• Non ci sono risultati.

Con il referendum danese, si è detto, il nuovo Trattato tornò prepotentemente al centro del dibattito politico dei vari stati membri; in Italia il confronto si accese su due aspetti: 1) i limiti, le carenze ed i punti di forza del Trattato; 2) la posizione dell’Italia rispetto agli obiettivi contenuti nell’accordo siglato a Maastricht. Lo sfondo comune a

32 G. Anselmi, Niente alibi, in “Corriere della Sera”, 4 giugno 1992. 33

La dichiarazione è riportata in B. Tucci, De Michelis: “Non possiamo tornare indietro”. La Farnesina esclude di rinegoziare i Trattati, in “Corriere della Sera”, 4 giugno 1992.

34 La dichiarazione è riportata in L. Di Mauro, “Andiamo avanti senza cercare alibi”. Stupiti ma non

troppo i politici italiani, cit.

35

La dichiarazione è riportata in Ibidem.

36 Secondo Gian Piero Orsello ad essere preoccupati per il “No” danese “sono in particolare gli industriali

che temono che la bocciatura espressa dai danesi possa servire da alibi per la classe politica italiana incapace di rispettare le difficili scadenze imposte dal Trattato”, la dichiarazione è riportata in Un Trattato non rinegoziabile, in “Avanti!”, 4 giugno 1992.

tale dibattito era costituito dall’incertezza che caratterizzava il processo di ratifica nella sua globalità: la vasta e articolata opposizione che si stava registrando in Francia rendeva incerto l’esito del referendum voluto da Mitterrand. Inoltre, a risolvere il caso danese e a guidare il processo di ratifica era chiamata la presidenza di turno della Gran Bretagna: da più parti si temeva che Major potesse approfittare delle difficoltà di approvazione in molti paesi e della crescente opposizione popolare al nuovo Trattato, per tentare di rimettere in discussione il compromesso raggiunto nella sua interezza.

Si è già avuto modo di porre in evidenza che nessuna formazione politica italiana condivideva appieno il risultato ottenuto nel dicembre 1991 a Maastricht: nonostante le ampie e profonde critiche che da più parti erano dirette al Trattato, solo RC ed il MSI sembravano però voler tradurre tali posizioni in un voto contrario. L’accusa principale che da entrambe le estremità dell’arco parlamentare si muoveva al Trattato e a chi lo sosteneva, era di aver finito per considerare Maastricht non come una delle possibili vie, ma l’unica strada. Tremaglia ricordava che “Maastricht non rappresenta l’Europa”37. Filippo Berselli, ribadiva che “muovere delle critiche al trattato non significa essere contro l’Europa (…) dobbiamo renderci conto che sono tali e tante le perplessità sollevate a tutti i livelli che non si può far finta di niente”38. Anche la CISNAL, sindacato vicino al MSI, denunciò un clima “per cui ogni critica, sia pure costruttiva e seria, al trattato viene interpretata come una forma di antieuropeismo”39. Nedo Barzanti, deputato di RC, rimproverava al Consiglio europeo di non aver saputo raggiungere un accordo che fosse proiettato alla soluzione delle crisi politiche ed economiche che si stavano manifestando in Europa, con il rischio che “il trattato di Maastricht risulti superato dai fatti”40. L’Europa che usciva da Maastricht, concordò Claudio Fava de La Rete, non era stata in grado di portare “a compimento quel processo irreversibile, avviatosi con l’abbattimento del muro di Berlino”41. Dai banchi del PE, Luigi Colajanni ribadì che il gruppo del PDS avrebbe votato comunque a favore, nonostante le forti perplessità, per due motivi, che si potrebbero definire esterni ai contenuti stessi del trattato: la prima considerazione era che di fronte all’instabilità politica ed economica che stava emergendo in Europa in seguito alla dissoluzione del blocco comunista, “riteniamo essenziale che l’Europa dia un segno politico forte di

37 On. M. Tremaglia, ALeg, CADE, XI Leg., BC, III Comm., 9 ottobre 1992, p. 7. 38

On. F. Berselli, ALeg, CADE, XI Leg., Documenti, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, n. 4, 24 settembre 1992, p. 49.

