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2. IL SISTEMA

3.3 D ERRIDA

3.3.1 Il sistema impossibile

Il percorso derridiano scopre nel procedere fenomenologico la possibilità di costituire un campo trascendentale a partire dalle riflessioni di Husserl intorno alle oggettualità ideali. Tale terreno speculativo permetterà a Derrida di trovare al fondo dell’idealità una botola da palco, precipitando nella quale si anticipa e si ritrova ogni ripetizione possibile. Questa ultima forma sarà il «presente vivente, la presenza a sé della vita trascendentale», dunque in ultima istanza il luogo all’interno del quale ogni tentativo di distinzione tra soggetto e oggetto cade, lasciando così emergere l’istanza paradossale, per diversi aspetti affine a quella individuata da Foucault, sebbene cambiata di segno:

una presenza irriducibile si vede riconoscere un valore costitutivo, e con essa una vita o una non-presenza o non-appartenenza a sé del presente vivente, una mai sradicabile non-originarietà. […] Si tratta solamente di fare apparire lo spazio originale e non empirico del non-fondamento sul vuoto irriducibile dal quale si decide e in cui si libra la sicurezza della presenza nella forma metafisica dell’idealità406.

Lo spazio di questo non fondamento sarà individuato da Derrida nel linguaggio, luogo all’interno del quale la vita e la idealità si incontrano, permettendo così al senso di sorgere e di avviare l’interrogazione intorno alla sua origine. Derrida sostiene infatti che, se ogni coscienza è coscienza di qualcosa, la zona di indistinzione tra linguaggio e coscienza si estende fino a far perdere i confini dell’uno e dell’altra. Questa progressiva indistinguibilità è confermata dall’analisi intorno alle oggettualità ideali, la cui possibilità di costituzione è essenziale alla coscienza, sebbene restino dei prodotti storici legati ad «atti di creazione o di pensiero». La domanda che si pone Derrida è dunque la seguente: questa «indiscernibilità non introdurrà forse la non-presenza e la differenza (la mediazione, il segno, il rinvio, ecc.) nel cuore della presenza a sé?»407. Il percorso attraverso il quale Derrida elabora tale questione, che coinvolge l’intera postura metafisica dell’Occidente, si articola inizialmente nella forma di un commento puntuale dei e ai testi husserliani, per procedere poi in direzione di una messa alla prova in senso classico della proposta fenomenologica. La “classicità” dell’operazione risiede innanzitutto nell’accettare le premesse della proposta di Husserl e di accompagnarne la speculazione, assumendo l’impegno a seguirne gli esiti, quasi si trattasse di una seconda mano che accompagna e mostra il gesto della prima. Il commento porta però in superficie l’impensato di tale percorso, rilanciando così la necessità speculativa di proseguire l’interrogazione filosofica, la quale, come vedremo, non si formalizza come superamento, bensì come nuova domanda

406 J. Derrida, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, a cura di G. Dalmasso, Jacabook, Milano 1968, pp. 11-12.

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e come diverso luogo di analisi. È questa la prima forma assunta da quel movimento speculativo che in Derrida prenderà il nome di decostruzione, termine destinato, contro le intenzioni dello stesso autore, a definirne, specialmente sul piano della ricezione internazionale, l’insieme del percorso filosofico. Sebbene non si tratti dunque di un movimento dialettico in senso stretto, la sensazione di una certa prossimità di tipo argomentativo con quella postura filosofica che è stata il tratto tipico

dell’idealismo tedesco colpisce inevitabilmente il lettore408, chiamato a confrontarsi con la doppia

