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I figli della famiglia di fatto prima della riforma del

2.5 L’interesse dei figli della famiglia di fatto

2.5.1 I figli della famiglia di fatto prima della riforma del

La tradizione secolare del nostro Paese ha conosciuto una profonda discriminazione e conseguente disparità di trattamento giuridico e

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sociale nei confronti dei figli a seconda che fossero nati da genitori coniugati ovvero al di fuori del matrimonio, distinguendo a seguito della riforma del 1975111, tra figli legittimi ossia concepiti da genitori uniti in matrimonio( rilevante era il momento del concepimento) e figli naturali( ex illegittimi) concepiti da genitori non sposati. Inoltre avvilente era considerato lo status dei figli adulterini, cioè di coloro che erano stati generati al di fuori del matrimonio ma da persone sposate: fino alla riforma del 1975, tali figli non potevano neppure essere riconosciuti. Le principali differenze e disparità di trattamento giuridico a discapito dei figli naturali riguardavano i diritti successori, in quanto i figli naturali non avevano alcun diritto legale sulla successione degli altri parenti di sangue( dunque con forte limitazione della relazione di parentela, limitata al rapporto figlio- genitore a seguito di formale riconoscimento) , e la previsione del diritto di commutazione in capo ai figli legittimi( i quali potevano soddisfare in denaro o beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali in caso di loro mancata opposizione). Nella giurisprudenza di merito, era molto frequente un orientamento che tendeva all’applicazione analogica dei criteri statuiti dall’art. 155, 4° comma, c.c. nella crisi della famiglia di fatto nell’ipotesi di casa familiare in comproprietà tra genitori conviventi more uxorio, assegnando la casa familiare al genitore affidatario dei figli minori. Le corti di merito, a causa del vuoto normativo sussistente nella materia de qua, erano solite optare per un’interpretazione analogica della normativa prevista per i procedimenti di separazione e divorzio, prevedendo dunque l’assegnazione della casa familiare al partner convivente affidatario di prole o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti dal punto di vista economico. Fondamentale importanza ha rivestito la sentenza della Corte Costituzionale n. 166/1988, la quale venne investita della questione di legittimità

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proprio dell’art. 155, 4° comma, c.c. nella parte in cui non prevedeva, in caso di cessazione della convivenza more uxorio, l’assegnazione della casa familiare all’ex convivente affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti. La Corte Costituzionale evidenziò in primis la non similarità tra famiglia legittima e famiglia di fatto e dunque, inapplicabilità analogica dell’art. 155, 4° comma, c.c. In secundis, La Corte osservò che l’inapplicabilità di tale disciplina alle famiglie di fatto non pregiudicasse i diritti dei figli dei genitori non sposati rispetto a quelli della prole nata all’interno del matrimonio, poiché la tutela dei diritti dei primi era considerata direttamente collegata ai doveri facenti capo ai genitori112. La questione di legittimità dell’art. 155, 4° comma, c.c. venne ritenuta non fondata con riferimento agli artt. 3 e 30 Cost., nella parte in cui non prevedeva la possibilità di assegnazione in godimento della casa familiare al genitore(non titolare di diritti reali o personali sull’immobile) affidatario di minore o convivente con prole maggiorenne non autosufficiente economicamente, in ipotesi di cessazione della convivenza di fatto. Argomentò circa la mancanza di una norma specifica che regolasse le conseguenze riguardo ai figli della cessazione del rapporto di convivenza di fatto tra i genitori, affermando che attraverso un’interpretazione sistematica delle norme sussistenti in tema di filiazione fosse possibile trarre la regola iuris da applicare in concreto, senza necessità di ricorrere all’analogia: ciò in quanto, secondo la Corte, l’interesse del figlio all’abitazione era correlato alla situazione giuridica soggettiva di dovere facente capo al genitore. Tale sentenza fu determinante al fine di riconoscere ai figli nati da genitori non sposati la medesima tutela riconosciuta normativamente ai figli nati all’interno di un’unione matrimoniale, di permanere nella casa familiare essenziale per lo sviluppo e la

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Giust. Civ., 1998, I, 1759 rif. in Contiero, L’assegnazione della casa familiare, 2014.

