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In un tale contesto, l’adesione al Trattato di Maastricht assunse maggiore significato; verso il nuovo Trattato si concentravano molte delle attese di chi sperava che grazie ad un rinnovato e più pressante vincolo esterno la classe politica potesse fare quelle riforme che avrebbero permesso di rendere più solido il futuro del paese. Vale la pena di ricordare che la firma nella cittadina olandese fu apposta da un governo dimissionario, che pertanto si sarebbe dovuto limitare alla gestione ordinaria dello stato. La letteratura si è interrogata sulle motivazioni che avevano portato Andreotti e De Michelis, insieme a Carli, ad accettare e sostenere il compromesso raggiunto, accordo che, come si è avuto modo di dire, era potenzialmente devastante per la già fragile realtà politica ed economica italiana. Su questo aspetto, Gian Enrico Rusconi è dell’opinione che “raramente una classe politica e un’opinione pubblica si sono avviati in modo così sprovveduto e pieno di attese verso un avvenimento politico ed economico determinante come il Trattato di Maastricht”4. Quanto al legame tra il nuovo accordo europeo e la crisi italiana, Lucio Caracciolo sostiene che è proprio con il Trattato di Maastricht “che l’Europa assurge a bussola del sistema politico italiano, contribuendo a sconvolgerne il quadrante”5. Ancor più esplicito è Sergio Romano quando afferma che fu proprio il Trattato “assai di più della fine della guerra fredda, il fattore esterno che accelerò la crisi italiana”6: tanto è vero, concorda Paul Ginsborg, che l’Europa era considerata dai politici italiani, come “un fattore di disturbo (…) che minacciava di sconvolgere i modelli tradizionali di distribuzione delle risorse”7.

Negli studi che si sono occupati della crisi italiana tra il 1989 e il 1994, il ruolo svolto dal Trattato di Maastricht e più in generale dall’appartenenza dell’Italia al processo d’integrazione europea, è stato spesso sottovalutato: riteniamo invece che se la caduta del Muro può essere definita come “l’evento” che innesca ed accelera la crisi, o quantomeno la rende possibile, disegnando un nuovo quadro internazionale, il Trattato, in concorso con altre cause interne al sistema politico-sociale ed economico italiano,

4 G. E. Rusconi, Una doppia Europa?, in “il Mulino.Europa/1”, 1994, p. 105.

5 L. Caracciolo, L’Italia alla ricerca di se stessa, in G. Sabbatucci, V. Vidotto, (a cura di), Storia d’Italia

6. l’Italia contemporanea, cit., p. 550.

6 Questo in quanto, “l’Italia ha firmato il trattato di Maastricht con la stessa irresponsabile doppiezza e

levità intellettuale con cui ha aderito al Sistema monetario europeo nel 1979 e assunto negli anni seguenti gli impegni del mercato unico”, S. Romano, L’Italia scappata di mano, cit., p. 116-117.

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finì per rappresentare il combustibile che alimentò il fuoco8. Caracciolo avanza l’ipotesi che

“Andreotti e De Michelis abbiano agganciato l’Italia alla locomotiva di Maastricht nella speranza che il vincolo europeo potesse risanare le finanze pubbliche. Per loro il regime era riformabile (…) ma gli italiani non erano disponibili a nessun genere di sacrificio. Non restava che imporglielo da fuori, in nome dell’Europa. Un orizzonte che gli italiani sentivano lontano, ma allo stesso tempo migliore e quasi indiscutibile. Sicché mentre rifiutavano la più blanda omeopatia proposta dal medico di famiglia, accettavano di buon grado la terapia d’urto certificata da Bruxelles (o meglio da Bonn e Parigi)”9.

Possono essere forse lette in quest’ottica le posizioni e le polemiche che già dal semestre di presidenza del 1990 avevano contrapposto Andreotti e De Michelis al parlamento. Tuttavia, nonostante l’approccio più realistico all’integrazione europea che contraddistinse l’azione di Andreotti e di De Michelis nei primi anni ’90, non è invece chiaro se i due esponenti avessero avuto sentore, in qualche modo, dell’avvicinarsi della bufera e abbiano quindi deciso di fissare un paletto al quale partiti e governi successivi si sarebbero dovuti attenere, nella speranza di riuscire a rimanere alla guida del paese, attraverso un rinnovamento interno al regime partitico. Michele Salvati sostiene che proprio l’avvio della crisi politica permise al governo presieduto da Amato, di avviare il risanamento: “anche un governo delegittimato in un Parlamento delegittimato (di questo termine allora si faceva un grande uso e abuso) ma condotto da un politico dotato di elevata competenza e senso dello Stato, poteva in quelle condizioni sfruttare ampi spazi di manovra”10.