39 G. Magliaro, Ibidem, 7 ottobre 1992, p. 93. 40 On. N. Barzanti, Ibidem, 24 settembre 1992, p. 51. 41

aggregazione e assuma su di sé i compiti relativi alla definizione dei caratteri di questa nuova epoca”42. La seconda motivazione era interna ad ogni paese. Colajanni rilevò come stessero acquisendo spazio forze nazionaliste, quando non micronazionalistiche, dai toni razzisti: di fronte a tale situazione, “la principale e più efficace risposta è dunque quella di avanzare nella costruzione europea e di farlo in modo che essa dimostri la sua superiorità effettiva nella soluzione dei problemi di sicurezza, di identità, di immigrazione e in quelli sociali”43.

Le critiche verso il Trattato, oltre che i contenuti, riguardavano anche le modalità con le quali erano stati condotti i negoziati. Maria Luisa Cassanmagnago Cerretti, del PPE, sostenne infatti come fossero stati proprio gli accordi di Maastricht che “hanno prodotto e non sanato il deficit democratico”44. Francesco Enrico Speroni legava il deficit democratico alle difficoltà di ratifica che avevano caratterizzato la Danimarca: secondo l’esponente leghista, l’indicazione che emergeva dal “No” danese,

“è quella di evitare un’Europa di burocrati, il cui centro decisionale sia troppo sbilanciato nei confronti di Bruxelles (…) Non possiamo ritenere che il Consiglio dei ministri costituisca un’espressione veramente democratica, sia perché le sue riunioni si svolgono a porte chiuse, sia perché non rappresenta la totalità dei cittadini, come il Parlamento, bensì determinate maggioranze”45.

Anche da RC piovevano pesanti critiche sull’impronta che Maastricht rischiava di dare al processo d’integrazione europea; nel dibattito sulla fiducia al governo Amato, Sergio Garavini affermò:

“le imposizioni di politica economica e sociale più restrittive vengono poi stabilite da una CEE senza democrazia, dove il Parlamento è eletto ma non ha potere, dove c’è un Governo che non risponde al Parlamento, dove comandano non gli eletti del popolo, bensì i banchieri e ministri prevalentemente conservatori. Riteniamo del tutto negativo (…) che questi dati di fatto siano ignorati nell’ambito di una posizione acritica verso la CEE, di pura e semplice accettazione del trattato di

42 On. L. Colajanni, Discussioni al Parlamento europeo, 7 aprile 1992, supplemento al Bollettino CEE, n.

3-417/97.

43

Ibidem, p. /98. Il concetto espresso da Colajanni era ribadito da Biagio De Giovanni durante un’audizione dei deputati europei alla Commissione speciale per le politiche comunitarie: l’eurodeputato del PDS affermava che nonostante le forti critiche che si potevano muovere al Trattato, “non dimentichiamo però che, di fronte all’irrompere di nazionalismi selvaggi ed aspri, il trattato rimane un punto essenziale di aggregazione politica ed ideale dell’Europa, pur con tutti i suoi limiti”, On. B. De Giovanni, ALeg, CADE, XI Leg., BC, Comm. speciale per le politiche comunitarie, 21 luglio 1992, p. 21.

44 On. M. L. Cassanmagnago Cerretti, Ibidem, p. 7. 45

Maastricht così come esso è, una posizione che contraddistingue oggi non solo

l’alleanza di Governo ed i repubblicani, ma anche il PDS”46.

