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gli attori locali

2.1.1 La fine della guerra fredda e lo stallo nelle trattative

La cacciata di Tito dal Cominform si era nel giro di breve tempo tradotta in un miglioramento della posizione diplomatica della Jugoslavia nei confronti delle potenze occidentali, decise a sostenerla nel suo difficile confronto con l’URSS. Tale situazione aveva reso la questione giuliana un problema secondario rispetto alle dialettiche tra i due blocchi, riconducendola ad un testa a testa tra due Paesi che non avevano ancora trovato una soluzione per la definizione dei propri confini. A Trieste dunque, nonostante gli umori dell’opinione pubblica e i toni che la connotavano, la Guerra Fredda era terminata.1 Si trattava ovviamente di uno scontro che si era riassorbito a livello internazionale, ma che avrebbe continuato a segnare per lungo tempo i meccanismi di appartenenza dei gruppi politici sul territorio, caratterizzati da una forte polarizzazione di gran lunga antecedente alle vicende del secondo dopoguerra. In ogni caso, però, la questione esaurì il suo potenziale nella dinamica della politica internazionale del contenimento, situazione che convinse soprattutto gli angloamericani a spingere affinché la vertenza venisse ricomposta in seno a trattative bilaterali tra Italia e Jugoslavia.

Tale prospettiva non era però priva di insidie. Erano molti gli ostacoli che si frapponevano sulla strada di un possibile accordo, non ultimo la stessa Dichiarazione Tripartita, che aveva portato la diplomazia italiana ad irrigidire la sua posizione, nell’impossibilità di presentare all’opinione pubblica una soluzione che ripiegasse rispetto all’assetto territoriale proposto dalla nota. La necessità angloamericana di non svilire la posizione diplomatica jugoslava, il cui prestigio sarebbe stato intaccato dall’accettazione delle condizioni poste dall’Italia, che con De Gasperi e Sforza insisteva sull’assegnazione

dell’intera Zona A e della fascia costiera della Zona B, rendeva però irrealizzabile il contenuto della Dichiarazione. Per tali ragioni i colloqui si sarebbero arenati fino al 1949, quando il sottosegretario agli esteri jugoslavo, Bebler, richiese al sottosegretario per gli affari europei del Dipartimento di Stato di convincere il governo americano ad un intervento con l’Italia affinché questa accettasse una soluzione di compromesso per il TLT, abbandonando il suo arroccamento sulla Dichiarazione Tripartita. Si trattava di un segnale importante di disponibilità alla trattativa che venne immediatamente colto dagli angloamericani, i quali si riproposero di osservare una stretta equidistanza rispetto alle parti in causa, nell’intenzione di non voler prender parte ad una mediazione attiva che potesse compromettere le loro relazioni con Belgrado.2

Le trattative però, nonostante le buone intenzioni dichiarate dai due fronti diplomatici, avrebbero finito per interrompersi immediatamente, con un rimpallo di note polemiche inerenti questioni specifiche, come i rapporti rispettivamente intrattenuti con le due zone del TLT e i criteri da adottare per una equa spartizione del territorio.

Nel gioco delle opposte rigidità la diplomazia italiana dimostrava di avere una capacità di lettura della realtà internazionale fortemente inficiata da una decisa impostazione anticomunista, che le impediva di interpretare correttamente quanto stava accadendo a seguito della rottura tra Tito e Stalin. Il MAE, che vedeva al suo interno una presenza significativa di personale che aveva avuto ruoli chiave durante il periodo fascista, faticava a comprendere le ragioni che stavano alla base della politica angloamericana di sostegno a Tito, facendosi immobilizzare dal punto di vista internazionale dalla questione di Trieste. Tutto ciò impedì all’Italia di avviare una politica più intraprendente e lungimirante che le permettesse di partecipare alla definizione degli equilibri nell’area Balcanica. Il contemporaneo affermarsi elettorale delle destre a discapito della DC influì inoltre notevolmente nel delineare una politica estera sempre più convintamente antibritannica e immobilizzata dalla convinzione, solo parzialmente fondata, di essere sostenuta esclusivamente dalla diplomazia americana.3

2.1.2 La “fase dinamica”

La situazione avrebbe subito una scossa solamente a partire dalla seconda metà del 1951, quando la questione entrò in quella che è stata definita in più sedi come la “fase dinamica”