8 Ad esempio, Sergio Romano si è chiesto come mai gli industriali, ad un certo punto, denuncino il

sistema delle tangenti, che fino a quel momento avevano alimentato con complicità: secondo Romano, gli industriali “non sono angeli, ma hanno compreso che l’Italia non era più in grado di tener dietro agli sviluppi dell’integrazione europea (…) era in gioco ormai tutto quello che essi erano riusciti a creare dopo la ricostruzione e il ‘miracolo’ degli anni ‘50”, S. Romano, L’Italia scappata di mano, cit., p. 54.

9

L. Caracciolo, L’Italia alla ricerca di se stessa, cit., p. 566. Lo stesso governatore Ciampi,aveva parlato di Maastricht come di un chiodo piantato nella roccia al quale legare la fune per scalare la “montagna” del risanamento economico-finanziario: quello stesso chiodo al quale, in caso d’inerzia da parte della classe politica, “il nostro paese avrebbe potuto restare impiccato”, M. Riva, Il cappio europeo al collo dell’Italia, in “la Repubblica”, 11 giugno 1992.

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“E a maggior ragione poteva goderne, in un Parlamento ormai in condizioni di panico, un ‘tecnico’ dell’autorevolezza e dell’esperienza di Ciampi”, M. Salvati, Dal miracolo economico alla moneta unica europea, in G. Sabbatucci, V. Vidotto, (a cura di), Storia d’Italia 6. L’Italia contemporanea, cit., p. 403. Anche Mario Monti, in un’intervista a “la Repubblica” affermava: “Amato si è mosso bene (…) e sono convinto che proprio questo clima di emergenza gli abbia consentito di adottare provvedimenti importanti, senza incontrare troppi ostacoli. Nel nostro Paese purtroppo solo in condizioni straordinarie si riesce a fare qualcosa”, R. Pianola, intervista a M. Monti, “Italia nei guai se cade l’Europa unita”, in “la Repubblica”, 4 settembre 1992.

Mentre iniziavano ad emergere le vicende interne appena descritte, anche le pressioni internazionali sull’Italia si fecero sensibilmente maggiori: ad inizio febbraio, Delors inviò una lettera ad Andreotti nella quale il presidente della Commissione, dopo aver ricordato quanto fosse importante che ogni paese recepisse le direttive in vista del mercato unico, notava:

“Tutti i paesi comunitari riponevano molta fiducia nella legge La Pergola (…) Sfortunatamente, l’ultima valutazione operata dalla Commissione mostra che la ‘legge comunitaria’ ha consentito appena all’Italia di mettersi nuovamente a livello di trasposizione già raggiunto nel corso del 1989. Questo significa che l’Italia rimane il paese comunitario con più direttive da recepire nel proprio ordinamento giuridico. A tal riguardo vorrei trasmetterLe la mia inquietudine”11.

La lettera suscitò la secca replica del ministro Romita che contestava a Delors i dati citati: Romita, riprendendo la posizione già espressa da Andreotti, ricordava che a gennaio era stata approvata la nuova “legge comunitaria” e che pertanto il ritardo era minore e agli stessi livelli di quello registrato in altri paesi. Il ministro si domandava quindi se Delors avesse scritto anche ad essi ed accusò: “nel momento in cui si apre il mercato unico e la concorrenza fra paesi si fa più stringente, si apre, forse, il varco a critiche strumentali, che diffondano la sfiducia verso il sistema Italia”12 in quanto, “c’è chi ha tutto l’interesse a mettere in difficoltà l’Italia con la storia delle inadempienze”13.

