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gli attori locali

2.1.3 L’ultima crisi

All’imbocco del 1953 le posizioni dei contendenti erano estremamente articolate. Per quanto riguardava l’Italia, l’idea principale si rifaceva ad un progetto che prendeva le mosse dalla Dichiarazione Tripartita per arrivare alla linea etnica che avrebbe dovuto assegnare all’Italia la fascia costiera della Zona B. Data l’inconsistenza dell’appoggio angloamericano a tale posizione, si stava facendo largo anche l’ipotesi di un accordo provvisorio che assegnasse la Zona A all’Italia senza però pregiudicare in via definitiva il destino della zona jugoslava, ipotesi che finì per dividere la diplomazia italiana, indecisa sul da farsi. Sul fronte di Belgrado invece l’obiettivo era quello di non mostrare alcun atteggiamento rinunciatario, che avrebbe dato modo alla componente cominformista di avviare una propaganda denigratoria nei confronti della Jugoslavia, impegnata nel difficile compito di crearsi un profilo autonomo nell’ambito dello scontro tra blocchi. Tale necessità si tradusse nell’indisponibilità a trattare porzioni della Zona B senza la promessa di consistenti contropartite nella Zona A, come per esempio una base di appoggio nel porto di Trieste.

La terza componente di questo delicato gioco, quella angloamericana, faticava a trovare una quadra che le consentisse di mantenere i suoi buoni rapporti con la Jugoslavia e al contempo di non intaccare la situazione interna di un paese, l’Italia, che era riuscita ad entrare nel Patto Atlantico e che basava la sua posizione sulle promesse fatte dagli Alleati quando ancora Trieste era una tessera decisiva della politica del contenimento. In generale, quello che mancava alle potenze occidentali era il possesso di reali strumenti di pressione: revocare gli aiuti finanziari alla Jugoslavia avrebbe compromesso quel processo che avrebbe fatto di Tito il partner comunista americano, ma dall’altro imporre una situazione di fatto all’Italia avrebbe gravemente alterato quel quadro politico interno che, soprattutto gli americani, avevano faticosamente contribuito a costruire.

Nel settembre del 1952 Eden, ministro degli esteri inglese, si sarebbe recato a Belgrado per avviare consultazioni con i principali esponenti di governo jugoslavo. Alla fine degli incontri Eden avrebbe concluso che l’unica soluzione accettabile per Tito fosse quella di una spartizione del TLT secondo la linea Morgan, che il governo italiano avrebbe dovuto, in qualche modo, digerire. Assai più prudente in merito a tale risoluzione si sarebbe rivelato il Dipartimento di Stato americano, il quale, però, finì per sposare la prospettiva britannica. Tale situazione impattò notevolmente sulla diplomazia italiana, divisa tra la ferma rivendicazione della linea etnica e la spartizione de facto del TLT, e influenzata inoltre dalla campagna elettorale in corso, che vedeva De Gasperi attento a non manifestare adesione ad alcuna proposta specifica sul tema che esulasse dal caposaldo della Dichiarazione Tripartita. Il tentativo era quello di riuscire a strappare agli Alleati un appoggio alle rivendicazioni italiane sfruttando, come era già accaduto altre volte, l’imminenza della

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tornata elettorale. In realtà l’orientamento alleato, che puntava ad una assegnazione della Zona B a Tito, non avrebbe potuto che danneggiare irreparabilmente la campagna, motivazione che indusse gli angloamericani, in mancanza di accordi concreti tra le parti, a rimandare ogni mossa all’indomani delle elezioni.

