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gli attori locali

2.1.4 Tra provvisorietà e riforme: la situazione della Zona B

2.1.4.2 Le riforme in campo economico, finanziario e sociale

L’Istria che si affacciava nel 1945 ai cambiamenti epocali del dopoguerra era un territorio sul quale gravavano annose, gravi e irrisolte questioni di natura economica e sociale. Regione a vocazione tradizionalmente agricola, totalmente priva di infrastrutture e

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C. Colummi, Le elezioni del 1950 nella zona B, cit., p. 363.

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Cfr. Capitolo 2, par. 2.3.1.

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annoverata tra le più povere dell’impero asburgico, dopo il 1918 andò incontro ad una rapida crisi, dovendo fare i conti con il dissolvimento dei suoi mercati tradizionali e con la competizione ad armi impari avviata con le aree più industrializzate d’Italia.40 Nonostante qualche timido intervento statale, ancora nel 1923 il sindacato fascista registrava la presenza di tassi altissimi di disoccupazione, che assumeva aspetti drammatici nelle campagne, con i contadini vessati da una fiscalità eccessiva e dalle partenze di coloro che scelsero di emigrare per migliorare la propria situazione.41 A dispetto dell’intenzione manifestata nel 1928 dal governo italiano di avviare consistenti investimenti mirati alla bonifica delle zone paludose (ex saline di Capodistria, valle del Quieto e valle dell’Arsa)42 e allo sviluppo industriale, la crisi economica degli anni successivi e la discontinuità dei finanziamenti comportò solo dei lievi miglioramenti al quadro locale, senza dunque porre fine ad una situazione che assumeva profili emergenziali anche dal punto di vista igienico-sanitario.43 Alle soglie degli anni Trenta la Venezia Giulia occupava infatti i posti più alti della graduatoria nazionale sulla mortalità infantile e sulle patologie perinatali riguardanti le madri e i bambini, mentre tubercolosi ed epidemie malariche continuavano ad affliggere soprattutto la popolazione rurale.44

Tale quadro, ulteriormente aggravato dalle tragedie belliche, poneva i poteri popolari in via di consolidamento di fronte alle emergenze determinate dalla mancanza di beni di prima necessità e dagli effetti dovuti alla prolungata sospensione subita dalle attività del mercato locale, i cui flussi tradizionali erano stati completamente azzerati. Nel periodo antecedente all’istituzione del TLT le autorità tentarono dunque di ristabilire i circuiti economici minimi preesistenti al conflitto attraverso capitali jugoslavi e seguendo la logica dell’edificazione di uno stato socialista, senza tuttavia investire risorse economiche e progettuali ingenti in un territorio ancora oggetto di discussione in sede internazionale.45 A partire dal 1945 per esempio si diede il via alla fondazione di cooperative di fornitura-vendita che contribuissero alla ricostruzione, e la VUJA, a seguito dell’interruzione dei rapporti delle banche italiane con le loro filiali istriane, fondò la Banca commerciale per l’Istria, Fiume e il Litorale sloveno (Gospodarska banka za Istro, Reko in Slovensko

Primorje) che ricevette l’incarico di immettere capitali nell’economia locale allo scopo di

farla ripartire. Nell’ottobre del 1945 essa avrebbe poi introdotto una sua moneta d’occupazione, la “Lira B”, più comunemente nota come “jugolira”, la quale consentì all’amministrazione militare di favorire la circolazione di liquidità sul territorio e di tagliare i ponti con il sistema monetario italiano. Nel 1946, con la situazione internazionale in via di consolidamento, sarebbero anche iniziati i preparativi per l’avvio di una vera e propria

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Anna Millo, L’industria marginale e il governo del sottosviluppo, in «L’Istria tra le due guerre. Contributi per una storia sociale», S. Bon Gherardi, L. Lubiana, A. Millo, L. Vianello, A.M. Vinci (a cura di), Ediesse, Roma, 1985, p. 81.

41

Ivi, p. 92.

42

Per approfondimenti vedere Stefano Felcher, Dalla bonifica idraulica alla colonizzazione forzata. Il piano di bonifica integrale per l’Istria, in «Quaderni», vol. XIX, CRSR, Rovigno, 2008, pp. 57-94.

43

Anna Millo, L’industria marginale e il governo del sottosviluppo, pp. 111-126.

44

Anna Maria Vinci, Malattie e società: il caso istriano, in «L’Istria tra le due guerre. Contributi per una storia sociale», cit., pp. 225-280. Sulle condizioni sociali e materiali negli anni Trenta vedere anche G. Nemec, Un paese perfetto, cit., pp. 91-135.