L’intervento suscitò l’immediata replica di Occhetto:

“Noi non guardiano ad esso acriticamente; stupisce che si dimentichino tanto facilmente come i processi di integrazione europea che stiamo vivendo siano accompagnati da un inquietante deficit di democrazia economica ma anche politica (…) Il programma del Governo è, a questo proposito, muto; manca un progetto forte per l’Europa politica, manca in sostanza un progetto democratico per l’Europa che non si limiti a trasferire solo poteri, ma fissi anche regole e principi che sanciscano compiti e limiti dell’azione politica”47.

Il missino Pozzo era dell’opinione che per effetto del deficit democratico il Trattato di Maastricht si configurasse come “una sorta di esproprio di sovranità politica”48 degli stati membri. Su questo aspetto era lo stesso PE ad intervenire attraverso una risoluzione nella quale ribadiva la necessità che fossero pubbliche le discussioni del Consiglio in veste di legislatore “con conseguente miglioramento del controllo dei parlamenti degli Stati sui rappresentanti dei rispettivi governi nel Consiglio”49. Anche la giunta per gli affari delle Comunità europee del Senato era dell’avviso che

“il Parlamento europeo [dovesse] costituire la principale sede, mediante l’attribuzione di un pieno e completo potere di codecisione, delle funzioni di indirizzo e di controllo sulle politiche comunitarie. Il perseguimento di tale prospettiva si rende tanto più necessario al fine di bilanciare la riduzione dei poteri dei Parlamenti nazionali, che deriva dall’ampliamento delle competenze dell’Unione nonché di evitare l’aggravarsi del problema del cosiddetto ‘deficit democratico’”50.

46 On. S. Garavini, ALEG, CADE, XI Leg., Assemblea, Discussioni, 3 luglio 1992, p. 617.

Successivamente, anche alla riunione della direzione del partito, ribadiva: “L’unificazione europea è importante in sé, e anche come indicazione alternativa alle contrapposizione etniche e nazionalistiche (…) Ma il processo deve essere anzitutto politico e democratico, deve realizzarsi attraverso l’attuazione di forme di potere politico democratico, che si impongano sulla economia e dettino le politiche sociali. Alla base del processo di unificazione deve porsi la realizzazione di una sovranità europea politica e democratica (…) Noi sentiamo quindi la necessità di realizzare una iniziativa in Italia e di proporre una iniziativa alla sinistra in Europa che miri (…) ad una riforma democratica, che trasferisca il potere politico nella Comunità a un Parlamento liberamente eletto su base proporzionale, il quale deliberi sulla formazione del Governo e di tutte le autorità comunitarie”, S. Garavini, La relazione di Sergio Garavini, in “Liberazione”, 3 luglio 1992.

47 On. A. Occhetto, ALeg, CADE, XI Leg., Assemblea, Discussioni, 3 luglio 1992, p. 634. 48 Sen. C. Pozzo, ALeg, SERE, XI Leg., BC, III Comm, 9a seduta, 15 settembre 1992, p. 6. 49 Risoluzione del Parlamento europeo, ALeg, XI Leg., Documenti, Doc. XII, n. 26, p. 2. 50

Secondo Massimo Salvadori del PDS, il problema era dato dal fatto che a Maastricht si era raggiunto il culmine dell’impostazione funzionalista, “che nel momento in cui raggiunge i suoi massimi risultati mette in evidenza la contraddizione esistente tra la forte accelerazione sul piano degli strumenti economici, finanziari e monetari e la debolezza di quelli politici”51. Il dilemma, ricordava Formentini riaffermando le critiche della LN ad d una CEE che non tutelasse le autonomie regionali, era che

“L’Europa si è fin qui fatta per volontà degli stati nazionali e difficilmente, giunti al momento delle decisioni cruciali, questi Stati vorranno o potranno rinunciare ai propri poteri sacrificandoli ad un ideale superiore. Solo la spinta proveniente dalle forze della autonomia e della libertà potrà assicurare il conseguimento del risultato. È su questo terreno che il federalismo lancia al centralismo la sfida decisiva”52.

