• Non ci sono risultati.

2. IL SISTEMA

3.3 D ERRIDA

3.3.5 La strana unità

L’esempio che Derrida propone è in realtà un doppio esempio: se ci si rivolge all’oggetto materiale dal quale l’esempio viene tratto, quindi dal testo che lo presenta, allora il riferimento è alle analisi di Lévi-Strauss e al sodalizio intrecciato esplicitamente da quest’ultimo con le riflessioni intorno alla lingua di Rousseau, punto mediano di una costellazione di pensiero che comprende Platone e Hegel, e che Derrida intende mettere in discussione. Tuttavia, se si restringe il campo di analisi al contenuto specifico dell’esempio preso in considerazione, ci si trova innanzi a una analisi tratta da La vie familiale et sociale des Indiens Nambikwara, incentrata sui costumi di vita di quella popolazione nomade, ritenuta da Lévi-Strauss tra le più primitive che si siano mai osservate. Nel particolare, si tratta dell’esempio empirico dell’interdizione all’uso dei nomi propri in quelle comunità, usanza alla quale però Lévi-Strauss non dedica particolare attenzione, se non per raccontare in che modo egli

468 Ivi, p. 129.

178

riesce, rendendo complici un gruppo di bambine, a estorcere l’informazione riservata. Insiste invece Derrida, svelando così la convergenza tra le due dimensioni, appena esplicitate, dell’esempio:

C’è scrittura da quando il nome proprio è barrato in un sistema, c’è «soggetto» da quando questa obliterazione del proprio si produce, cioè dall’apparire del proprio e dal primo mattino del linguaggio. Questa proposizione è d’essenza universale e la si può produrre a priori. […] Qui dunque veniamo incontro ad un fatto di tal genere. Non si tratta della cancellazione strutturale di quelli che crediamo essere i nostri nomi propri; non si tratta dell’obliterazione che, paradossalmente, costituisce la leggibilità originaria di ciò che essa barra, ma di un pesante interdetto in sovrimpressione, in certe società, sull’uso del nome proprio470.

Nel corso di questa analisi, che rivela le diverse tappe del sodalizio tra linguaggio e violenza allo scopo di non relegare quest’ultima alla scrittura, Derrida non manca di rivolgere una forte critica al metodo non scientifico di Lévi-Strauss, il quale è vittima di un certo mito della purezza dei popoli primitivi che altro non è che una forma di etnocentrismo. Le considerazioni espresse nella Lezione di scrittura si ritrovano infatti sotto forma di premesse implicite in Tristi tropici, in cui invece si conduce esplicitamente una trattazione sulla scrittura, in merito alla sua origine e sul suo senso471. Dalla parte dell’etnologia, come da quella della linguistica, si rischia quindi di cadere in un pregiudizio ideologico sodale con quell’etnocentrismo che pure si pretendeva di oltrepassare, e che ha alla radice, ancora una volta, la separazione tra popoli senza scrittura e civiltà della grafia. Derrida ripercorre quindi le analisi di Lévi-Strauss, senza mancare di mostrarne le contraddizioni e i presupposti non espliciti: l’interesse che il capo della popolazione presa in considerazione, che si suppone incapace di scrittura (sebbene alcuni commenti nello stesso testo di Lévi-Strauss permetterebbero di affermare il contrario), mostra nei confronti della scrittura, svela all’etnologo l’intimo rapporto tra scrittura e potere sociale. La «Lezione di scrittura» si rivela quindi una doppia lezione: il capo dei Nambikwrara impara a scrivere e Lévi-Strauss scopre il rapporto tra scrittura e dominio a partire dall’esperienza di scrittura del suo allievo. La funzione di dominio sorpasserebbe quindi, nell’interpretazione di Lévi-Strauss, quell’istanza intellettuale che Husserl aveva riconosciuto nella scrittura in funzione della