I risultati delle consultazioni alle urne del 7 giugno 1953 avevano segnato un momento cruciale per la vita politica del paese, con il consistente calo di consensi registrato dalla DC e il rafforzamento del PCI. Tale situazione ridusse notevolmente il potenziale di negoziazione italiano, dal momento che l’indebolimento della DC e delle forze centriste, al quale erano seguite le dimissioni di De Gasperi, non avrebbe consentito la rivendicazione di soluzioni diverse dalla spartizione proposta dalla Jugoslavia, che era appoggiata non solo dagli alleati, ma anche da parte delle diplomazia italiana.10 Veniva così meno il retroterra sul quale poggiava la ferma rivendicazione di De Gasperi dei diritti italiani sulla Zona B, che trovava a Trieste il suo più fedele assertore in Diego De Castro e, tra gli enti locali, nel CLNI.

L’insuccesso di De Gasperi, che aveva tentato a luglio di formare un governo, portò all’assegnazione di un incarico di “governo amministrativo” a Giuseppe Pella, alla guida di un monocolore democristiano appoggiato da liberali, repubblicani e monarchici. Tale stato di cose, che si aggiungeva alla consapevolezza di un proprio consolidamento negli accordi militari con le potenze occidentali, convinse la diplomazia jugoslava a retrocedere rispetto alla disponibilità precedentemente accordata sulla possibile spartizione in base alla linea Morgan, puntando ad allargare la sua attenzione anche alla Zona A e sfruttando la debolezza italiana per incassare risultati maggiori nell’ultima fase delle trattative. Il rapido peggioramento del quadro spinse il governo italiano ad accelerare i tempi di una soluzione definitiva della questione, provocando un diretto intervento degli alleati nelle trattative. Un

escamotage per smuovere le acque venne individuato nell’apprestamento verso il confine

di truppe dell’Esercito Italiano, avvenuto il 29 agosto e presentato come una risposta ad una nota della United Press che paventava l’imminente annessione per mano jugoslava della Zona B. Parallelamente alle truppe si mosse anche la diplomazia italiana, che si dichiarò pronta ad un colpo di mano sulla Zona A in caso di passo analogo da parte jugoslava.11 La strategia del governo Pella prevedeva una rapida chiusura della vertenza, la quale rischiava con il suo prolungamento di compromettere definitivamente la posizione italiana nei Balcani e il difficile percorso intrapreso dall’Italia di integrazione nella compagine occidentale ed europea, auspicata con forza da De Gasperi al fine di rendere il paese un protagonista credibile delle politiche internazionali di cooperazione. Tali obiettivi rendevano dunque sacrificabile la Zona B, rivendicata, almeno parzialmente, fino all’ultimo da De Gasperi. Da un punto di vista pubblico poi, per innalzare i toni dello scontro, Pella avrebbe insistito su proposte inaccettabili e inverosimili, come la rivendicazione dell’intero TLT in base alla Tripartita, e la richiesta di rimettere le sorti del territorio ad un plebiscito, incassando l’acceso consenso di tutta la compagine filo-italiana giuliana.12

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R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia, cit., pp. 96-108.

11

Ivi, pp. 109-114.

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Americani e inglesi condividevano con Pella il desiderio di mettere la parola fine ad un testa a testa durato troppo a lungo, decidendosi per una strategia che avrebbe dovuto portare alla spartizione del TLT. Con lo scopo di verificare le disponibilità italiane e jugoslave e di valutare le conseguenze concrete di ogni possibile soluzione, i rappresentanti diplomatici angloamericani optarono per un doppio passo simultaneo a Roma e a Belgrado. Soprattutto a Tito venne richiesto contegno nelle proteste ufficiali a seguito dell’accordo e nello svolgimento delle operazioni militari che avrebbero sancito l’annessione della Zona B, chiarendo che all’Italia spettava il diritto di procedere nello stesso modo nella Zona A. Veniva inoltre richiesto il reciproco impegno al rispetto delle minoranze presenti nei territori annessi. Nelle note consegnate a Tito e a Pella si scelse di stabilire inoltre che la separazione de facto del TLT fosse da considerarsi definitiva, senza però con questo obbligare i rispettivi governi a presentarla come tale all’opinione pubblica. In questo modo, soprattutto Pella, avrebbe potuto vendere la soluzione come provvisoria, evitando eccessivi contraccolpi sulla situazione politica italiana già gravemente instabile.