Il problema del deficit democratico assunse in Italia particolare rilevanza sia per il tradizionale favore col quale si guardava alla dimensione politica dell’unificazione europea, sia per la strutturale debolezza, istituzionale ed economica, del paese rispetto agli altri membri e nello specifico alla Germania. La linea seguita dalla Bundesbank nel luglio 1992 per far fronte alle prime difficoltà dovute alla riunificazione avevano messo fortemente sotto pressione la lira, tanto che il governatore Ciampi ammetteva che se non si fosse accelerata la costruzione dell’UEM si sarebbe giunti “alla creazione di una moneta egemone”53, ovvero, il marco. Le tensioni monetarie dimostrarono la forza raggiunta dalla divisa tedesca: Ciampi ricordò quindi che per le valute deboli, come la lira italiana, “la moneta comune è l’antidoto alla moneta egemone”54. Per Salvadori, il rischio di una moneta dominante era intimamente connesso alle stesse scelte fatte per l’UEM: “una integrazione essenzialmente economica, finanziaria e monetaria può non essere in condizione di risolvere il problema dell’egemonia tedesca nel sistema”55. Il senatore di RC Luigi Vinci giudicò per questo il Trattato “un documento tedesco, in linea con l’atteggiamento di cedevolezza, più volte sperimentato in questo secolo dall’Europa verso l’espansionismo tedesco”56. Anche il leghista Luigi Rossi era

51

On. M. Salvadori, ALeg, CADE, XI Leg., Documenti, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, n. 4, 7 ottobre 1992, p. 87.

52 M. Formentini, Maastricht apre al federalismo, in “Lombardia Autonomista”, n. 32, a. X, 4 settembre

1992.

53

C. A. Ciampi, ALeg, CADE, XI Leg., BC, Comm. riunite, V Comm e VI Comm., 20 luglio 1992, p. 10.

54 C. A. Ciampi, ALeg, CADE, XI Leg., Documenti, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, n.

4, 10 settembre 1992, p. 20.

55 On. M. Salvadori, Ibidem, p. 29. 56

dell’opinione che fosse essenziale “evitare che il Trattato possa diventare uno strumento per costituire un asse franco-tedesco, diretto a determinare l’intera politica europea”57.

Quanto alle critiche rivolte ai contenuti, Franco Foschi della DC individuò come punto debole di Maastricht “la difficoltà di avere una strategia comune sovranazionale per quanto attiene ai problemi delle politiche sociali”58; Adriana Venieri criticava quello che riteneva essere il “principio base” del Trattato, ovvero, l’adeguamento della politica economica a quella monetaria: la deputata del PDS riteneva che la prima non potesse essere “esclusivamente attuativa di quella monetaria, che anzi è funzionale alla prima”59. Su questi aspetti si registrò la ferma opposizione di RC che, per bocca di Garavini sostenne come

“L’Europa è diventata lo schermo per le più restrittive politiche sociali, per le limitazioni da porre ai diritti civili (…) si utilizza cioè il nome dell’Europa per realizzare il dominio dei conservatori, dei grandi interessi finanziari e dei banchieri (…) Tutto si copre col nome magico di Maastricht (…) attenzione al fatto che c’è un’Europa che si rivolta, non contro l’unità europea, ma contro questo carattere autenticamente reazionario che ha assunto il processo di unificazione europea”60.

Anche le principali confederazioni sindacali furono critiche sui contenuti dell’accordo. Nell’ambito dell’indagine conoscitiva promossa dalla commissione speciale per le politiche comunitarie sui problemi connessi all’attuazione del Trattato di Maastricht, Marina Ricciardelli della CISL, sollevò tre critiche: 1) la presenza di un modello economico dominante che trasformava la stabilità dei prezzi da strumento di politica economica ad obiettivo politico, escludendo quindi l’occupazione dalle variabili economiche61; 2) un’interpretazione del concetto di sussidiarietà rivolta soprattutto verso i livelli inferiori di governo, mentre le politiche fiscali esigevano un maggiore coordinamento comunitario a fronte dell’elevata mobilità che caratterizzava le basi imponibili; 3) assenza di strumenti comunitari destinati a promuovere la crescita

57 On. L. Rossi, ALeg, CADE, XI Leg., BC, I Comm., 13 ottobre 1992, p. 7. 58

On. F. Foschi, ALeg, CADE, XI Leg., BC, Comm. Riunite, III Comm. e Comm. speciale per le politiche comunitarie, 30 luglio 1992, p. 14.