intenzione di un processo all’interno del quale la pars destruens rilancia continuamente verso una nuova indagine, destinata a sua volta a una forma di necessario ripensamento. Il senso di familiarità permane anche nel momento in cui lo sguardo del lettore passa dal metodo, o meglio dalla strategia di indagine, al contenuto tematico delle ricerche di Derrida; a differenza di Deleuze e di Foucault infatti, Derrida non rinuncia in partenza alla possibilità che il concetto di genesi sia il luogo di una dialettica, e lo indaga insistendo proprio sulla critica già rivolta da Hegel e da Husserl a Kant: il trascendentalismo come posizione speculativa è una eredità fruttuosa solo se si rinuncia alla postulazione a priori delle categorie per partire, al contrario, dalle cose stesse, e risalire solo in seguito alle condizioni. In altre parole, l’empirico regola e stabilizza il trascendentale, come in quegli anni suggerivano Tran-Duc-Thao e Althusser nei loro rispettivi progetti di fondazione e descrizione del materialismo dialettico. Se però tale posizione non trova nella dialettica hegeliana un modello adeguato, questo accade precisamente perché l’idea di sistema ha nuovamente cambiato forma nell’insieme del pensiero speculativo: sebbene vi sia infatti in Derrida «una ingiunzione al sistema cui non ho mai potuto, né voluto, rinunciare», la necessità e la volontà in questione non partono più, come vedremo, da presupposti hegeliani. La questione del sistema gioca un ruolo strategico all’interno della interpretazione dei testi di Derrida, perché permette di mettere in luce a un tempo lo «scarto», per utilizzare il termine di Vitale, da Hegel e, in una certa misura, anche da Husserl, e al contempo di sorreggere l’impalcatura di un confronto con quella che Foucault ha definito la questione fondamentale della sua generazione; si tratta dunque di affinare ulteriormente, attraverso il suo contributo specifico, i tratti caratteristici e i primi esiti di tale interrogazione.

Sarà proprio commentando l’opera dichiaratamente antisistema di Levinas che Derrida offrirà ulteriori elementi per tematizzare la necessità del sistema in filosofia e la sua funzione. La prima parte di Violenza e metafisica, pubblicato nel 1964, si rivolge precisamente al ruolo fondamentale dell’interrogazione in filosofia, dalla quale dipende l’avvenire stesso del pensiero speculativo. Modelli indiscussi di questa opera di salvaguardia della domanda sono Husserl e Heidegger, i quali,

408 A proposito del rapporto Derrida-Hegel, Vitale parla di una «prossimità quasi assoluta», indagando la quale è possibile «prendere in considerazione la possibilità di uno scarto». Cfr. F. Vitale, «Hegel: la famiglia e il sistema. Derrida interprete di Hegel II», in "Atti dell'Accademia di Scienze Morali e Politiche", Volume CXI – 2000, p. 6.

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nella «ombra immensa»409 di Hegel, hanno riconosciuto l’interrogazione come necessità del

filosofare e l’hanno riaffermata come interrogazione totale. Si tratta di un riaffermare o di un ripetere nella misura in cui questi autori rilanciano, per Derrida, una tensione propria alla postura filosofica delle origini, e che si esprime in quel mondo greco che ne ha definito il linguaggio. Si tratta, in ultima istanza, di interrogare l’insieme di quel linguaggio a partire dalla sua concettualità, sottomettendosi dunque a quella «unica tradizionalità greca»410 all’interno della quale il pensiero si muove, per scuoterla dall’interno. Questa premessa disegna, da una parte, la cornice all’interno della quale Derrida tematizza le posizioni di Levinas e, di conseguenza, di un incedere, di un movimento del pensiero, la cui possibilità sembra essere legata proprio alla discussione intorno al sistema; dall’altra, essa annuncia già la critica che la strategia derridiana del commento non mancherà di rivolgere contro lo stesso Levinas, rivendicando l’esigenza di non potersi sottrarre alla chiusura della metafisica dall’esterno:

La difficoltà è classica e non interessa soltanto il metodo. La limitatezza di queste pagine, la farà diventare ancora più grave. Non sceglieremo. Ci rifiuteremo di sacrificare la storia del pensiero e delle opere di Levinas all’ordine o al complesso di temi – non è il caso di dire sistema – che si raccolgono arricchendosi, nel libro maggiore: Totalité et Infini. Perché se si deve credere per una volta, all’accusato principale del processo istruito in questo libro, non interessa tanto il risultato quanto il divenire. Ma non sacrificheremo neppure l’unità fedele a sé dell’intenzione al divenire, che, in questo caso, risulterebbe un puro disordine. Non sceglieremo tra l’apertura e la totalità. Saremo dunque incoerenti, ma senza risolverci sistematicamente all’incoerenza. La possibilità del sistema impossibile, resterà all’orizzonte, per preservarci dall’empirismo411.