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personalità dei figli. Successivamente alla pronuncia di tale sentenza della Corte Costituzionale e prima dell’entrata in vigore della L. n° 54/2006, l’orientamento giurisprudenziale prevalente si allineava con la prima, nell’ottica dei doveri spettanti ai genitori nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, legittimando ulteriormente lì applicazione analogica alla crisi della famiglia di fatto delle norme previste nella disciplina generale di separazione e divorzio. In particolare, la Corte di Cassazione in una sentenza del 2004113 ha affermato che l’attribuzione giudiziale del diritto di continuare ad abitare nella casa familiare, in ipotesi di cessazione della convivenza more uxorio, al convivente cui sono stati affidati i figli minori o maggiorenni non ancora autosufficienti economicamente per motivi indipendenti dalla loro volontà “ è da ritenersi possibile per effetto della sentenza n. 166/ 1998 della Corte Costituzionale, che fa leva sul principio di responsabilità genitoriale, immanente nell’ordinamento e che promana dall’interpretazione sistematica degli artt. 261( che parifica dover e diritti del genitore nei confronti dei figli legittimi e di quelli naturali riconosciuti), 147 e 148( comprendenti il dovere di apprestare un’idonea abitazione per la prole, secondo le proprie sostanze e capacità) c.c., in correlazione all’art. 30 Cost.” (il quale si rivela determinante in quanto statuisce che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio”) . Continuava poi la Corte di Cassazione asserendo che il diritto di abitare nella casa familiare era attribuito dal giudice al convivente, in caso di sussistenza dei presupposti stabiliti dalla legge attraverso un giudizio a carattere discrezionale, insuscettibile di sindacato ulteriore se adeguatamente motivato. Per cui, il diritto di proprietà o di godimento di cui fosse stato titolare o contitolare l’altro genitore convivente veniva compresso temporaneamente fino al raggiungimento della maggiore età o dell’indipendenza economica

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dei figli maggiorenni, trovando la ratio nell’esclusivo interesse della prole alla conservazione dell’habitat domestico anche dopo la rottura del rapporto fra i genitori. Concludendo, in assenza di una qualche previsione normativa nella materia de qua, l’assegnazione della casa familiare nella crisi della convivenza di fatto ha soggiaciuto al criterio analogico della prevalenza dell’interesse della prole stabilito nei procedimenti di separazione e divorzio. E’ importante ricordare che, ai fini di una maggiore tutela della prole naturale nei confronti di eventuali pretese dei terzi sulla casa familiare, nel 2005 la Corte Costituzionale, richiamando i principi già enunciati nella precedente sentenza n. 166/1988, ha chiarito che il diritto all’assegnazione della casa familiare al genitore affidatario di prole naturale può trarsi in via di interpretazione sistematica dalle norme che disciplinavano già i doveri dei genitori verso i figli. E alle medesime conclusioni, si può pervenire relativamente alla possibilità per il genitore naturale affidatario di minore, non titolare di diritti reali o personali di godimento sull’immobile, di trascrivere il provvedimento di assegnazione nei registri immobiliari. Ciò al fine primario di garantire effettività alla tutela dei diritti della prole anche in caso di un eventuale conflitto con i terzi114.

Un’innovazione di immensa portata si è presentata con l’entrata in vigore della legge n. 54/2006, recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli” , in quanto ha introdotto per la prima volta una norma volta a disciplinare una delle problematiche di maggior interesse per le coppie di fatto con figli. Ai sensi dell’art. 4, 2° comma, della suddetta legge è previsto che le disposizioni della stessa venissero applicate anche “ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”, dunque anche l’art. 155-quater aggiunto al codice civile in tema di assegnazione della casa familiare, per la regolamentazione della sorte proprio di

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quella casa adibita a “focolare” della coppia di fatto e dei loro figli. L’art. 155-quater c.c., al suo primo comma, ultimo periodo, conferiva normativamente maggiore tutela sia ai genitori non coniugati che alla prole, offrendo la possibilità, già anticipata dalla sentenza del 2005 della Corte Costituzionale, di trascrivere il provvedimento di assegnazione della casa familiare al fine di prevenire eventuali conflitti con i terzi, che potessero danneggiare in primis la prole.

Tuttavia, la legge n. 54/2006 se ha avuto questo ed altri meriti, non è riuscita totalmente a spazzare via gli antichi retaggi di una lunga tradizione, continuando a distinguere, sia nella terminologia che in termini di trattamento giuridico, tra figli legittimi e figli naturali, continuando a dare la forte impressione che la legge del nostro Paese operasse una distinzione categorica fra figli “di serie A” e figli “di serie B”. Conseguentemente, le coppie di fatto, che trovano il loro fondamento in un’unione affettiva non consacrata nel vincolo del matrimonio, hanno vissuto con ulteriore e più che giustificato sgomento la conservazione del trattamento giuridico e sostanziale deteriore nei confronti loro e dei figli generati, definiti come naturali quasi in contrapposizione più che distinzione ai figli legittimi.