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2. IL SISTEMA

3.4 D ELEUZE

3.4.2 Uno spinozismo sperimentale

La prima formulazione della teoria della soggettività in Deleuze, già presente nel 1953 in Empirismo e soggettività e destinata a rimanere una costante della filosofia deleuziana, insiste precisamente sul legame inscindibile tra il tanto bistrattato empirismo e la riflessione intorno al soggetto, permettendo così al contempo di raffinare quella che, per alcuni aspetti, si è già svelata come una interpretazione peculiare dell’empirismo. La considerazione critica che sta alla base dell’idea che il soggetto in senso classico non possa più essere un riferimento affidabile per il pensiero contemporaneo ripete, sebbene in altri termini, quanto già sottolineato da Sartre in La trascendenza dell’ego, ossia che il cogito afferma più di quanto non possa legittimamente fare. Questo perché, per Deleuze, il soggetto non è un complesso astratto e unitario, ma «si definisce mediante e come un movimento, movimento di autosviluppo di sé», e tale «movimento di autosviluppo o di divenire altro è doppio: il soggetto si supera, il soggetto si riflette»500 non solo per inferenza e invenzione, ma anche per credenza e artificio. Non solo il soggetto afferma di sé più di quanto non potrebbe fare, ma il rigore dell’analisi di Hume rende incontrovertibile il fatto che tale tendenza affermativa del soggetto si estende anche sul mondo, in particolare nella forma di una pretesa di oggettività che si rivela, ancora una volta, non fondata. Come in Foucault dunque, l’analisi della soggettività si intreccia sin dai suoi primi passi con la questione della verità, che non può essere ristretta a un astratto soggetto conoscente, ma che necessariamente coinvolge e ha effetti sul piano etico, estetico, sociale: la questione della soggettività è quindi posta innanzitutto in termini pratici. Tuttavia, sussiste un problema di natura teorica al quale Deleuze cerca di offrire una risposta: com’è possibile che il soggetto, che si costituisce nel dato, attraverso il movimento del dato, ed essendo a sua volta un dato, possa oltrepassare ciò che è dato arrivando, per esempio, a credere e a inventare? La direzione di ricerca offerta da Hume, e che Deleuze condivide, impone un rovesciamento del rapporto tradizionale tra soggetto e oggetto in ogni teoria della rappresentazione:

Questo soggetto che inventa e crede si costituisce nel dato in modo tale da fare del dato stesso una sintesi, un sistema. È questo che bisogna spiegare. Nel problema così posto, noi scopriamo l’essenza assoluta dell’empirismo. Si può dire che la filosofia in generale abbia sempre cercato un piano di analisi da cui intraprendere e portare avanti l’esame delle strutture della coscienza, ovvero la critica, e giustificare la totalità dell’esperienza. È dunque una differenza di piano quella che oppone innanzitutto le filosofie critiche. Noi facciamo una critica trascendentale quando – situandoci su un piano

500 G. Deleuze, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, a cura di A. Vinale, Cronopio, Napoli 2012, p. 101.

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metodicamente ridotto che ci dà una certezza essenziale, una certezza d’essenza – domandiamo: come può esserci dato, come qualcosa può darsi a un soggetto, come può il soggetto darsi qualcosa? L’esigenza critica è qui quella di una logica costruttiva che trova il proprio nelle matematiche. La critica è empirica quando – ponendosi da un punto di vista puramente immanente, da cui sia possibile al contrario una descrizione che trovi la propria regola in ipotesi determinabili e il proprio modello in fisica – ci si domanda: come si costituisce il soggetto nel dato? La costruzione dell’uno rende possibile la costituzione dell’altro. Il dato non è più dato a un soggetto, il soggetto si costituisce nel dato. Il merito di Hume è di aver isolato questo problema empirico allo stato puro, mantenendolo non solo lontano dal trascendentale, ma anche dallo psicologico501.