La fine delle consultazioni portò nella giornata dell’8 ottobre 1953 alla Nota Bipartita, con la quale gli angloamericani annunciavano pubblicamente la consegna della Zona A all’Italia. Lo scopo era quello di presentare tale gesto come un’iniziativa autonoma alleata, da interpretare non come l’accoglimento delle istanze italiane ma come atto risolutivo che imponesse uno stato di fatto alle potenze in lizza. La speranza era che Tito annettesse la Zona B, rendendo effettiva una spartizione sulla quale gli alleati non avrebbero avuto nulla da ridire dal punto di vista pubblico e che avrebbe portato alla ricomposizione dei conflitti in corso.

La reazione di Tito fu però molto più forte del previsto. Il 10 ottobre in un discorso pubblico avrebbe infatti minacciato l’intervento armato qualora la Zona A fosse stata annessa dall’Italia. Vista anche la soddisfazione espressa dagli ambienti e dalla stampa italiani, la Nota venne infatti interpretata da parte jugoslava come un cedimento alla prova di forza di Pella e dunque non come un’imposizione fattuale alle due potenze, ma come un gesto diretto unilateralmente a scapito della Jugoslavia. Per tentare di risolvere l’imbarazzante problema, assai pericoloso data la presenza dei due eserciti apprestati a ridosso della frontiera giuliana, americani, inglesi e francesi avviarono intensi scambi, che produssero, ai primi di novembre, una nuova proposta per una conferenza a cinque da tenersi a Londra, con l’obiettivo di definire tutto l’assetto del TLT. Nel frattempo a Trieste tra il 4 ed il 6 novembre scoppiarono violenti tumulti, che costarono la vita a sei persone. Si trattava di manifestazioni che avevano visto operativi gli organizzati circoli neofascisti cittadini, orchestrati dai servizi segreti italiani.13 Ancora una volta si tentava di colpire il prestigio della polizia e del GMA, cercando di accelerare il corso degli eventi, atteggiamento che finì con l’irritare la diplomazia britannica, che si convinse a non voler proseguire sulla strada di una sostituzione del GMA per non dare l’impressione di voler cedere ai ricatti della piazza. Incalzato dal Dipartimento di Stato, Eden avrebbe però finito per rivedere la sua presa di posizione. Dopo lunghe dispute tra le potenze occidentali, con inglesi e americani impegnati a marginalizzare il ruolo francese, la cui diplomazia aveva

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Per una puntuale ricostruzione dei fatti, che in parte rivede e approfondisce le versioni ufficiali degli avvenimenti fornite all’epoca, vedere A. Millo, La difficile intesa, cit., 158-166.

manifestato scomode tendenze filo-italiane, si decise dal punto di vista metodologico di adottare il cosiddetto “Piano Holmes”, dal nome di Julius Holmes, ministro degli Stati Uniti a Londra che lo aveva elaborato. Il Piano prevedeva che USA, Gran Bretagna e Jugoslavia si incontrassero per porre in essere una soluzione complessiva, da presentare successivamente all’Italia. Era questa una strada che consentiva a Tito di ottenere un trattamento “alla pari”, che lo avrebbe indotto ad accettare con maggiore flessibilità il progetto ventilato dalla Nota Bipartita.14 La procedura, accettata dalle due parti in causa, sarebbe stata immediatamente avviata. Nel giugno del 1954 si concludevano i negoziati fra le due potenze atlantiche e la Jugoslavia, che si svolsero nella più assoluta segretezza. La soluzione individuata non differiva pesantemente dai contenuti della Nota Bipartita rigettata con tanta forza dalla Jugoslavia, dato che arrivava alla conclusione di una spartizione del TLT sulla base della linea Morgan. Il cambiamento fondamentale era intercorso principalmente su due aspetti: si trattava innanzitutto di una soluzione che la Jugoslavia aveva potuto trattare in una posizione privilegiata rispetto all’Italia, potendosi presentare in qualità di soggetto attivo della disputa e non come elemento subalterno. In secondo luogo le trattative avevano sciolto tutti i nodi che si erano concentrati sulla questione della provvisorietà: a Tito era stata infatti data garanzia di una spartizione nei fatti definitiva e non rinegoziabile. In ogni caso attorno a tale aspetto sarebbe stata costruita una certa ambiguità, dal momento che il tentativo sarebbe stato quello di presentare all’opinione pubblica italiana l’idea di un accordo per il quale erano previsti margini di discussione per eventuali aggiustamenti, un’ambiguità che però questa volta vedeva la Jugoslavia giocare nel ruolo di complice consapevole della definitiva annessione della Zona B.15