La possibilità del sistema impossibile diviene allora il primo nome di una tensione che agisce nella strategia derridiana, i cui effetti emergono proprio attraverso il movimento della decostruzione; l’errore principale di Levinas sarebbe quello di aver rinunciato in principio a tale possibilità, che salva appunto dall’empirismo, ossia da quel sogno eterologico che svanisce all’alba del linguaggio. Non si tratta, per Derrida, di porre il sistema come termine ad quem del pensiero speculativo, bensì della necessità di abitarne lo spazio dispiegato perché luogo all’interno del quale si dà un divenire irrinunciabile alla filosofia. In una certa misura quindi, tale sistema impossibile, e non la sua impossibilità, è la premessa da tenere viva nel corso della speculazione filosofica affinché questa si dia; se il sistema è impossibile, lo è però di fatto, nei suoi effetti, perché si rivela sempre contro se stesso:

409 J. Derrida, «Violenza e metafisica», in Id. La scrittura e la differenza, cit., p. 101.

410 Ivi, p. 103.

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La decostruzione […] consiste nel prendere atto – nella lettura e nell’interpretazione dei testi – del fatto che ciò che ha reso possibile l’effetto di sistema in certi filosofi è una certa disfunzione o disaggiustamento, una certa incapacità di chiudere il sistema412.

L’intera decostruzione sarebbe allora il movimento attraverso il quale tale disfunzione, l’impossibilità fattuale del sistema, ritrova infine la superficie, nella forma di un discorso che lentamente ma inesorabilmente erode la speculazione filosofica proprio a partire dalla sua origine. Il sospetto che possa trattarsi di una versione francofona della Voraussetzungslosigkeit di hegeliana memoria prende allora piede: senz’altro la decostruzione è un movimento, una attività del pensiero filosofico che sottopone a critica l’oggetto al quale si rivolge, e il cui incedere è scandito precisamente da questo momento negativo nei confronti di ciò che pure gli permette di andare avanti. La questione si complica ulteriormente prendendo in considerazione l’accusa, rivolta da più parti a Derrida, di essere, in fin dei conti, un sistematico in senso classico; la decostruzione sarebbe infatti, in ultima istanza, un movimento speculativo, possibile quindi anch’esso solo a partire dal sistema come presupposto, che si applica sistematicamente ai testi della tradizione metafisica, ottenendo come unico effetto, sempre uguale a sé, la denuncia dell’imperativo della metafisica della presenza.

È quanto accade, per citare un episodio ben noto, nella valutazione complessiva che della classicità derridiana e del suo rapporto con il sistema offre Foucault, all’interno della già citata polemica intorno allo statuto della follia in Cartesio413:

Derrida non fa che richiamare nella sua lettura una assai vecchia tradizione. Egli d’altronde ne ha coscienza; e questa fedeltà sembra, a ragione, confortarlo. Gli ripugna in ogni caso pensare che gli interpreti classici abbiano mancato, per disattenzione, di rilevare l’importanza e la singolarità del passo sulla follia e sul sogno. Sono d’accordo almeno su un fatto: non è per nulla a causa della loro disattenzione che gli interpreti classici hanno cancellato, prima di Derrida e come lui, questo passo di Descartes. È per sistema. Sistema di cui oggi Derrida è il rappresentante più decisivo, nel suo ultimo

splendore: riduzione delle pratiche discorsive alle tracce testuali; elisione degli avvenimenti che vi si

producono per trattenere solo dei segni per una lettura; invenzioni di voci dietro il testo per non dover analizzare le modalità d’implicazione del soggetto nei discorsi; citazione dell’originario come detto e non detto nel testo per non ricollocare le pratiche discorsive nel campo delle trasformazioni dove esse si effettuano414.

412 J. Derrida, M. Ferraris, Ho il gusto del segreto, cit., pp. 5-6.

413 Per una introduzione al problema, cfr. M. Vergani, Jacques Derrida, Mondadori, Milano 2000, pp. 165-169.

414 M. Foucault, «Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco», tr. it. di E. Renzi e V. Vezzoli, in Id. Storia della follia

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In questa appendice alla riedizione di Storia della follia, pubblicata nel 1972, Foucault vede dunque nell’ex allievo il gesto ormai coralmente denunciato di sacrificare la realtà alle necessità di un rigore filosofico antico, che pur di non cedere sul sistema, quindi su una certa pretesa di oggettività e coerenza, opera per omissione e invenzione, e che si fonda su presupposti ingiustificati. Vi si denuncia quello che nello stesso 1972 viene definito oltreoceano come «il “testualismo” di una lotta di classe “puramente verbale”»415, che insieme alla marginalizzazione della storia416 crea il sospetto di una

rinuncia a Marx, in favore di un atteggiamento speculativo per molti aspetti affine al positivismo417.