59 On. A. Venieri, ALeg, CADE, XI Leg., BC, I Comm., 15 ottobre 1992, p. 17.

60 On. S. Garavini, ALeg, CADE, XI Leg., Assemblea, Discussioni, 3 luglio 1992, pp. 616-617. 61

“In questo contesto (…) l’occupazione non è una variabile economica per due ragioni: è considerata una variabile sociale e come tale è emarginata rispetto al tecnicismo ed alla naturalità del discorso economico, quindi è da risolvere ed affrontare solo dopo che saranno risolti altri problemi”, M. Ricciardelli, ALeg, CADE, XI Leg., Documenti, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, n. 4, 7 ottobre 1992, p. 78.

economica. Giovanni Magliaro, della CISNAL, dichiarò che nonostante fosse convintamente europeista, non poteva per questo essere favorevole “ad un’Europa basata soltanto sul mercato e sulla moneta come elementi fondamentali cui tutti gli altri risulterebbero subordinati”62. Secondo Roberto Franchi, della UIL,

“Se un errore è stato commesso, ciò è avvenuto nei mesi scorsi, quando Maastricht, da parte di tutti, è stata presentata alla cittadinanza europea, come una sorta di vincolo negativo nei confronti delle popolazioni, chiamate a sostenere dei sacrifici per affrontare le conseguenze del trattato in oggetto (..) La realtà è che quanto dovremo fare è la conseguenza, quasi interamente, delle mancate politiche espansive e di una mancata politica sociale ed economica negli anni passati”63.

Il ministro del tesoro Piero Barucci difese la scelta dei parametri e del percorso stabilito dal Trattato, che si presentava con una sostanziale novità rispetto al sistema dell’armonizzazione minima che aveva scandito per lunghi tratti il processo d’integrazione: “non si dice più: ‘si fa un passo avanti quando tutti abbiamo realizzato un certo risultato’, ma si dice: ‘questi sono gli obiettivi che dovete conseguire entro una certa data (…) peggio per chi non ci riesce’”64.

Il democristiano Francesco D’Onofrio fu tra i pochi esponenti politici che sottolinearono il ruolo che il nuovo Trattato assegnava ai partiti europei, chiamati a svolgere una funzione significativa per l’evoluzione in senso europeistico della lotta politica. Infatti, per la prima volta e grazie alle pressioni esercitate dalle tre maggiori federazioni transnazionali – socialisti, popolari e liberaldemocratici – nel nuovo accordo si faceva esplicito riferimento ai partiti europei: l’articolo 138a li definiva come “an important factor for the integration within the Union. They contribute (…) to expressing the political will of the citizens of the Union”65.

5.1 La situazione dell’Italia

Sul dibattito interno pendeva sempre la questione della collocazione del paese di fronte agli obiettivi del Trattato. Napolitano sottolineò le ricadute negative che si registravano a livello europeo a causa della situazione interna,

62

G. Magliaro, Ibidem, p. 93.

63 R. Franchi, Ibidem, p. 80.

64 P. Barucci, Ibidem, 10 settembre 1992, p. 8.

65 Articolo 138a del Trattato di Maastricht. Si veda anche, T. Jansen, Partiti a dimensione europea, in “il

“da quelle dell’apparente incontrollabilità del deficit pubblico a quelle dell’esplosiva emersione di un torbido intreccio tra affari e politica, a quelle dell’attacco frontale della criminalità organizzata allo Stato democratico. Non vi è dubbio che si tratta di sviluppi molto pesanti, che feriscono in modo sensibile (…) anche la nostra capacità d’intervento nei dibattiti e nel processo di formazione delle decisioni della Comunità europea”66.