L’inversione teorica che permette l’empirismo consiste allora nel rifiuto del soggetto come punto di partenza obbligato nell’analisi del reale, per assistere alla sua costituzione fattuale. Rivolgendosi al dato, l’empirismo si conduce d’emblée all’interno della molteplicità del sensibile, di una «collezione

d’impressioni e d’immagini»502 che è quella del movimento: «l’empirismo parte da questa esperienza

di una collezione, di una successione in movimento di percezioni distinte»503 e, nel fare ordine tra tali percezioni, si caratterizza come una filosofia della differenza: tutto ciò che può essere distinto, differisce. Come accade dunque che il soggetto che si costituisce nel dato fa del dato un sistema, ovvero della collezione una facoltà (quella dell’immaginazione)? La risposta di Hume, che fa dei principi della natura umana, ossia dei principi di associazione e di quelli di utilità, il criterio di organizzazione a partire dal quale «la collezione delle percezioni diviene un sistema»504 verrà nel

tempo ulteriormente approfondita da Deleuze505, definendo così la cornice teorica all’interno della

quale la sua filosofia si muove. In particolare, egli ne trae il principio fondamentale del legame inscindibile tra differenza e ripetizione. Nel trattare infatti delle condizioni di possibilità della abitudine, Hume sottolinea che la necessaria ripetizione a partire dalla quale la prima deriva non agisce sull’oggetto che si ripete, ma provoca una alterazione nello spirito che lo contempla. Il mutamento che avviene nello spirito è definito nei termini di una contrazione, intendendo così la capacità dell’immaginazione di individuare i casi identici che ricorrono secondo una certa

501 Ivi, p. 103.

502 Ibid.

503 Ivi, p. 104.

504 Ivi, p. 119.

505 Sebbene infatti i principi di associazione siano la condizione di possibilità delle relazioni, occorrerà rendere conto del fatto che l’associazione non spiega di per sé le relazioni, che restano esterne ai loro termini; Hume rende senz’altro conto delle abitudini del pensiero e delle caratteristiche del buon senso, ma innanzi all’associazione arbitraria di oggetti più lontani tra loro, per connettere i quali occorre una mediazione, si rifugia nella categoria, vaga, della circostanza, che indica genericamente la dimensione affettiva. In questo modo, egli apre, per Deleuze, il campo di riflessione all’interno del quale si inseriranno le riflessioni di Freud e di Bergson, ma anche dell’ultimo Husserl, nonché un terreno estremamente fertile per l’innesto di autori che verranno presi in grande considerazione da Deleuze, come Nietzsche e Spinoza, e la stessa possibilità degli esperimenti di scrittura a quattro mani con Guattari. Come nota Vinale, con un sincretismo piuttosto riuscito: «il soggetto è il delirio dell’immaginazione», cfr. A. Vinale, «Empirismo democratico», in G. Deleuze,

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successione, come accade in esperienze quotidiane quali l’ascolto del tic-tac di un orologio. Sebbene nella memoria e nell’intelletto i casi presi in considerazione restino distinti, lo spirito che contempla va incontro a una sintesi passiva, che precede l’una e l’altro. Similmente, Bergson propone l’esempio dei rintocchi di una campana: sebbene ogni colpo sia indipendente dagli altri, il soggetto li contempla in una impressione qualitativa interna, in quella sintesi passiva che è la durata. Deleuze ne conclude che la ripetizione si conserva per noi nello spazio dell’immaginario, ossia che non è possibile definire un in sé della ripetizione, perché quest’ultima appartiene alla dimensione della soggettività:

Contraendo noi siamo abitudini, ma allo stesso tempo contraiamo per contemplazione. Siamo contemplazioni, siamo immaginazioni, generalità, pretese e gratificazioni, dato che il fenomeno della pretesa non è altro che la contemplazione contraente con la quale affermiamo il nostro diritto e la nostra attesa su ciò che contraiamo, la nostra propria gratificazione in quanto contempliamo. Non contempliamo noi stessi, ma non esistiamo se non contemplando, ossia contraendo ciò da cui deriviamo506.