45

D. Rogoznica, I tratti specifici del sistema economico della Zona B, cit., p. 477. J. Prinčič, Economia della Zona B, cit., p. 434.

economia pianificata, con l’introduzione della cessione obbligatoria della produzione cerealicola in eccesso e la sua distribuzione ad opera di apposite commissioni, il controllo sul commercio delle aziende statali e private e la fondazione di un nuovo istituto di credito, l’Istrska Banka, il cui capitale proveniva direttamente dalle casse del governo jugoslavo e la cui attività era rivolta principalmente ai distretti di Buie e Capodistria, per i quali in sede diplomatica non era nel frattempo stata prevista la diretta e definitiva annessione alla RPFJ. Essa sarebbe poi divenuta nel giro di un anno la principale azionista di più di trenta aziende statali, venendo a costituire un elemento cardine dell’economia pianificata locale.46 Nel processo di consolidamento dei poteri popolari e di definizione dei principi guida del nuovo ordinamento una dimensione particolarmente significativa venne assunta anche dalle confische dei beni abbandonati e di quelli appartenuti a fascisti e collaborazionisti. La confisca, strumento del diritto penale jugoslavo che prevedeva l’espropriazione forzata di beni senza il pagamento di alcun indennizzo da parte dello Stato e la loro amministrazione fiduciaria da parte della Commissione per l’amministrazione dei beni popolari (KUNI)47, venne applicata già durante la guerra come sanzione a carico di coloro che avevano fiancheggiato il nazifascismo e dei cittadini di nazionalità tedesca.48 In una fase successiva le confische interessarono anche i patrimoni «degli assenti e i beni che divennero proprietà di terzi sotto la pressione delle autorità fasciste e naziste».49 A seguito della sottoscrizione del Trattato di Pace i decreti di confisca subirono una sostanziale recrudescenza, determinata dalla volontà dell’amministrazione militare di consolidare quanto prima il settore economico statale in Istria, dato che comportò molto frequentemente l’esproprio a carico di persone le cui responsabilità rispetto al nazifascismo vennero individuate in maniera arbitraria e secondo criteri fortemente influenzati dalle tensioni illustrate nel paragrafo precedente. A partire però da quel momento, le strade della Zona B del TLT e del resto della RPFJ, per quanto riguardava la questione delle confische, sembrarono, per lo meno in apparenza, dividersi. Gli accordi internazionali infatti avevano categoricamente escluso la possibilità di procedere alla completa statalizzazione dell’economia e della proprietà come stava accedendo in Jugoslavia, ragione per la quale la gestione dei beni venne affidata dalla VUJA al “Fondo per l’Assistenza delle vedove, orfani e dei danneggiati materialmente dal terrore fascista”. In realtà il Fondo, pur occupandosi effettivamente di attività assistenziali, avrebbe svolto un ruolo fondamentale nell’aggiramento di tali normative, consentendo soprattutto alle aziende statali, dietro affitto o compravendita, di godere dei beni sottoposti a confisca. In questo modo i beni confiscati e le aziende statalizzate sostenute dalla Istrska Banka finirono per rendere fattiva la quasi totale penetrazione delle autorità nel controllo del sistema economico.50

Sul versante della produzione agricola le strategie d’intervento dei poteri popolari andarono incontro ad una genesi decisamente più travagliata, dovuta all’importanza rivestita dalla questione non solo nell’ambito della tradizionale vocazione economica della regione, ma anche in generale nella politica di consolidamento del PCJ in tutta la

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J. Prinčič, Economia della Zona B, cit., pp. 433-435.

47

Komisija za Upravo Narodne Imovine.

48

D. Rogoznica, Confische del patrimonio di fascisti a Capodistria, cit., p. 140.

49

J. Prinčič, Economia della Zona B, cit., p. 436.

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Jugoslavia, interessata dalla presenza massiva del ceto rurale, che poneva seri problemi teorici e politici nell’applicazione della prassi comunista sul territorio e nella costruzione di un massiccio consenso al nuovo ordinamento. Se infatti il modello sovietico aveva fatto dell’opposizione ai contadini ricchi, kulaki, un caposaldo della propria condotta, al ceto dirigente jugoslavo in via di costruzione non sfuggiva l’importanza rivestita da questi ultimi negli anni della lotta per la Liberazione, dato che il loro contributo in termini di aiuti materiali e politici all’esercito partigiano fu in effetti determinante per il conseguimento della vittoria finale. Per tali ragioni, nonostante le immediate perplessità sovietiche, i massimi dirigenti del PCJ già a partire dall’estate del 1945 decisero di non percorrere la strada di una nazionalizzazione totale delle terra, puntando piuttosto ad una radicale politica di ridistribuzione dei beni fondiari, a svantaggio dei grandi latifondisti, che mantenesse però inalterato il diritto alla proprietà privata dei contadini.51 La riforma agraria, nonostante la conservazione di alcuni dispositivi tipici del capitalismo, finì però con l’avere comunque un impatto notevole sul sistema economico: se il numero delle confische non raggiunse mai cifre elevate e non colpì vaste porzioni fondiarie, la quantità di superficie concentrata in una sola proprietà andò a ridursi drasticamente, producendo un enorme numero di piccoli appezzamenti che provocò una consistente polverizzazione dei poderi.52 Per esempio nel febbraio del 1947 nel distretto di Capodistria i terreni di 5 grandi proprietari vennero distribuiti a 1.058 coloni e piccoli agricoltori.53 Nel corso dell’autunno di quello stesso anno dunque, di fronte alle difficoltà poste da un sistema produttivo praticamente al collasso, i vertici del PCJ realizzarono la necessità di tentare un ricompattamento fondiario, indispensabile al fine di avviare forme di produzione agricola intensiva e industriale, cercando però una mediazione con i diritti di quei contadini che avevano ottenuto la propria piccola proprietà a seguito delle ridistribuzioni. Per tale ragione, anche nella Zona B, le autorità iniziarono ad imprimere una maggiore accelerazione in direzione del rafforzamento del sistema cooperativistico, il quale avrebbe consentito a molti piccoli proprietari di consorziarsi, dando vita ad un più efficiente sistema produttivo e distributivo delle merci,54