L’antidoto fondamentale per evitare i rischi della pesante deriva in atto, concluse il presidente della Camera, stavano proprio nel rafforzamento “del nostro impegno nel processo di costruzione europea”67. Anche il senatore del PSI Arduino Agnelli, notò che il sostegno italiano in favore dell’unificazione politica “risulta in questo momento indubbiamente offuscato, a causa della mancata adozione di misure di adempimento ai vincoli comunitari”68. Luigi Colajanni, citando un documento unitario approvato dagli eurodeputati del PSI e del PDS, ribadiva:

“I nostri problemi li dobbiamo affrontare comunque, con o senza Maastricht. Ma noi siamo convinti (…) ‘che lo slittamento, o peggio la dissoluzione del processo di costruzione dell’Unione europea aggraverebbe tutti i problemi: economici, istituzionali, finanziari, così come la lotta alla criminalità e alla corruzione’”69.

La lunga gestazione del nuovo esecutivo dopo le elezioni dell’aprile, aveva acuito la criticità della situazione economica nonostante che nei primi mesi dell’anno e durante la campagna elettorale le forze di governo avessero più volte dichiarato che sarebbe stato un loro impegno prioritario dedicarsi al risanamento dei conti pubblici. Già al consiglio nazionale del gennaio 1992, Arnaldo Forlani, dopo aver ripercorso il contributo italiano alle negoziazioni di Maastricht, aveva ammesso:

66

On. G. Napolitano, ALeg, CADE, XI Leg., BC, Comm. speciale politiche comunitarie, 21 luglio 1992, p. 4.

67 Ibidem. Sulla rivista “Maastricht Watch”, si evidenziava che “Al Consiglio Ecofin del 19 maggio 1992

l’Italia ha presentato un quadro in piena divergenza dagli obiettivi europei, cosa che ha portato il Consiglio comunitario a sottolineare che lo slittamento che si profila nell’azione di risanamento ‘ha raggiunto dimensioni tali da compromettere la credibilità della politica economica italiana (…) L’Italia si trova insomma a Bruxelles in una posizione di debolezza, cui contribuisce un atteggiamento discontinuo verso la politica d’integrazione europea, oscillante tra l’adesione convinta e la tendenza a considerare i vincoli comunitari ‘imposizioni’ cui sottrarsi con la richiesta di beneficiare di ‘eccezioni’ per coprire i ritardi e le carenze del sistema italiano. Atteggiamento che rafforza la sensazione che esista nel paese un isolazionismo strisciante nei confronti dell’Europa proprio per i ‘costi’ che Maastricht implica”, L’Italia a Bruxelles dopo Maastricht, in “Maastricht Watch”, n. 0, ottobre 1992, pp. 35 e 37.

68

Sen. A. Agnelli, ALeg, SERE, XI Leg., BC., Giunta affari delle Comunità europee, 6a seduta, 9 settembre 1992, p. 46.

69 S. Sabbatini, intervista a L. Colajanni, Pds, ora su Maastricht c’è un ripensamento, in “Avanti!”, 13-14

settembre 1992. Quanto al documento unitario citato da Colajanni, si veda, A. Fulmini, Socialisti e Pds, appello per l’Europa, in “Avanti!”, 5 settembre 1992.

“Sappiamo che per essere incisivi (…) è necessario essere un paese economicamente forte e con le finanze in ordine (…) l’unità europea incalza ed è esigente (…) saranno necessarie scelte ferme e coraggiose. C’è chi dubita della capacità nostra di percorrere un cammino così difficile non privo di sacrifici e quindi anche di possibili costi elettorali. Costoro non conoscono la storia e la ‘natura’ del nostro partito. Non ci siamo mai tirati indietro dinanzi a decisioni anche impopolari, allorché era in gioco l’avvenire del Paese”70.