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1.5 Disciplina in materia di divorzio:caratteri comuni e peculiarità

1.5.1. Questioni tributarie

Un’ultima differenza di rilievo in materia di assegnazione della casa familiare tra le procedure di separazione e di divorzio attiene alla problematica tributaria relativa alla detraibilità fiscale degli interessi passivi conseguenti al contratto di mutuo stipulato per l’acquisto della casa familiare e ancora in essere al momento dell’assegnazione della stessa in sede di separazione o di divorzio.

Tale problema riguarda sia il coniuge non assegnatario che sia unico proprietario dell’immobile adibito a casa familiare per l’acquisto della quale abbia contratto un mutuo, sia il coniuge comproprietario non assegnatario che abbia contratto insieme all’altro il mutuo. Tale deducibilità fiscale è condizionata al fatto che il mutuo sia stato contratto per la casa di abitazione principale ed abituale dimora del

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contraente o dei suoi familiari; per quanto riguarda la deducibilità in caso di assegnazione all’altro coniuge occorre distinguere a seconda che i coniugi siano separati o divorziati:

1) Nel caso di separazione giudiziale o consensuale, nelle more della quale il vincolo coniugale continua a persistere seppure indebolito, il coniuge assegnatario continua ad essere a tutti gli effetti familiare del mutuatario e quindi la permanenza del primo nella casa coniugale legittima la deducibilità fiscale a favore del secondo;

2) Il divorzio invece, comportando la cessazione degli effetti civili o lo scioglimento del matrimonio fa decadere ogni legame di familiarità tra i coniugi determinando l’estinzione del vincolo di coniugio. In questo ultimo caso pertanto, qualora nella casa coniugale continui ad abitare solo l’ex coniuge, il non assegnatario non potrà più beneficiare delle detrazioni.

Interessante notare è come invece la detraibilità sarà sempre possibile , anche in caso di divorzio, quando nella casa familiare vivano abitualmente, oltre all’ex coniuge, i figli o altri familiari del non assegnatario.

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2.

TUTELA

DELLE

CONVIVENZE

SENZA

MATRIMONIO

NELLA

PATOLOGIA

DEL

RAPPORTO

“ La famiglia è un’isola che il mare del diritto può lambire soltanto”

A.C. Jemolo, La famiglia e il diritto, 1948

2.1.1 “Casa familiare” e “Coppia di fatto”: prospettive definitorie

La fortunatissima espressione del grande giurista Arturo Carlo Jemolo, proposta in un articolo di fondo de “La Stampa”, mantiene ancora oggi la sua attualità: ponendosi il problema dei limiti dell’intervento del legislatore nella disciplina della famiglia, seppure nel contesto delle ingerenze dello stato fascista, Jemolo creò la celebre immagine dell’isola per evidenziare che la famiglia può soltanto essere lambita, ossia sfiorata, dalle fonti eteronome in quanto una maggiore penetrazione del diritto rischierebbe di travolgerla (o di sommergerla)85. Tale affermazione esprime un’esigenza sentita da secoli, quella di riconoscere alla famiglia in quanto tale e ai suoi membri indipendenza, libertà e tutela di diritti; al contempo però significa anche che il diritto esercita un proprio ruolo nella tutela della famiglia.

In quanto tendenza espressa nel corso della storia, così come sintetizzata in questa celebre espressione, deve darsi conto che i tempi, così come le realtà sociali, cambiano: vi sono ambiti che richiedono, seppure con le dovute ed opportune cautele, che il

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G. Giacobbe, La famiglia nell’ordinamento giuridico italiano, Lumsa 2011, pag. 2.

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legislatore intervenga con norme adeguate, altrimenti a causa del suo mancato intervento potrebbero verificarsi dei fenomeni in qualche misura agli antipodi della concezione della famiglia “ tradizionale” quale società naturale fondata sul matrimonio (art. 29 Costituzione); e tali fenomeni in maniera inevitabile finiscono per diffondersi nella società e, di conseguenza, pretendono di ottenere la “cittadinanza” anche in ambito legislativo.