4 del problema. A livello internazionale erano intercorsi alcuni importanti cambiamenti: nel novembre era stato stipulato il Mutual Security Agreement tra Jugoslavia e USA, mentre Grecia e Turchia erano entrate a far parte della NATO, avviando con Belgrado percorsi di intesa tra diplomazie. La necessità di non intaccare i rapporti con Tito a causa del prolungarsi della disputa su Trieste e la volontà di creare un fronte continuo contro L’URSS attraverso un accordo tra Roma e Belgrado, convinse le potenze occidentali ad imprimere un’accelerazione alle discussioni bilaterali. Tra il 21 novembre 1951 e l’11

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R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia, cit., pp. 83-88.

3

A. Millo, La difficile intesa, cit., pp. 108-112.

4 Massimo De Leonardis, La “Diplomazia atlantica” e la soluzione del problema di Trieste 1952-1954, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, p. 51, D. De Castro, La questione di Trieste, cit., vol. II.

marzo 1952 a Parigi e a New York si sarebbero svolti colloqui diretti tra Guidotti, rappresentante diplomatico italiano, e Bebler, delegato permanente della Jugoslavia presso l’ONU. Fallite le conversazioni, gli angloamericani provarono ad insistere sulle due parti cercando di offrire delle concessioni che agevolassero un ammorbidimento delle reciproche rivendicazioni. Ad aprile, terminata la conferenza tra Gran Bretagna, USA e Francia, venne approvato un piano di aiuti alla Jugoslavia per il 1952-53 che ammontava a 35 milioni di sterline.5 Nel frattempo sarebbero state avviate conversazioni italo-anglo-americane, rese necessarie non solo da esigenze di natura squisitamente internazionale, ma anche da una serie di incidenti avvenuti a Trieste il 20 marzo. Si trattava infatti di un periodo piuttosto infuocato per la politica triestina: il 15 febbraio il vescovo Santin aveva denunciato le persecuzioni contro il clero in Zona B ad opera dei poteri popolari, rivolgendo successivamente un appello al Cardinale Spellman, arcivescovo di New York. Negli stessi giorni in Zona B era stato proibito l’utilizzo della lira e tra il 19 e il 20 marzo il governo italiano avrebbe presentato una dettagliata nota verbale che accusava la VUJA di violazioni contro i diritti dell’uomo per le persecuzioni contro la comunità italiana e di aver manipolato l’amministrazione della Zona al fine di annetterla definitivamente alla Jugoslavia.

Nella giornata del 20 marzo cadeva inoltre il quarto anniversario della Dichiarazione Tripartita e il sindaco Bartoli aveva istituito per l’occasione un Comitato per la Difesa per l’italianità di Trieste e dell’Istria, che si era incaricato di organizzare iniziative pubbliche per richiedere l’applicazione immediata della nota e per protestare contro la VUJA, eccitando la stampa locale e nazionale attorno al tema. Il programma dell’iniziativa aveva suscitato tensioni con il GMA, il quale temeva, fondatamente, che la manifestazione si sarebbe trasformata in un’occasione assai propizia per tentare di organizzare disordini di piazza, dal momento che tra i sostenitori del Comitato figuravano noti gruppi legati all’estrema destra. Il governo italiano avrebbe tentato di tradurre a proprio vantaggio la situazione: a fare da intermediario tra il comitato e il GMA sarebbe stato Renzo di Carrobbio, capo della Missione Italiana a Trieste, che avviò dei negoziati volti a garantire il regolare svolgimento delle iniziative, dando assicurazione agli angloamericani che tutti gli interventi politici avrebbero evitato di assumere toni troppo accesi contro la Jugoslavia. Incassato il consenso del GMA ad un’iniziativa così impostata, si sarebbe proceduto con l’organizzazione dell’evento. In realtà, nonostante gli impegni presi da Carrobbio, durante la manifestazione un gruppo di infiltrati mise in atto un’azione di disturbo che finì per provocare la reazione della polizia britannica. Era quello l’inizio di tre giornate di tafferugli e cortei piuttosto violenti che vennero repressi dalla polizia con l’uso di manganelli, lacrimogeni e cariche di cavalleria. In questo modo, facendo leva sull’intervento preventivo di Carrobbio, Roma era riuscita a sollevarsi da ogni responsabilità diretta rispetto ai fatti accaduti, riuscendo però «nell’intento di creare una situazione di emergenza cittadina, avendo cura di colpire obiettivi prevalentemente britannici, per dimostrare la sua forza contro l’interlocutore ritenuto più ostile ed accrescere sul piano internazionale un peso negoziale fattosi negli ultimi tempi assai poco consistente».6

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M. De Leonardis, La “Diplomazia atlantica”, cit., pp. 51-66.

