Il tema della sostenibilità degli impegni contenuti nel nuovo Trattato, come già aveva sottolineato Napolitano, non aveva ricevuto durante la campagna elettorale quella rilevanza che era lecito aspettarsi, nonostante fosse del tutto naturale che nell’infuriare della crisi politica gli aspetti connessi alla crisi politica interna assumessero carattere dominante. A riportare le tematiche europee al centro dell’arena politica italiana fu il referendum popolare attraverso il quale la Danimarca bocciò il Trattato di Maastricht. Nonostante che il fronte del “No” avesse vinto la consultazione popolare con un ristretto margine, e nonostante che si potesse definire come una contrarierà a Maastricht e non al processo d’integrazione tout court, l’eco del referendum danese riaccese il dibattito sui contenuti del nuovo Trattato e sulle modalità usate per arrivarci: “mai l’Europa comunitaria ha conosciuto qualcosa di simile”, scrisse Arturo Guatelli, “il voto dei danesi ha seminato il dubbio sul progetto europeo d’integrazione. Ne ha soprattutto rimesso in discussione la logica e le prospettive”24. Secondo De Giovanni, il rifiuto danese “si innesta pesantemente in quella rinascita dei ‘nazionalismi’ che prende le distanze e diffida di ogni autorità sia pure parzialmente sovranazionale”25. Garavini era invece dell’opinione che il “No” danese non fosse frutto di motivazioni nazionalistiche quanto dei contenuti del Trattato: l’esponente di RC denunciava infatti le condizioni “con cui si vuole imporre il processo con pesanti costi sociali”26. Anche sul quotidiano del MSI si esprimeva apprezzamento per il risultato del referendum danese: “è una doccia fredda per gli eurocrati di Bruxelles, quel migliaio di ‘gnomi’ del potere comunitario che tenta di guidare da lontano la vita dei singoli popoli che abitano questo continente”27. In un pregevole editoriale su “la Stampa”, Barbara Spinelli evidenziò che nel fronte del “No”, definito “strana accozzaglia neoconservatrice”, confluivano forze di diversa estrazione sociale e matrice politica come “sinistre
24
A. Guatelli, Rinegoziare, in “Corriere della Sera”, 4 giugno 1992.
25 B. De Giovanni, Eppure questa rivolta va capita, in “l’Unità”, 4 giugno 1992.
26 La dichiarazione è riportata in L. Di Mauro, “Andiamo avanti senza cercare alibi”. Stupiti ma non
troppo i politici italiani, in “l’Unità”, 4 giugno 1992.
27
anticapitaliste, destre xenofobe, piccoli borghesi impauriti, imprenditori scettici”28. Tuttavia,
“il fronte del rifiuto ha ragioni, malesseri e rabbie su cui conviene indagare. È la rabbia di chi sente parlare di rinuncia alle sovranità nazionali, e non vede chi eserciterà la nuova sovranità, e come sarà possibile influire democraticamente su di essa. Il potere non sopporta il vuoto, e questo la gente lo sa”29.
La classe politica italiana si interrogò sulle ripercussioni interne che il voto portava con sé: nello specifico, si trattava di valutare la posizione da assumere verso un’eventuale ri-negoziazione del Trattato30, ipotesi sostenuta anche da settori autorevoli della stampa nazionale, e di valutare il legame tra la rimessa in discussione dell’accordo europeo e la situazione economica del paese. Infatti, il “No” danese sopraggiunse mentre in Italia perduravano le trattative sul nuovo governo: le stesse ondate speculative che seguirono il referendum, ebbero effetti maggiori in Italia anche per l’assenza di un esecutivo che potesse reagire prontamente, costringendo quindi la Banca d’Italia ad utilizzare una sostanziosa parte delle riserve valutarie per sostenere il cambio della lira31. Dietro l’ampia e variegata opposizione ad una nuova negoziazione del Trattato, si celavano le paure di chi temeva che questa potesse costituire un’occasione per rinviare nuovamente le operazioni di risanamento: come ricordava Giulio Anselmi dalle colonne del “Corriere della Sera”,
“Maastricht è diventata in Italia la parola d’ordine di chi vuole cambiare e la misura della volontà di mutare radicalmente la nostra politica economica. Chi ha visto fallire regolarmente, nel corso degli anni, tutti i tentativi di imbrigliare gli eccessi