e rendendo al contempo possibile maggiore il controllo da parte delle autorità di governo sul sistema economico, dal momento che, tramite le cooperative, avrebbero potuto stabilire il cartello dei prezzi dei prodotti agricoli, sottraendoli alla legge della domanda e dell’offerta.55 Nei territori compresi in quella che nel frattempo era divenuta la Zona B del TLT, il sistema si rivelò ben presto incapace di far fronte alle minime necessità di approvvigionamento, nonostante gli sforzi della vicina Jugoslavia, impegnata in una considerevole campagna di importazione di prodotti agricoli nella Zona. Nel 1948, con le rivendicazioni territoriali italiane in parte soddisfatte dalle promesse della Tripartita e la cacciata di Tito dal Cominform, la VUJA decise, per ordine delle autorità federali, di radicalizzare ulteriormente il processo di statalizzazione e controllo, inserendo la Zona B

51

S. Bianchini, Tito, Stalin e i contadini, cit., p. 52. Per un’analisi generale sulle riforme in ambito agrario vedere D. Rogoznica, La politica agraria dei poteri popolari nella Zona B del Territorio Libero di Trieste, cit.

52

Ivi, p. 77-78.

53

J. Prinčič, Economia della Zona B, cit., p. 436.

54

S. Bianchini, Tito, Stalin e i contadini, cit., pp. 117-119.

55

nei piani di attuazione del primo piano quinquennale. Aggirando dunque i vincoli posti in sede diplomatica sulle caratteristiche economiche dei territori compresi nel costituendo TLT, la Zona B finì per veder completata la sua transizione verso l’economia pianificata.56 I provvedimenti presi risultavano sostanzialmente coerenti con la strategia, ormai condivisa con gli angloamericani, di minare alla base la definitiva istituzione del TLT, mettendo in atto una annessione de facto della Zona al sistema economico e sociale della Jugoslavia. In tal senso dunque andavano letti i provvedimenti presi negli anni successivi: ritiro della jugolira e sua sostituzione con il dinaro jugoslavo nel luglio del 1949, adeguamento del sistema fiscale a quello adottato nella RPFJ, introduzione dell’unione doganale con la Jugoslavia, adeguamento dei prezzi di mercato al sistema jugoslavo.57

A dispetto degli sforzi notevoli compiuti, l’intera Zona B non avrebbe però visto migliorare in maniera sostanziale la propria situazione, risentendo notevolmente anche delle dialettiche che resero difficile e discontinuo il rapporto tra popolazione locale e autorità popolari, che furono anche alla base del fallimento del sistema cooperativistico, minato da faide locali, personalismi e incapacità individuali che ne fecero teatro di scontri di natura frequentemente estranea alla politica.58 Per questa ragione, parallelamente all’inserimento della Zona nel sistema Jugoslavo, a partire dal 1951 vennero varate significative riforme pensate per allentare le maglie della statalizzazione, le quali si inserivano nella più ampia ridefinizione dell’intero impianto economico della RPFJ al di fuori dei dettami che avevano strutturato il modello sovietico. Accanto all’introduzione di un sistema economico nel quale le aziende potevano impostare in maniera autonoma i propri piani di produzione e investimento, svincolandosi dalla pianificazione centralizzata, venne abolito l’ammasso obbligatorio delle eccedenze, che consentì ai contadini di poter vendere i propri prodotti sul mercato locale in maniera diretta senza dover passare attraverso le cooperative, lasciando che i prezzi venissero stabiliti in base alla legge della domanda e dell’offerta. Il fallimento di un buon numero di cooperative e l’iniziale impennata dei prezzi seguita ai primi decreti di liberalizzazione avrebbero di fatto ritardato gli effetti positivi di tali interventi, dal momento che, alla fine del 1953, con la questione di Trieste in via di ricomposizione, il quadro economico si presentava ancora sufficientemente critico da rappresentare una delle spinte più considerevoli all’esodo di parte della comunità italiana.59 Solo gli anni successivi al Memorandum avrebbero consentito la creazione di un contesto capace di dare vita ad un percorso di normalizzazione che avrebbe portato al recupero e alla parziale ricostruzione di quei circuiti economici locali che erano stati spazzati dalle vicende intercorse negli anni precedenti, sanando almeno in parte le difficoltà affrontate dalla popolazione locale.

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J. Prinčič, Economia della Zona B, cit., p. 438.

57

Ibidem.

58

C. Colummi, Dalle elezioni del 1950 alla nota angloamericana dell’8 ottobre 1953: le premesse del grande esodo, cit., p. 412.

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