470 Ivi, p. 156.

471 Cfr. ivi, p. 170: «Le premesse indispensabili, e precisamente la natura dell’organismo sottomesso all’aggressione della scrittura, in nessun luogo sono più esplicite. Per questo abbiamo seguito per un lungo tratto la descrizione dell’innocenza nambikwrara. Solo una comunità innocente, solo una comunità di dimensioni ridotte (tema rousseauiano che si preciserà presto), solo una micro-società di non violenza e di immunità in cui tutti i membri possono facilmente tenersi a portata d’allocuzione immediata e trasparente, “cristallina”, pienamente presente a sé nella sua parola viva, solo una simile comunità può subire, come la sorpresa di una aggressione che viene dal di fuori, l’insinuazione della scrittura, l’infiltrazione della sua “astuzia” e della sua “perfidia”. Solo una simile comunità può importare dallo straniero “lo strumento dell’uomo da parte dell’uomo”. La “Lezione” è dunque completa: nei testi ulteriori, le conclusioni teoriche dell’incidente saranno presentate senza le premesse concrete, l’innocenza originale sarà implicata ma non esposta. Nel testo anteriori, la tesi sui Nambikwrara, l’incidente è riferito ma non dà luogo, come nei Tristi tropici, ad una lunga meditazione sul senso, l’origine e la funzione storica dello scritto. In compenso, attingeremo dalla tesi indicazioni che sarà prezioso iscrivere in margine ai Tristi tropici».

179

scienza e per la scienza; inoltre, il taglio teorico scelto da Lévi-Strauss mal cela una «ideologia politica che sotto il titolo dell’ipotesi marxista, si articola con il più bell’esempio di ciò che abbiamo

chiamato “metafisica della presenza”»472. Il discorso di Lévi-Strauss scricchiola però dall’interno:

Se si deve credere alla «Lezione», i Nambikwara non conoscevano la violenza prima della scrittura; neppure la gerarchizzazione, poiché quest’ultima è ben presto assimilata allo sfruttamento. Ora intorno alla «Lezione», basta aprire i Tristi tropici e la tesi a qualsiasi pagina perché l’opposto esploda con evidenza473.

La premessa teorica di stampo rousseauiano sulla quale l’etnologo si basa, e che vede nella piccola comunità, in cui tutti i membri sono a portata di voce, il modello dell’autenticità sociale, svela un preconcetto morale che non ha nulla della dimostrazione scientifica. Sarebbe però riduttivo limitare l’analisi a questo livello: quello che interessa Derrida è una tensione interna ai testi di Lévi-Strauss e dello stesso Rousseau, nei quali non manca, accanto all’elogio della parola piena, una certa diffidenza nei confronti della stessa. Raccontando la propria esigenza di scrittura, lo stesso Rousseau descrive «il passaggio alla scrittura come la restaurazione, attraverso una certa assenza ed un certo tipo di

cancellazione calcolata, della presenza delusa di sé nella parola»474. La stessa scrittura quindi, come

dif-ferenza, è caratterizzata da un doppio movimento, da una strana unità nella quale il soggetto e la parola incontrano l’alienazione e la restaurazione. Tale unità è la forma che Rousseau dà al

supplemento, ossia a tutto ciò che la cultura produce per sopperire alle debolezze naturali475; il

supplemento è quindi «la possibilità dell’umanità e l’origine della perversione»476, ed è sempre collegato alla parola e all’azione di un terzo, assumendo così la forma del segno. L’atto di supplire prevede infatti una mancanza (nella natura) e una aggiunta (culturale), muovendosi così sotto il segno dell’inscindibilità tra assenza e presenza. Inoltre, il supplemento è sempre una catena di supplementi,

la necessità di «un concatenamento infinito»477, un moltiplicarsi di mediazioni, come accade nella

sequenza madre-Maman-Teresa, in cui la cosa stessa si rivela essere un miraggio, il nome del differire continuo delle mediazioni. Questo movimento, che inizia sempre con un intermediario, rappresenta una sfida per la ragione, la quale non riesce a capire l’intera portata di tale tensione; di conseguenza, le categorie filosofiche scoprono la propria inadeguatezza, in campo teoretico e sul piano politico.

472 Ivi, p. 185.

473 Ivi, p. 190.

474 Ivi, p. 198.

475 Nell’Emilio la prima forma di supplemento presa in considerazione è la sostituzione delle madri nel caso di malattia in fase di allattamento; il discorso poi si estende fino a comprendere tutto ciò che una mano terza fa per l’infante, il quale impara presto che alla richiesta corrisponde l’azione desiderata.

476 Ivi, p. 204.

180