Il riferimento è specificamente rivolto alla cosiddetta “convivenza more uxorio” ovvero, in termini entrati nel linguaggio comune, “famiglia di fatto” o “coppia di fatto” : tale è l’unione di due persone di stato libero, le quali si conformano spontaneamente ai diritti e doveri nascenti dal matrimonio propri dei coniugi, malgrado il difetto dell’elemento formale della celebrazione del matrimonio stesso ex art. 106, c.c86.

Occorre distinguere le “coppie di fatto” dalle cosiddette “unioni civili” : anche se si tratta in entrambi i casi della convivenza fra due persone legate da vincoli affettivi, non sposate per scelta o per impossibilità di contrarre matrimonio, le “unioni civili” hanno ottenuto legittimazione giuridica o comunque l’attribuzione di uno status giuridico da parte del rispettivo ordinamento.

Infatti attualmente in Italia l’unico modello di famiglia giuridicamente riconosciuto è quello consacrato nell’art. 29 della nostra Costituzione, il quale espressamente sancisce che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” : non ogni aggregazione tra persone può essere qualificata, sul piano costituzionale, come famiglia ma soltanto quell’unione che trova il suo fondamento nell’atto del matrimonio, il quale viene quindi a porsi come titolo giuridico per l’esercizio dei diritti e doveri riconosciuti alla famiglia. L’impostazione di impronta tipicamente cattolica inferta dal

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Fiorella D’Angeli, La tutela delle convivenze senza matrimonio, Giappichelli Editore, pag. 11 ss.

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Costituente agli art. 29, 30 e 31 Cost. mostra dunque la tendenza al favor matrimonii, dando la preminenza e preferenza ad un unico modello di famiglia nel nostro ordinamento, riconoscendo come famiglia legittima solo quella originata dal matrimonio, a discapito dunque di altre unioni caratterizzate dall’assenza di vincolo coniugale che nel corso del tempo si sono diffuse sempre più nel nostro Paese, fino a superare attualmente e abbondantemente il milione.

Dalla famiglia patriarcale a struttura fortemente gerarchica del codice civile del 1942, le relazioni e le unioni fra individui non sposati si sono evolute costantemente verso un sempre maggior bisogno di libertà e tutela di diritti, non incontrando tuttavia il favor del Legislatore, sempre fortemente ancorato al dettato costituzionale dell’art. 29; parte della dottrina ritiene che la tutela costituzionale e la conseguente legittimazione delle unioni non fondate sul matrimonio è da rinvenirsi nell’art 2 Cost., il quale si riferisce al riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali l’individuo si inserisce ed esplica la propria personalità. Tuttavia questa ricostruzione non ha trovato appoggio, in considerazione del fatto che, con riferimento alle formazioni sociali definite “coppie di fatto” la disposizione dell’art.2 deve essere interpretata sistematicamente e specificamente con l’art. 29, nel quale essa trova specificazione, ritornando dunque all’unità categoriale della famiglia fondata sul matrimonio, pur non negando comunque dignità alla famiglia di fatto intesa come formazione sociale

A rigore anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 166 del 1998, sancì l’inestensibilità delle norme e dei procedimenti di separazione dei coniugi ai conviventi more uxorio con prole, in quanto la loro unione rappresenta l’espressione di una scelta di libertà dalle regole imposte dalla legge in materia matrimoniale, e

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pertanto l’applicazione analogica di tali regole alla famiglia di fatto può costituire una violazione del principio di libera determinazione delle parti. Ed in alcune sentenze più recenti87 ha ribadito che la convivenza more uxorio ed il vincolo coniugale sono intrinsecamente diversi e non possono essere assimilati al punto da pretendere una parità di trattamento, venendo in rilievo nel primo caso esigenze di tutela delle relazioni affettive di carattere individuale, mentre nel secondo caso anche quella della protezione della famiglia basata sulla stabilità dei rapporti e certezza e reciprocità dei diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio.