Sempre in suolo americano, frequentato da Derrida con regolarità dal celebre convegno del 1966 alla Johns Hopkins in poi, l’idea secondo la quale egli sarebbe più alla fine di un certo modo di fare filosofia che non all’inizio di una nuova pratica filosofica si insinua e si afferma, in particolare a seguito dell’introduzione alla traduzione inglese de La grammatologia, apparsa nel 1976. Gayatri Spivak, traduttrice e curatrice del testo, insiste sul pentagono di riferimento di Derrida, che vede ai propri vertici Heidegger, Nietzsche, Husserl, Hegel, e Freud; Derrida ne avrebbe colto l’eredità, dando il nome di decostruzione a ciò che questi «protogrammatologi» avrebbero balbettato senza

spiegare418. Inoltre, l’accento tedesco della costellazione di riferimento di Derrida lascia emergere

415 F. Jameson, La prigione del linguaggio. Interpretazione critica dello strutturalismo e del formalismo russo, cit. in F. Cusset, French Theory, cit., p. 46.

416 Su Derrida e la storia, cfr. J. Derrida, Spettri di Marx, cit, p. 98: «Mi si permetta di ricordarlo in breve: un certo modo di procedere decostruttivo, perlomeno quello in cui ho creduto di dovermi impegnare, consisteva sin all’inizio nel mettere in questione il concetto onto-teologico – ma anche archeo-teleo-logico della storia – in Hegel, Marx o anche nel pensiero epocale di Heidegger. Non per opporgli una fine della storia o una anastoricità, ma al contrario per dimostrare che questa onto-teo-archeo-teleologia blocca, neutralizza e infine annulla la storicità. Si tratterebbe allora di pensare un’altra storicità – non una nuova storia o ancor meno un “new historicism”, ma un’altra apertura dell’evenemenzialità come storicità, che permetta di non rinunciarvi, ma al contrario di aprire l’accesso a un pensiero che afferma la promessa messianica ed emancipa in quanto promessa: in quanto promessa e non in quanto programma o disegno onto-teologico o teleo-escatologico. Perché, lungi dall’esser necessario rinunciare al desiderio dell’emancipazione, pare che bisogna invece tenervi più che mai, e che proprio come all’indistruttibile costituito dall’”è necessario”. È qui la condizione di una ri-politicizzazione, forse di un altro concetto del politico».

417 Tarizzo sottolinea che, sebbene questo tratto sia particolarmente evidente in Derrida, e possa aver contribuito all’affermarsi del decostruzionismo negli Stati Uniti, ci rivela al contempo qualcosa che agisce all’interno dello stesso strutturalismo, e che i poststrutturalisti ereditano. Cfr. D. Tarizzo, Il pensiero libero, cit., pp. 14-15: «È curioso […] il successo di Derrida negli Stati Uniti. Ed è un filosofo americano (non di stretta ortodossia analitica) ad aver insinuato che “la sensibilità positivista ha aiutato il decostruzionismo ad affermarsi nel campo degli studi letterari un po’ come il pragmatismo aveva preparato, tre decenni prima, l’occupazione dei dipartimenti di filosofia americani da parte del positivismo logico” [S. Cavell, A Pitch of Philosophy, Harvard University Press, Cambridge-London 1994, p. 83]. Sia il decostruzionismo (diciamo, il Derrida prima maniera) sia il positivismo scoprono “una originarietà della scrittura rispetto alla voce, del sistema rispetto all’individuo, del segno rispetto alla parola” [ibidem]. Il privilegio va, in entrambi i casi, a un sistema di segni che possiede vita propria. E se il positivismo presenta ancora agli occhi del decostruzionista una concezione della scrittura (o della traccia) legata al predominio del registro fonetico su quello scritturale, la sola conseguenza sarà che per lui occorre potenziare ulteriormente gli automatismi del segno, che autonomamente produce il proprio testo. Il “nesso interno” tra il positivismo e il decostruzionismo potrebbe essere esteso e applicato all’idea strutturalista in generale. È piuttosto inutile chiedere a uno strutturalista chi stia parlando e da dove stia parlando, la sua risposta verterà unicamente su ciò di cui si parla: “l’inconscio esiste” risponde Lacan. E in maniera analoga: la traccia esiste (Derrida), la serie esiste (Deleuze), l’enunciato esiste (Foucault)…».

