3. L’assegnazione della casa familiare nella coppia di fatto: evoluzione giurisprudenziale e recenti svilupp
3.2 Convivente more uxorio e tutela possessoria nella sentenza della Corte di Cassazione n ° 7214/
3.2.2 La tutela del convivente non proprietario nella sentenza della Suprema Corte n ° 7214 del
159 Trib. Milano, Sez. IV, 7 maggio 2008.
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La vicenda, oggetto della decisione n. 7214/2013 della Suprema Corte, vedeva per protagonisti due membri di una coppia di fatto, conviventi da molti anni in un immobile donato dall’uomo alla convivente. L’unione non aveva generato figli, e quando la coppia entrò in crisi, la donna aveva senza alcun preavviso sostituito le serrature ed estromesso l’ex partner dall’abitazione, giustificandosi affermando la natura precaria della loro convivenza di fatto e la permanenza del convivente non proprietario quale mero ospite. Il Tribunale di Roma, nel 1998, accolse la domanda possessoria presentata dal convivente non proprietario, condannando la
convivente che lo aveva estromesso a reintegrarlo nel compossesso e a risarcirgli il danno. Anche la Corte d’Appello di Roma, nel 2006160
, aveva confermato la sentenza resa in primo grado, rigettando il gravame della convivente proprietaria: il giudice di seconda istanza sottolineò come, anche successivamente alla dichiarazione di trasferimento del possesso reso dall’uomo nell’atto di alienazione dell’immobile a favore della donna, la convivenza more uxorio era comunque continuata ed inoltre, l’uomo seguitava nell’utilizzo dell’appartamento, sia pernottandovi tenendone le chiavi, sia svolgendovi la propria professione. Nel 2007, la donna ha proposto ricorso per Cassazione, adducendo che la situazione di fatto del convivente more uxorio sarebbe per natura caratterizzato da precarietà, ed anche se via fosse mai stato il compossesso
dell’immobile, si sarebbe comunque estinto per la cessazione della convivenza o con la semplice manifestazione della volontà della convivente di non voler proseguire il rapporto. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della convivente, con
un’argomentazione particolarmente incisiva che evidenzia la sempre maggiore e peraltro, condivisibile rilevanza che la Corte stessa riserva alle coppie di fatto. La Suprema Corte ribadisce il principio,
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affermato spesso anche in precedenza, secondo cui la convivenza come fatto non rileva ex se ai fini della configurazione in capo alle persone, conviventi con il possessore del bene, di un potere sulla cosa, per cui non si può parlare di possesso autonomo o compossesso in relazione a tali soggetti. Quindi, da questo punto di vista, una relazione tra conviventi stabile e duratura che sfociasse nella rottura non rileverebbe ai fini della tutela del convivente non proprietario, relegato nell’ “indifesa posizione dell’ospite”. La Corte però subito continua asserendo che ci sono state pronunce di segno opposto a tale orientamento: in particolare, richiama la sentenza n. 9786 del 2012, nella quale lo stesso giudice aveva stabilito che il convivente more uxorio che goda del medesimo bene insieme con il partner
possessore iure proprietatis è titolare di una posizione che può essere ricondotta alla detenzione autonoma, qualificata “dalla stabilità della relazione familiare e protetta dal rilievo che l’ordinamento a questa riconosce”. Ciò premesso, la Corte esprime l’intenzione di voler continuare l’indirizzo espresso in precedenza anche in tale ultima sentenza, sicuramente favorevole al riconoscimento di una tutela possessoria a favore del convivente more uxorio non proprietario. La convivenza di fatto determina un potere di fatto basato su “un
interesse proprio ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità”: la casa familiare, ove si sviluppano le abitudini, le consuetudini di vita e si programma la vita in comune, assume così un rilievo fondamentale per il partner non titolare di alcun diritto su di essa. E nella patologia del rapporto di coppia, quando il
convivente proprietario estromette in maniera violenta o clandestina il partner dalla casa, la Corte dà piena giustificazione al ricorso alla tutela possessoria da parte dell’estromesso: anche se non può vantare alcun diritto sull’immobile, tuttavia la stessa casa durante la
convivenza della coppia è stata nella piena disponibilità di entrambi. La tesi della ricorrente, secondo la quale il convivente è considerato
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come un mero ospite, è contraria - prosegue la Corte- alla dignità del rapporto di convivenza more uxorio, il quale, a determinate
condizioni, crea un “autentico consorzio familiare, investito di funzioni promozionali”. Tra gli elementi che conferiscono rilevanza alla convivenza di fatto, si annoverano il reciproco e rispettivo riconoscimento di diritti del convivente, che si consolida in maniera progressiva con il passare del tempo insieme, e la spontaneità di una condotta che si concretizza nella volontà di una convivenza libera da vincoli che non siano di affectio. La Corte sottolinea l’evidente assenza di una normativa organica sulle convivenza non basate sul vincolo matrimoniale, anche se il legislatore ha comunque