Eppure la convivenza monogamica di due persone può presentarsi anch’essa come una relazione duratura ed abituale, esprimendo al pari dei coniugi una totale comunione di vita materiale e spirituale, riproducendo dunque pressoché in toto i connotati tipizzanti il rapporto di coniugio: dando vita ad un nucleo familiare con prole, in caso di coppie di sesso diverso, adottando comuni progetti di vita e, soprattutto, eleggendo una comune residenza o domicilio senza che ci si possa astenere dal parlare intuitivamente di casa familiare. Infatti la casa familiare, intesa come luogo di abituale convivenza e perno degli affetti, interessi e consuetudini di vita assume rilevanza fondamentale anche nell’ambito delle convivenze more uxorio quando queste si svolgano e si sviluppino all’interno di un immobile con le caratteristiche oggettive dell’abitualità, stabilità e continuità. Non esiste nel nostro ordinamento alcuna norma di legge che imponga ai conviventi more uxorio il dovere della coabitazione alla stregua di quanto prevede il codice civile per i coniugi, ma è indiscutibile ed evidente che il presupposto fondamentale di tali relazioni sia costituito dalla convivenza di una coppia nella medesima casa, la quale adotta uno stile di vita affine a quello della famiglia fondata sul matrimonio. Il legame fra coppie di fatto e casa

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familiare si manifesta oggi più che mai, e il cambiamento delle forme familiari viene costantemente rilevato in esponenziale crescita su scala nazionale: le convivenze sono in continuo aumento nel nostro Paese, e secondo i dati dell’Istat sono quasi raddoppiate nel corso degli ultimi anni, passando da 500.000 a un milione nel quadriennio 2007-2011.

Nonostante l’evidente diffusione nella nostra società del fenomeno dilagante della convivenza al di fuori del matrimonio, essa non è ancora giuridicamente salvaguardata né riconosciuta (proprio per questa ragione, si parla nel linguaggio corrente di “coppie di fatto” ) e l’unica osservazione certa che è possibile compiere è che non rappresenta un’unione illecita.

Ciononostante, anche un’unione stabile fra due persone conviventi può comportare l’insorgenza di diritti e doveri specifici: a differenza dell’istituto matrimoniale, racchiuso in una disciplina omogenea ed unitaria, il quadro normativo è frammentario e la dottrina e la giurisprudenza svolgono un ruolo di integrazione e di supporto di indubbia rilevanza. Dottrina rilevante è propensa per l’applicazione analogica dell’art. 144 c.c., relativo all’indirizzo della vita familiare e alla residenza della famiglia concordate dai coniugi, anche alle famiglie di fatto, argomentando che indirizzare la vita familiare e fissare la residenza sia una necessità, un modus vivendi naturale e le situazioni concrete cui fa riferimento l’art. 144 c.c. sono ritenute, sulla base della comune esperienza, anche pertinenti alla famiglia di fatto tanto da giustificare l’estensione analogica88.

Le coppie di fatto, al pari di quelle legate dal vincolo matrimoniale, non sono certo immuni dalle vicende patologiche che possono travolgere qualsiasi relazione interpersonale, determinando una crisi che può sconvolgere gli assetti della vita in comune: sussistono però

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sostanziali differenze con riguardo al trattamento riservato (o sarebbe più opportuno osservare, non riservato) a tali accadimenti.

Innanzitutto, con una considerazione del tutto similare alla disciplina in tema di separazione e divorzio fra coniugi, anche nel caso delle coppie di fatto occorre porre in evidenza il rilevo che assume la presenza di prole generata in assenza di matrimonio, e la correlativa diversità di trattamento giuridico: stante il mancato riconoscimento delle convivenze more uxorio nel nostro ordinamento, il diritto di famiglia riconosce ambiti di tutela alla famiglia di fatto soltanto in presenza di figli, per cui è previsto il ricorso al giudice al fine di stabilire, oltre alle modalità di affidamento e mantenimento di essi, anche l’assegnazione della casa familiare. Al contrario, in linea generale, nessuna disciplina organica è prevista dall’ordinamento nel caso in cui i conviventi more uxorio non abbiano generato prole: la famiglia di fatto dunque non comporta diritti e doveri, tantomeno quando l’affectio che sta alla base del rapporto venga meno, determinando unicamente la sussistenza di specifici adempimenti alla presenza di prole. Ciò è sicuramente il risultato di un silenzio normativo lungo ed ancora non sanato, nonostante il legislatore sia intervenuto con riforme innovative ed imponenti in tema di diritto di famiglia, quale quella attuata con la L. n. 151/1975 e, prima ancora, l’introduzione del divorzio con la L. n. 898/1970, le quali disciplinano soltanto le conseguenze giuridiche per i coniugi e i figli della separazione e del divorzio, senza alcun riferimento, implicito od esplicito, alla tutela della prole generata da una coppia di fatto. Una conseguenza inevitabile, ma prevedibile, di questo vuoto normativo fondamentale, che rende nella realtà concreta superata l’esigenza espressa a suo tempo che il diritto non stravolga l’ “isola” della famiglia, di qualunque famiglia si parli, è l’attività suppletiva svolta dalla giurisprudenza sulle innumerevoli lacune soprattutto a tutela dei figli di coppie di fatto. Le tappe più rilevanti e i trionfi