418 Cfr. F. Cusset, French Theory, cit., p. 138: «è la prima tappa di un ribaltamento capitale: da quel momento gli americani vedranno in Derrida non tanto l’eterodosso prosecutore della tradizione filosofica o magari colui il quale ne dissolve il testo, quanto invece il suo sublime compimento, una sorta di empireo del pensiero critico che sarebbe stato semplicemente preparato dai suoi precursori tedeschi».

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con ulteriore chiarezza il peso dell’assenza di Marx. Eppure, quando Derrida scriverà di Marx, lo farà sottoscrivendo Le tre parole di Marx di Blanchot, ossia affermando l’essenziale di Marx per il pensiero nello sforzo «di pensare il “mantenere insieme” del disparato stesso», un disparato che si compone di insiemi, tre sorte di parole ben distinte e forse persino opposte tra loro. Esigenza che si ritrova nella decostruzione, che si iscrive a sua volta all’interno di tale imprescindibile teorico:

La decostruzione non ha mai avuto senso e interesse, almeno ai miei occhi, se non come radicalizzazione, cioè anche nella tradizione di un certo marxismo, in un certo spirito del marxismo. Con la decostruzione si è tentata una radicalizzazione del marxismo (e in essa, alcuni lo avranno notato, un certo concetto economico dell’economia differenziale (différantielle) e dell’exappropriation, anzi del dono, gioca un ruolo organizzatore, al pari del concetto di lavoro connesso alla différance e al lavoro del lutto in generale). Se questo tentativo è stato prudente e parsimonioso, seppur raramente negativo, nella strategia dei suoi riferimenti a Marx, è perché l’ontologia marxista, il richiamarsi a Marx, la legittimazione basata su Marx erano in qualche modo troppo saldamente controllati. Sembravano saldati a un’ortodossia, a degli apparati e a delle strategie il cui inconveniente minimo non era solo che, in quanto tali, erano prive di avvenire, prive dello stesso avvenire. Si può intendere avvenuta per saldatura un’adesione artefattuale ma salda, il cui stesso evento ha costituito tutta la storia del mondo da più di un secolo e mezzo, e quindi tutta la storia della mia generazione419.

La storia di quella generazione di cui Derrida fa parte sarebbe allora lo sforzo di radicalizzazione non già di una proposta esclusivamente metafisica, ma di un progetto etico-politico che impone il compito teorico di insistere sulla zona di indeterminazione tra concetti storicamente affermatesi come opposti tra loro, per esaltare al contrario l’indecidibilità di una “o” che li divide senza che ci si possa risolvere in favore di un vel o di un aut. Si tratta di una questione che risuona nel panorama filosofico del post-strutturalismo, e che Deleuze e Guattari interrogano come problema di consistenza o di consolidamento, da sostituire all’antica interrogazione sul rapporto tra fondazione e fondamento o sul principio primo, secondo una intuizione che mette insieme la traiettoria marxiana e le riflessioni di

Nietzsche420. Non si tratta quindi, in Derrida, di una metafisica del testo, e neanche, come insinua

Foucault, di una forma ben precisa di pedagogia, bensì di una riflessione intorno alla necessaria e irriducibile presenza dell’altro nell’uno, che trova nel linguaggio terreno fertile per il proprio sviluppo:

419 J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 119.

420 Cfr., G. Deleuze, F. Guattari, «1837. Del ritornello», in Id. Mille Piani, cit., p. 474: «Il problema non è più quello di un principio e neanche quello di una fondazione-fondamento. È divenuto un problema di consistenza o consolidamento: come consolidare il materiale, come renderlo consistente, perché possa captare queste forze non sonore, non visibili, non pensabili? […] Ricordiamoci dell’idea di Nietzsche: l’eterno ritorno come piccola filastrocca, come ritornello, ma che cattura le forze mute e impensabili del cosmo. Si esce dunque dai concatenamenti per entrare nell’età della Macchina, immensa Meccanosfera, piano di cosmicizzazione delle forze da captare».

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Bisognerebbe riflettere con pazienza a quel che accade nella lingua allorché il pensiero greco dell’eteron sembra spegnersi di fronte all’alter-huic, sembra farsi impotente a dominare quello che