Il 1° giugno venivano resi noti alla diplomazia italiana i risultati delle trattative con la Jugoslavia, con la precisazione che in nessun caso sarebbe stato possibile ottenere significative variazioni agli accordi presi. Le reazioni furono vivaci e contrastanti, ma la diplomazia fu costretta ad ammettere che tale soluzione non poteva in alcun modo essere rigettata, data la posizione contrattuale debolissima che caratterizzava la politica estera italiana in quel momento, soprattutto rispetto alle potenze occidentali. Nel mese di ottobre, a seguito di lunghi dibattiti su singole porzioni di territorio che avrebbero dovuto apporre correttivi alla linea Morgan, si sarebbe arrivati alla ratifica del Memorandum di Londra, il quale prevedeva la spartizione del TLT, la fine del GMA, la tutela delle rispettive minoranze, l’impegno italiano a mantenere il porto franco a Trieste, i regolamenti per il traffico tra le due zone e le norme per la gestione di coloro che avrebbero richiesto il cambio di residenza. Il 5 ottobre dunque il Memorandum di Londra chiudeva la battaglia diplomatica attorno alla questione di Trieste. Se ne apriva però una nuova per il governo italiano impegnato nel rapportarsi con la propria opinione pubblica circa il risultato portato a casa dopo anni di trattative.

Alla Camera, presentando il testo del Memorandum, si tentò di insistere sulla dimensione provvisoria dell’accordo, che venne accolto con sentimenti contrastanti: Trieste tornava all’Italia, ma la perdita della Zona B avrebbe provocato un gravissimo colpo su

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R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia, cit., pp. 146-150.

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quegli enti locali che avevano fatto della sua difesa il senso della propria azione politica. A Trieste particolarmente vivace fu la reazione dei circoli di estrema destra e neofascisti, che dopo anni di occulto sostegno da parte delle forze governative, godevano ormai di piena autonomia. Si trattava di ambienti che inneggiavano a Pella e alla sua azione forte e risoluta, ma che al contempo accusavano il governo e la politica degasperiana di aver sempre mantenuto un atteggiamento rinunciatario in sede internazionale. Tale impostazione interpretativa venne sposata anche dalla borghesia nazionalista, che a Trieste aveva appoggiato da sempre la causa italiana, e in generale dai gruppi e dalle associazioni nati attorno agli istriani e all’esperienza dell’esodo. Il rafforzamento progressivo delle destre e l’affermazione di motivi fortemente anti-governativi, assai distanti da una comprensione anche minima della reale portata dei problemi affrontati nel corso di quegli anni, sarebbe in ogni caso stata contenuta nel periodo successivo grazie dall’azione svolta dai partiti in città e dalla classe dirigente democristiana, che seppe assorbire spunti tematici di chiara tradizione nazionalista, sottraendoli al monopolio del MSI, e rielaborarli in una prassi di governo che seppe fare leva sul controllo delle amministrazioni pubbliche.16