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Ne sarebbe seguita una vivace campagna sulla stampa e un acceso dibattito diplomatico, con gli inglesi accusati di essere i responsabili delle violenze e il governo italiano tacciato di inaffidabilità e di collusioni con gli agitatori. Dal canto suo il FO rimase fermo nella difesa del generale Winterton, convincendosi sempre più della debolezza della compagine di governo italiana, ritenuta sensibile e ricettiva ad istanze nazionaliste. Ad appoggiarlo fu, inaspettatamente per gli italiani, anche il Dipartimento di Stato americano. Tuttavia, la necessità di mantenere la compattezza della sfera occidentale, indusse gli angloamericani nell’avvio di una conferenza tripartita tra Gran Bretagna, USA e Italia, che si sarebbe conclusa con un memorandum siglato il 9 maggio del 1952 a Londra, che accoglieva la richiesta italiana più accettabile dal punto di vista diplomatico, ossia quella di una maggiore partecipazione alla vita amministrativa della Zona A. Il memorandum stabilì che, fatta eccezione per quanto riguardava il Dipartimento Affari legali, la Polizia, l’ordine pubblico, le telecomunicazioni e il porto, all’Italia venisse assegnata la gestione dell’amministrazione civile, unificata in un Direttorato superiore dell’amministrazione. La PCM avrebbe nominato Giovanni Augusto Vitelli7 in qualità di direttore superiore, il quale avrebbe avuto come principale referente l’UZC, a verifica della ferrea volontà da parte di Roma di centralizzare il suo intervento, evitando di affidare ruoli chiave a figure provenienti dal contesto locale. L’obiettivo esplicito era quello di creare un’amministrazione fortemente centralizzata e slegata da forme di controllo, ma anche di collaborazione, con il GMA.8 All’Italia spettava inoltre la nomina di un consigliere politico, che ricadde, per esplicita indicazione di De Gasperi, su Diego De Castro, collaboratore fin dal 1946 del CLNI. L’Ufficio del Consigliere politico italiano finì così per sostituirsi alla Missione Italiana attiva fino a quel momento nel capoluogo giuliano.

In seguito agli accordi di Londra le diplomazie occidentali si rimisero in moto con l’obiettivo di far ripartire le trattative bilaterali. Accanto al netto rifiuto jugoslavo, irrigidito dal memorandum appena siglato, si attestava anche l’atteggiamento italiano che, cercando di ottenere garanzie da parte angloamericana circa il buon esito delle trattative, chiedeva il diretto intervento delle due diplomazie a favore delle sue richieste, concretizzate nella proposta di una linea etnica di confine continua che portasse all’Italia le cittadine costiere della Zona B e l’Istria interna alla Jugoslavia. Le potenze occidentali decisero per un doppio passo tripartito a Belgrado e a Roma, con Francia, USA e Gran Bretagna impegnate congiuntamente nel tentativo di gettare basi condivise sulle quali avviare le discussioni tra Italia e Jugoslavia. Nel testo presentato alle due parti in lizza si proponeva di impostare le trattative partendo da alcuni presupposti: evitare pre-condizioni per l’amministrazione della Zona B, facendo dunque venire meno ogni riferimento alla Tripartita, e individuare un criterio di spartizione rispondente alla linea etnica. Tale criterio venne rifiutato da Tito, il quale sancì il fallimento dell’iniziativa e in generale di una soluzione cercata attraverso accordi bilaterali. Da quel momento in poi Gran Bretagna e USA avrebbero tentato di imporre interventi più decisi per obbligare le parti ad individuare una forma di accordo, ma

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Nato nel 1890, prefetto di carriera. Nel 1923 aveva ricoperto il ruolo di segretario della Prefettura di Trieste.

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la scarsa fortuna incontrata anche da questa strategia rese necessario, con l’avvicinarsi del 1954, un intervento basato sulla mediazione attiva.9