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maggiori sono rappresentati, tra gli altri, dalla sentenza della Corte Costituzionale del 1988, n. 404, la quale ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della L. n. 392 del 1978 in materia di locazione di immobili urbani in quanto non prevedeva la successione nel contratto di locazione del convivente more uxorio al conduttore in caso di cessazione della convivenza in favore del partner convivente in presenza di prole naturale, e in caso di morte del conduttore in favore del rispettivo convivente more uxorio; ed in tema di comodato, un ulteriore e recente contributo a colmare il vuoto normativo in tema di coppie di fatto e, nello specifico, di tutela di un componente in caso di crisi della stessa, è stato dato in sede di legittimità89 al convivente more uxorio che sia stato estromesso dalla casa familiare dal terzo proprietario comodante, riconoscendo allo stesso la qualità di detentore qualificato.

Il mancato riconoscimento giuridico delle coppie di fatto e l’opera integrativa della giurisprudenza non tolgono tuttavia evidenza alla presenza di riferimenti normativi espliciti alle convivenze more uxorio anche in materie che pongono in risalto il legame sussistente tra queste e la casa familiare: l’art. 2 del d.P.R. n. 136/1958, nella definizione di famiglia anagrafica considera non solo quella fondata sul matrimonio ma ogni altro nucleo che si fonda su legami affettivi caratterizzato dalla convivenza,quindi anche la famiglia di fatto; l’art. 45 della L. n. 184/1983 sancisce l’ammissibilità dell’adozione da parte della coppia non unita in matrimonio nel caso in cui non sia praticabile l’affidamento preadottivo; ed in particolare, gli articoli 342- bis e 342- ter 90 del codice civile analizzano la condotta del convivente nel contesto della convivenza di fatto, prevedendo il rimedio dell’allontanamento coattivo dalla casa familiare in caso di abusi da parte del convivente more uxorio.

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Cass. Civ., sez. II, 2 gennaio 2014, n. 7.

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Ed ai sensi della legge n. 40 del 2004, anche le coppie di fatto(tuttavia soltanto quelle eterosessuali la cui convivenza sia denotata dalla stabilità) hanno diritto di ricorrere alle tecniche di procreazione assistita.

Per ovviare alle incompatibilità e alla disparità di trattamento, quasi da integrare vere e proprie discriminazioni giuridiche rispetto alle unioni “legittime”, vari sono stati i disegni di legge presentati nel nostro paese a tutela sia delle convivenze eterosessuali che tra persone dello stesso sesso: il disegno di legge del 2007 “DICO” (sigla di “Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”) sollevato dal Governo Prodi finalizzato al riconoscimento giuridico delle convivenze, anche dello stesso sesso, iscritte nei registri anagrafici di ogni comune, seguito a ruota dalla proposta del “CUS”(Contratto di Unione Solidale), il quale è fallito di fatto con la caduta del Governo; tale proposta di legge è stata ritenuta incompatibile con la Costituzione vigente, essendosi basata più sull’assunzione della convivenza come fatto anziché come categoria giuridica riconosciuta, e sull’attribuzione di diritti soggettivi individuali( tra cui diritti di natura successoria nei confronti del partner defunto) più che sulla legittimazione delle coppie di fatto. Altra proposta il cui iter è stato proseguito è quella di “DIDORE” ossai “Diritti e Doveri di reciprocità dei conviventi), propugnata dall’allora ministro per la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta nel 2008, per disciplinare le convivenze in caso di morte e in materia di salute,abitazione e assistenza: l’esame alla Commissione Giustizia è iniziato ad aprile del 2012, ed il progetto sembra ancora in fase di stallo.