28
B. Spinelli, Passa l’angelo del dubbio, in “la Stampa”, 4 giugno 1992.
29 Il voto danese, concludeva Barbara Spinelli, era contro le classi politiche nazionali, “giudicate
dimissionarie e scandalosamente distanti. È un voto contro Stati magari ancora potenti, ma del tutto irresponsabili (…) Questa nausea è diffusa, in Europa (…) E se rischia di trasformarsi in nausea d’Europa è perché l’Europa che si sta costruendo non è un’alternativa a queste classi politiche, a queste nomenklature. È un’Europa a loro immagine, e al loro servizio”, Ibidem.
30 Il PE si esprimeva con parole nettamente contrarie all’ipotesi di ri-negoziazione: nella risoluzione
approvata il 16 luglio 1992, il PE prese atto del risultato del referendum danese, pur deplorandone l’esito e metteva in guardia “contro qualsiasi tentativo di riaprire i negoziati sul trattato di Maastricht”, Risoluzione del Parlamento europeo, ALeg, XI Leg., Documenti, Doc. XII, n. 12, p. 2.
31 Massimo Riva, commentatore economico per “la Repubblica”, aveva sostenuto l’azione effettuata da
Ciampi in difesa della Lira. Il giornalista segnalava quindi i rischi che si sarebbero potuti manifestare nel caso, seppur improbabile, di una vittoria del “No” anche nel referendum irlandese che si sarebbe tenuto a breve: “è chiaro a tutti che l’unica risposta seria che da Roma può essere lanciata verso l’estero sarebbe la formazione di un governo. S’intende, di un governo costituito su un programma che almeno avvii l’opera di risanamento della finanza nazionale (…) il rischio di restare impiccati a quel famoso chiodo nella roccia riguarda per primi proprio loro” M. Riva, Il cappio europeo al collo dell’Italia, cit.
dello Stato sociale (…) ha individuato nel Trattato (…) l’unica possibile via d’uscita (…) Se, com’è probabile, si attenuerà la pressione europea sull’Italia, presto qualcuno sosterrà che l’economia non è una vera emergenza, ma un problema in via di soluzione; e proporrà di affrontarla in coda ad altri temi più urgenti, per esempio le riforme istituzionali”32.
De Michelis si affrettava a ribadire che, al di là della soluzione che si sarebbe trovata a livello europeo per la Danimarca, “chi dovesse credere che noi potremo rinunciare o solo ritardare a prendere le misure anticrisi farebbe un errore madornale. Perché l’Italia ha estremo bisogno di quei provvedimenti e perché se non li varassimo, allora sì saremmo definitivamente fuori dall’Europa”33. Le posizioni espresse da De Michelis erano condivise da Giorgio Napolitano, nuovo presidente della Camera dei Deputati: “Il No della Danimarca alla ratifica dei Trattati di Maastricht non deve costituire un alibi per rinviare o non rispettare gli accordi assunti in sede europea”34. Anche Piero Fassino, responsabile esteri del PDS, avvertiva che per nessun motivo si dovevano rinviare “improcrastinabili decisioni di risanamento economico e finanziario, senza le quali l’Italia non entrerà né nell’Europa dei 12, né degli 11”35. Benché le smentite della classe politica fossero state ampie e precise, da parte di molti commentatori ed esponenti del mondo economico – come Gianni Agnelli e Carlo De Benedetti – traspariva sovente la preoccupazione che dietro l’“alibi danese” si potesse celare il tentativo di rinviare ancora una volta l’inizio della convergenza verso i parametri fissati nel Trattato36.