Solo De Michelis sembrò condividere le critiche avanzate da Delors: “invece di discutere se potremo restare in Europa nel 1997, bisogna essere sicuri di esserci nel 1993”14. L’esponente socialista legava la firma al Trattato alla campagna elettorale: “È bene che l’opinione pubblica italiana sappia cosa l’aspetta. Il nuovo parlamento ha già l’agenda piena per rispettare gli impegni europei. Questo sarà l’asse portante della prossima legislatura. Se la gente saprà e capirà questo, volterà meglio”15 in quanto, “il messaggio che Maastricht trasmette all’Italia”, proseguiva De Michelis, “è che da oggi in poi l’Europa diventa centrale nella nostra vita di tutti i giorni. È bene che l’opinione pubblica lo sappia: molte delle cose che si dicono oggi nel nostro paese, quello che a noi

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“Caro Giulio così non va…”, in “la Repubblica”, 7 febbraio 1992.

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La dichiarazione è riportata in M. Ricci, “Delors sull’Italia si informi meglio”, in “la Repubblica”, 7 febbraio 1992.

13 La dichiarazione è riportata in G. Pelosi, Ma Roma respinge le critiche Cee: “Non siamo il fanalino di

coda”, in “il Sole 24 ore”, 7 febbraio 1992.

14 La dichiarazione è riportata in P. Sormani, De Michelis: “Ora avremo 5 anni duri”, in “Corriere della

Sera”, 8 febbraio 1992.

15 La dichiarazione è riportata in S. Trevisani, Foto di gruppo per la nuova Europa, in “l’Unità”, 8

oggi pare essere ‘la politica’, si riveleranno per quel che sono: marginali, veramente marginali”16. Per l’Italia e la sua classe politica era, come scriveva Raul Wittenberg, “Europa sognata, Europa temuta”. Il giornalista de “l’Unità” riprendeva così le parole usate da Pietro Scoppola alla presentazione dei risultati di un sondaggio avente come tema il rapporto tra gli italiani e la CEE, compiuto dall’istituto Pragma per conto dell’ufficio italiano della CEE e de “il Sole 24 ore”: Scoppola legava infatti questa contraddizione “sogno-timore alla crisi d’identità collettiva degli italiani” che andavano alla ricerca di una nuova identità ricercandola “in alto, verso l’Europa, e in basso, verso le Leghe”17. Il legame tra l’atteggiamento italiano verso l’Europa non poteva che entrare nei temi di una campagna elettorale che, invece, si stava occupando quasi esclusivamente di tematiche interne: Giorgio Napolitano riteneva che

“Il problema non è quello di ‘parlare di più dell’Europa’ nell’imminenza della campagna elettorale, ma è quello di dare giudizi onesti e coraggiosi sulla gravità dei ritardi accumulati dall’Italia per precipua responsabilità di chi ci ha governato negli anni scorsi e di formulare indicazioni non reticenti sulle riforme e sulle politiche da perseguire per colmare quei ritardi, per portare le istituzioni e l’economia del paese al livello delle nuove, ardue prove del processo d’integrazione”18.

Il 7 febbraio i Dodici firmavano il Trattato: come ebbe modo di commentare Silvio Trevisani, inviato per “l’Unità”, Carli e De Michelis avevano firmato “per conto di un’Italia che non sa se ce la farà a stare in Europa: a ridurre il deficit, il debito pubblico e l’inflazione. Che non sa se riuscirà ad adeguare in tempo le proprie leggi per essere ammessa al mercato unico del ‘93”19.

16 La dichiarazione è riportata in F. Papitto, Festa solenne per la nuova Europa, in “la Repubblica”, 8

febbraio 1992. Su l’“Avanti!” si riprendevano le posizioni di De Michelis per quanto riguarda il legame tra sfide europee e riforme istituzionali interne – De Michelis aveva più volte attribuito alla lentezza delle istituzioni il ritardo accumulato dall’Italia: “Stare in Europa richiede che vi sia un timone saldo e un timoniere sicuro e libero di agire come occorre (…) Chi ogni cinque minuti deve chiedere mille pareri non decide nulla”, L. Ferrari Bravo, La sfida di Maastricht, in “Avanti!”, 9-10 febbraio 1992.

17 La dichiarazione è riportata in R. Wittenberg, Europa di sogni e timori per l’Italia in crisi, in “l’Unità”,

11 febbraio 1992.

18 G. Napolitano, Il voto s’avvicina, l’Europa si allontana, in “la Repubblica”, 13 febbraio 1992. 19