Per trovare l’atteggiamento attivo dell’uomo, la possibilità stessa dell’azione, occorre tenere conto di una pluralità di io passivi che contempla. L’analisi della differenza e della ripetizione rivela dunque sin da subito la necessità di pensare in termini di molteplicità, molteplicità interne al dato e molteplicità insite nel soggetto, pluralità di io all’interno dell’io che dice io, pluralità che le sintesi passive del tempo fanno emergere con chiarezza. Non solo. Se meccanicismo e termodinamica non sono in grado di restituire la complessità del reale, la ragione principale è che queste due modalità di analisi del mondo non sono state in grado di pensare la molteplicità nel tempo, dunque il tempo in

termini di durata e la durata come composizione di durate507. Merito di Hume e Bergson è senz’altro

quello di aver colto l’importanza della dimensione temporale, aprendo così un campo di ricerca fondamentale; per quanto questi due filosofi si siano spinti in avanti lungo tale direzione di ricerca, identificando quelle che Deleuze chiama la prima e la seconda sintesi del tempo, ossia quella dell’abitudine (terreno del presente che passa) e della memoria (passato puro come coesistenza dei livelli del passato), la riflessione intorno alla temporalità si trova nella sua forma più estrema proprio nell’eterno ritorno nietzschiano. La sua radicalità consiste nel fatto di rompere totalmente con la logica del fondamento, dunque della rappresentazione: con l’eterno ritorno si infrange infatti il circolo

506 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 100.

507 Ancora in Prigogine sorprende, nella sua analisi del rapporto tra sistema e scienze, la prossimità alla posizione deleuziana su questo punto. Cfr. I. Prigogine, Sistema, Enciclopedia Einaudi, 1982, cit., p. 1017: «Il sistema fisico, nel senso concreto che gli hanno dato la dinamica e la termodinamica, non conosce il tempo. Finché il sistema, isolato, chiuso o aperto, ammette una funzione potenziale, la sua verità è nel suo stato, che avrà di diritto la stessa eternità del sistema, vale a dire dei flussi o delle barriere che ne definiscono i limiti. E, sempre qui, si è arrivati a capire non come si possa superare la nozione di sistema in generale, ma perché certe questioni poste dalla fisica contemporanea possano trasgredire alcune delle limitazioni imposte dalla concezione dei sistemi generali della fisica. Ciò che è proprio di tali questioni è che si riferiscono ciò che questi sistemi generali sono stati unanimi nel tacere, negare o aggirare, vale a dire il processo».

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troppo semplice che ha per contenuto il presente che passa e per figura il passato della reminiscenza, giungendo così alla forma che supera il fondamento verso il senza-fondo, all’affermazione dell’istante come «una volta per tutte». Si tratta della prima vera formulazione di quello che Deleuze definisce, in Differenza e ripetizione, la possibilità di un «sistema dell’avvenire»508, in cui il passato come condizione e il presente come agente vengono espulsi dal movimento dell’eterno ritorno in favore dell’autonomia del futuro, dell’avvenire, della possibilità stessa della novità. È attraverso la ripetizione dell’eterno ritorno che Deleuze fa tremare l’edificio concettuale della rappresentazione, attraverso quella sua «segreta coerenza», per usare l’espressione di Klossowski, che esclude quella

dell’io, del mondo e di Dio509 (dunque tutte le coordinate di riferimento della rappresentazione). La

questione posta in Empirismo e soggettività, dunque la domanda intorno alla possibilità per un soggetto che si costituisce nel e attraverso il dato, divenendo a sua volta dato, di creare, viene qui rilanciata nei termini del rapporto tra differenza e ripetizione: quale differenza si inserisce tra due ripetizioni? Attraverso questo passaggio, è più agevole comprendere per quale ragione la critica alla rappresentazione che, come visto attraverso le sintesi passive del tempo, prende necessariamente la forma del rifiuto della logica del fondamento, si traduce immediatamente in una esaltazione del