disciplinato tale fenomeno in alcuni settori specifici: tra gli esempi paradigmatici, la filiazione (con la riforma del 2012/2013 è stata definitivamente eliminata ogni discriminazione tra figli di coppie sposate e non unite in matrimonio) e l’estensione al convivente degli ordini di protezione contro gli abusi familiari ex art. 342-bis e 342- ter c.c. ( introdotti a seguito della L. n. 154/2001) . La Suprema Corte poi evidenzia come anche la giurisprudenza costituzionale abbia avuto il merito di ribadire che un rapporto consolidato,
ancorché di fatto, non è costituzionalmente irrilevante ex art. 2 della Costituzione, nell’ambito delle formazioni sociali ove si svolge la personalità dell’individuo161
, ed anche la dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell’art 6, legge n. 392/1978 ha rivestito un ruolo fondamentale. Di conseguenza, essendo la famiglia di fatto compresa tra le formazioni sociali ex art. 2 della Costituzione quale sede di espressione e di sviluppo della personalità dell’individuo, secondo la Suprema Corte il convivente gode della casa familiare allo scopo di soddisfare un interesse proprio e di entrambi i membri della coppia, anche se la casa è di proprietà del partner. Il titolo sulla base del quale si realizza il godimento della casa familiare ha
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contenuto strettamente personale, rilevante giuridicamente e costituzionalmente, così da assumere “i connotati tipici della
detenzione qualificata”. Ciò posto e considerato, tuttavia la Corte di Cassazione è ferma nel ribadire, alla stregua di quanto fece la Corte Costituzionale nel 1988, la diversità tra la convivenza di fatto, fondata sui sentimenti e come tale revocabile liberamente ed in ogni tempo, ed il rapporto tra i coniugi, il quale presenta tra i suoi
connotati fondamentali la stabilità,certezza e reciprocità di diritti e doveri che nascono soltanto dall’unione matrimoniale. Tuttavia, tale differenziazione non comporta che in un’unione libera (diventata con il passare del tempo stabile ed esclusiva dando inoltre luogo a
contribuzioni di natura patrimoniale) il rapporto del convivente con la casa destinata a comune abitazione, sebbene di proprietà dell’altro convivente, sia basato su un titolo irrilevante dal punto di vista giuridico quale è la mera ospitalità invece che su un accordo a contenuto personale posto “alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, come tale anche socialmente riconoscibile” .
Uno degli aspetti più rilevanti posti in evidenza dalla Suprema Corte è il richiamo al principio della buona fede e della correttezza,
clausola generale la quale sta e deve stare alla base di ogni rapporto giuridico, anche di contenuto personale: l’estromissione di fatto del convivente non proprietario dalla casa familiare, alla stregua di tali canoni, non è consentito, poiché sussiste una fondamentale esigenza di protezione a favore dei soggetti più deboli. Per cui il legittimo proprietario che, in caso di crisi nella coppia, voglia recuperare pienamente l’esclusiva disponibilità del suo immobile (quale è suo diritto), deve avvisare il convivente non proprietario e concedergli un termine congruo affinché trovi un’altra sistemazione162
.
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La Suprema Corte conferma la sentenza della Corte d’Appello di Roma, che, nel caso di specie, anche se aveva considerato la situazione del convivente quale compossesso anziché detenzione qualificata autonoma fondata su “un negozio giuridico di tipo familiare”, aveva deciso conformemente al diritto. Infatti, riconoscendo al convivente estromesso il diritto di agire in reintegrazione ex art. 1168 c.c. a seguito di spoglio violento, allo scopo di poter abitare nuovamente nella casa familiare dove si era sviluppata la relazione di fatto, la Corte d’Appello aveva comunque negato che si potesse parlare di mera ospitalità da parte del
convivente proprietario nei confronti della persona, non titolare di alcun diritto sull’immobile, con la quale si era realizzata una convivenza more uxorio.
Perciò la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 21 marzo n. 7214 del 2013, ha rigettato il ricorso limitatamente ai motivi
prospettati dalla ricorrente contro la reintegrazione nella casa familiare del convivente non proprietario estromesso. Concludendo, alla luce della sentenza della Suprema Corte si può affermare in sintesi che la convivenza more uxorio dà luogo ad una relazione di fatto, che si sviluppa sulla casa in cui si attua il programma di comunione di vita, fondata su un interesse autonomo non definibile in termini di mera ospitalità o per ragioni di servizio, ma
configurabile quale detenzione qualificata autonoma.
Conseguentemente, il convivente non proprietario della casa familiare non può essere allontanato sic et simpliciter e ad nutum dall’abitazione comune, ma ha pieno diritto ad un termine congruo (sindacabile, quanto alla congruità, eventualmente in sede di giudizio di merito) ai fini del reperimento di un’altra sistemazione in cui riparare. Pertanto, l’estromissione violenta o clandestina del
convivente dalla casa familiare compiuta dal convivente proprietario di essa consente al primo di esperire l’azione di spoglio ai fini della
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reintegrazione nel possesso, anche se la ritrovata disponibilità dell’abitazione può essere solo temporanea e durare fino a che il convivente “cacciato” non trovi altro idoneo alloggio.