forme di governamentalità che impegnerà Foucault negli anni a venire, il testo preso qui in esame problematizza il discorso come luogo del controllo, della selezione, dell’organizzazione e della distribuzione in ogni società, anticipa le caratteristiche principali dei meccanismi di esclusione atti a tutelare il discorso dominante, individuandoli in tre grandi sistemi esterni («la parola interdetta, la partizione della follia e la volontà

superficiale. Riprendiamo le sue due affermazioni principali: l’homo dialecticus è finito e la follia è finita o sta per finire come stato possibile estremo della stessa ragione (“ragione in fiamme”). Come sono connessi questi due eventi? In apparenza il primo è causa del secondo: è solo con l’homo dialecticus che la follia può essere (ancora) pensata come lo stato estremo da guardare in faccia. Hegel può appunto aver ricordato implicitamente l’antico amico e compagno di studi, Hölderlin, il cui incontro con la follia era stato invece senza ritorno. In realtà si dovrebbe dire forse che la relazione tra pensiero dialettico e sguardo sulla follia ha la forma di una sorta di loop o di circolarità: dove c’è l’uno c’è l’altro. La fine dell’uno e la fine dell’altro sono connesse in modo circolare. Solo se penso la follia non come una malattia ma come l’estrema possibilità del pensiero posso intendere il pensiero stesso come un’attività dello spirito capace di guardare in faccia l’estremo».

377 Per una introduzione alla questione si rimanda all’articolo di S. Berni, «Foucault e la dialettica», in Iride, anno XIX n.48 maggio-agosto 2016, Il Mulino, pp. 367-376.

378 Cfr. J. Derrida, «Cogito e storia della follia», in Id. La scrittura e la differenza, cit., pp. 37-79.

379 La cattedra in questione era infatti la cattedra del maestro Hyppolite.

380 D. Tarizzo, Il pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, p. 20.

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di verità»381), nei meccanismi interni di limitazione (commento, autore, discipline) che compongono

la «polizia discorsiva»382, e nelle procedure di assoggettamento del discorso (sistema

d’insegnamento, società discorsive, scrittura, sistema giudiziario, sistema istituzionale, ecc.). Nella parte finale di questo testo, egli dedica un ringraziamento a chi gli ha fornito modelli e sostegno per le sue ricerche, compiute e in corso. Dopo un rapido riconoscimento a Dumézil e a Canguilhem, Foucault riserva a Jean Hyppolite pagine in cui ne celebra al contempo il percorso filosofico e il ruolo che, da maestro, ha avuto per la sua generazione:

So bene che la sua opera è posta, agli occhi di molti, sotto il regno di Hegel, e che tutta la nostra epoca, o colla logica, o coll’epistemologia, o con Marx o con Nietzsche, cerca di sottrarsi a Hegel; […] ma

sfuggire realmente a Hegel presuppone che si valuti esattamente quanto costa staccarsi da lui;

presuppone che si sappia fino a dove Hegel, insidiosamente forse, si sia accostato a noi, presuppone che si sappia, in ciò che ci permette di pensare contro Hegel, quel che è ancora hegeliano; e di misurare in cosa il nostro ricorso contro di lui sia ancora, forse, un’astuzia ch’egli ci oppone e al termine della quale ci attende, immobile e altrove383.

La domanda sulla posta in gioco è fondamentale: cosa c’è in Hegel che continua a lavorare insidiosamente nell’aria respirata da Foucault? Che la questione non sia riducibile alla sola dialettica è ormai evidente. Sembra piuttosto che si tratti proprio di quella tanto agognata capacità di insinuarsi surrettiziamente in un discorso non ancora pronunciato, di comprenderne e dominarne il tratto vitale e dinamico dall’interno. Quando il Foucault de Le parole e le cose giunge alla conclusione «che il pensiero moderno avanza nella direzione in cui l’Altro dell’uomo deve diventare il suo

Medesimo»384, quando, dopo aver attraversato Rinascimento ed epoca classica, l’episteme moderna

svela il tratto ironico dell’apparente dualismo che compone il titolo della ricerca, quando la tassonomia di Borges si rivela essere il punto di partenza e il luogo di appartenenza finale del percorso svolto, viene il forte dubbio che la critica al ruolo della contraddizione, il rifiuto del primato della coscienza, l’opposizione al soggetto e la denuncia delle chimere di ogni teleologia, non siano di per sé elementi sufficienti a marcare una indiscutibile distanza tra il pensiero contemporaneo e Hegel. C’è una inquietudine più profonda che risuona nel linguaggio foucaultiano e che continua a riferirsi alla filosofia hegeliana, una forma di tensione verso quello che Foucault definisce provvisoriamente nel testo, sulla scia di Lévi-Strauss, l’«impensato» (prima ipotesi di nome per un soggetto al di là del soggetto). Il sospetto che la questione fondamentale che si gioca tra il modello hegeliano e la proposta foucaultiana possa essere precisamente la questione del sistema sorge nel momento in cui ci si rivolge

381 M. Foucault, L’ordine del discorso,tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1972, p. 17.

382 Ivi, p. 28.

383 Ivi, pp. 54-55.

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all’intervista che segue la pubblicazione de Le parole e le cose rilasciata per “la Quinzaine Litteraire”, che si è già avuto modo di commentare nel primo capitolo, all’interno della quale Foucault inserisce la propria ricerca proprio tra le acquisizioni di Lévi-Strauss e quelle di Lacan, ossia in quel luogo all’interno del quale si è scoperto che «quello che ci sosteneva nel tempo e nello spazio, era il

sistema»385. Che cos’è allora il sistema per Foucault?