simulacro, inteso come l’imprevisto del rapporto platonico Modello-copia510. L’eterno ritorno

nietzschiano propone un metodo della selezione che non ha niente in comune con la diairesis platonica, ossia con l’idea secondo la quale compito della logica e del linguaggio sarebbe quello di dividere un misto in due metà, per seguire di volta in volta la metà prescelta, fino a selezionare una stirpe, ma che trova piuttosto nella bergsoniana analisi dei misti un alleato fondamentale, perché entrambi selezionano partendo da una specifica forma di temporalità. Il metodo dell’intuizione,

definito da Deleuze come metodo antidialettico per eccellenza511, rinuncia infatti a partire da astratte

508 Ivi, p. 151.

509 Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 121: «Come dice Klossowski, l’eterno ritorno è la segreta coerenza che si pone solo escludendo la propria coerenza, la propria identità, quella dell’io, quella del mondo e quella di Dio, e che non fa ritornare se non il plebeo, l’uomo senza nome».

510 Cfr. ivi, pp. 166-167: «Il simulacro funziona su se stesso passando e ripassando per I centri decentrati dell’eterno ritorno, e non più secondo lo sforzo platonico di opporre il cosmo al caos, come se il Cerchio fosse l’impronta dell’Idea trascendentale in grado d’imporre la propria somiglianza a una materia ribelle, ma tutto al contrario, al modo dell’identità immanente del caos col cosmo, dell’essere nell’eterno ritorno, un cerchio diversamente tortuoso».

511 È interessante notare come tutti i contributi dedicati da Deleuze a Bergson inizino con un elogio al metodo dell’intuizione come metodo adeguato a porre e formulare i problemi veri, eliminando i falsi. Nel saggio del 1956 «Bergson (1859-1941)» si legge: «Se una certa intuizione è sempre il cuore della dottrina di un filosofo, una delle originalità di Bergson sta nell’aver organizzato l’intuizione, nella sua dottrina, come un metodo autentico, che elimina i falsi problemi e pone quelli veri, impostandoli in termini di durata» (cfr. in Id. L’isola deserta e altri scritti, cit., p. 19). Il testo «La concezione della differenza in Bergson», pubblicato nello stesso anno, sottolinea esplicitamente il legame tra strategia metodologia e approccio ontologico: «Se è vero che la nozione di differenza può in parte illuminare la filosofia di Bergson, il bergsonismo può invece recare un grandissimo contributo a una filosofia della differenza. Quest’ultima gioca sempre su due piani, quello metodologico e quello ontologico. Da una parte si tratta di determinare le differenze di natura fra le cose: solo così si potrà “tornare” alle cose stesse, renderne conto senza ridurle a altro, coglierle nel loro essere. Ma d’altra parte, se in un certo modo l’essere delle cose è nelle loro differenze di natura, possiamo sperare che la differenza stessa sia qualche cosa, che possieda una natura, insomma che ci disveli l’Essere. Questi due problemi,

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categorie logiche presunte oggettive in favore di uno sforzo di divisione rispetto allo spazio e al tempo, riconoscendo quindi, oltre al dominio delle scienze, l’urgenza propriamente filosofica di dividere in base a durate distinte dalla propria, ossia di quell’elemento soggettivo, e dunque virtuale, la cui attualizzazione comporta la molteplicità delle differenze di natura. Attraverso un metodo di analisi più adeguato alla verità del soggetto, ossia al suo essere composito e immerso in una durata, è possibile quindi passare, per Deleuze, dalle chimere della rappresentazione a un orizzonte speculativo all’interno del quale la sperimentazione, e dunque la creazione, trova infine la propria possibilità teorica di esistenza; tale prospettiva, che sembra antagonista a una teoria dell’univocità, si rivela invece l’unica in grado di soddisfarne le condizioni:

Non è l’essere analogo che si distribuisce in categorie e ripartisce una parte fissa agli essenti, ma sono gli essenti a ripartirsi nello spazio dell’essere univoco aperto da tutte le forme. L’apertura appartiene essenzialmente all’univocità. Alle distribuzioni sedentarie dell’analogia si contrappongono le distribuzioni nomadi o le anarchie incoronate nell’univoco. “Tutto è uguale” e “Tutto torna!”, risuonano soltanto qui. Ma il Tutto è uguale e il Tutto torna possono dirsi solo là dove si è raggiunto il punto estremo della differenza. Soltanto allora è possibile una sola e medesima voce per tutto il multiplo dalle infinite vie, un solo e medesimo Oceano per tutte le gocce, un solo clamore dell’Essere per tutti gli essenti. Ma occorre che per ogni essente, per ogni goccia e per ogni via, si sia toccato lo stato di eccesso, cioè la differenza che li sposta e li traveste, e li fa tornare, ruotando sulla sua mobilità estrema512.

È per questa ragione che la sperimentazione, specialmente quella artistica, sarà per Deleuze e poi per Deleuze-Guattari un elemento fondamentale, sul quale egli non mancherà di insistere. L’univocità non è il punto di partenza, ma è la scoperta alla fine della sperimentazione, il punto di massimo delirio e la prova di esservi sopravvissuti, di averlo affermato, pur perdendo il nome proprio e avendo scoperto nella natura umana un gigantesco artificio. La sfida che resta aperta è quella di capire in che modo una tale scoperta possa avvenire a partire da un anthropos che deve spogliarsi di sé per accedere

metodologico e ontologico, rinviano continuamente l’uno all’altro: quello delle differenze di natura, quello della natura della differenza. In Bergson li incontriamo nel loro legame, sorprendiamo il passaggio dall’uno all’altro» (in Id., L’isola

deserta, cit., p. 33). La monografia Il bergsonismo, oltre a esordire a sua volta con una prima sezione legata al metodo, in

cui essenzialmente vengono riproposti i tratti già accennati, giunge infine a proporre l’intuizione come un metodo della differenza in senso non dialettico: «Il metodo e la teoria bergsoniana della differenza si contrappongono a quell’altro metodo e teoria della differenza che chiamiamo dialettica, poiché, sia la dialettica dell’alterità di Platone che la dialettica della contraddizione di Hegel, implicano la presenza e il potere del negativo. L’originalità della concezione bergsoniana consiste nel dimostrare che la differenza interna non si spinge, e non deve farlo, fino alla contraddizione, all’alterità e al negativo, perché, di fatto, queste tre nozioni sono meno profonde della differenza stessa, oppure sono dei punti di vista che la colgono solo dall’esterno. [...] Spingersi fino al puro concetto della differenza, innalzare la differenza all’assoluto: è questo il senso dello sforzo di Bergson» (G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, a cura di P. A. Rovatti e D. Borca, Einaudi, Torino 2010, pp. 137-138). Al tempo poi dei libri sul cinema, Bergson sarà giocato più in chiave fenomenologica, attraverso la celebre sostituzione da «ogni coscienza è coscienza di qualcosa» a «ogni coscienza è qualcosa».

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alla dimensione dell’ontos. Il tentativo deleuziano può allora essere presentato come una forma di spinozismo sperimentale il cui scopo è quello di proseguire il progetto di Hyppolite in direzione della costituzione di un campo trascendentale impersonale, quindi di rifiutare il sistema coscienza-mondo

come a priori universale per pensare il trascendentale a partire dall’empirico513: si tratta dunque di

interrogare l’esperienza reale nella sua complessità in direzione di una logica del senso, in cui il senso è precisamente «l’identità assoluta tra l’essere e la differenza»514.