La storia della minestra di Gasparino (Negri 2010: 17) è illustrata da
cinque vignette numerate e narrata da quattro strofe (una in meno rispetto alle immagini) di lunghezza variabile. L’eroe, o il ‘non-eroe’, è Kaspar, lo stesso nome di uno dei tre furfanti della storiella del Moretto.
Nella vignetta 1. vediamo ora un bambino cicciottello, con delle paffute gote rosse mentre sbatte i piedi e alza le mani al cielo; se si osservano meglio i suoi movimenti, si nota poi che la mano sinistra è chiusa a pugno, evidente simbolo della sua rabbia e ribellione, mentre quella destra è aperta e rivolta verso il tavolo da pranzo, in segno di rifiuto. Per Kaspar è giunta l’ora di mangiare, come suggeriscono il bavaglio bianco che egli indossa sopra il vestitino blu, e soprattutto il tavolo rettangolare alla sua destra, apparecchiato con una tovaglia bianca, un piatto già riempito e un cucchiaio.
Questo tavolo sembra ricordare quello dell’introduzione; proprio come allora il bambino è solo davanti al suo pasto, anche se ora appare ben più paffutello. Ecco che entra così in gioco quell’idea di Gesamtinterpretation a cui si è fatto riferimento all’inizio di questo capitolo, secondo la quale
ivi: 17.
ciascun personaggio perde la propria individualità per divenire semplicemente ‘un bambino’, e le varie storielle altro non sono che un’unica storia di quel bambino nel quale chiunque può immedesimarsi.
Agli occhi di un lettore contemporaneo il piccolo Kaspar non sarebbe solo cicciottello, ma addirittura sovrappeso. All’epoca in cui Hoffmann scrive questa storiella (e così fino a pochi anni fa), invece, ‘grassoccio’ era sinonimo di ‘sano’, e proprio a questa credenza sembra volersi riferire l’autore con l’aggettivo kerngesund (Hoffmann 2008: 17) al primo verso. Al di là della sua corporatura, è evidente che egli appare ben più grassoccio rispetto al bambino dell’introduzione; forse perché è ubbidiente e finisce sempre ciò che ha davanti al piatto, o forse, dopo le tante disavventure, ha trovato nel cibo una piacevole consolazione. Se Kaspar cresce in senso fisico, lo stesso non si può dire riguardo la sua maturità; in un certo senso, infatti, è come se fosse ritornato un bambino piccolo, e questo sembrano percepirlo anche gli adulti che si occupano di lui dal momento che, su quello stesso tavolo, sono stati tolti bicchiere, caraffa e zuppiera. Quello che viene raffigurato ora è un tavolo apparecchiato appositamente per un bambino, con solo un piatto e un cucchiaio.
Inizialmente, dunque, Kaspar soddisfa pienamente le aspettative degli adulti senza dare alcun problema. Il suo atteggiamento, tuttavia, cambia già alla metà della prima strofa (si noti il Doch al v. 5): improvvisamente egli non vuole più mangiare. Le ragioni del suo rifiuto non sono esplicitate, ma è probabile che il bambino rifiuti la minestra non tanto per il suo stato emotivo, ma piuttosto perché preferirebbe mangiare qualcosa di più gustoso. Fin qui, dunque, nulla di strano per un bambino. Ben più anomalo è il fatto che nessuno sia lì ad ascoltarlo, magari offrendogli un Butterbrot (panino al burro); al contrario, lo si lascia letteralmente morire di fame.
Nell’immagine 2. vediamo infatti che Kaspar ha già perso molto peso, forse persino troppo. Il suo viso appare piuttosto infossato, i suoi capelli più sottili e i suoi movimenti, praticamente gli stessi, quasi privi di forza ed energia.
Ciononostante, Kaspar continua imperterrito nel suo rifiuto e la terza vignetta ne mostra le spaventose conseguenze. A differenza delle prime due immagini, si tratta qui di un autentico ritratto di una malattia che proprio allora si stava diffondendo: l’anoressia nervosa. Molti psicologi hanno analizzato questo racconto, in particolare tra gli anni 60’ e 70’ del secolo scorso, tra cui lo psichiatra infantile Rasche , il quale sostiene che la 63
minestra di Kaspar sarebbe da interpretare come simbolo degli errori educativi dei genitori che obbligavano i bambini a mangiare tutto ciò che avevano nel piatto (Costanze Carcenac-Lecomte 2001: 126). Tornando a Kaspar, nella terza strofa, a differenza delle prime due, Hoffmann dà voce alla sua sofferenza: “o weh und ach!” (Hoffmann 2008: 17). A rispondere a questo grido di aiuto, però, non c’è nessuno, ed è come se quel tavolo venisse di volta in volta apparecchiato da mani invisibili.
Non deve dunque stupire se, nell’immagine 4., il bambino si è ridotto quasi a uno scheletro e se i suoi gesti appaiono ora totalmente privi di vitalità. Per la prima volta, inoltre, Kaspar non guarda verso il lettore, ma verso il suo inesorabile destino, raffigurato nella quinta e ultima immagine di questa angosciante storiella.
Kaspar è morto, e l’ultima illustrazione ne mostra la misera sepoltura; una croce con inciso il suo nome (forse l’unica magra consolazione) sopra un prato verde da cui spiccano alcuni fiorellini selvatici e un po’ appassiti. Quest’ultimo particolare sarebbe particolarmente significativo per dimostrare che il bambino era, è e rimane da solo, persino in un momento così tragico e toccante come la morte; così come nessuno gli ha offerto altro cibo al posto di quella minestra, ora nessuno gli porta dei fiori. Anche la mano invisibile che gli apparecchiava il tavolo è scomparsa: sulla sua tomba sta solo una zuppiera con scritto “Suppe” (“minestra”), quella stessa minestra che Kaspar disprezzava così tanto e che ora continua a perseguitarlo anche dopo la morte. Con quest’ultima immagine, e in particolare con l’aggiunta della
Jörg Rasche (1950 -) è medico specialista in psicoterapia infantile e giovanile. Appassionato
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di musica, insegna psicoterapia a Berlino e Zurigo (Si veda http://www.psychosozial-verlag.de/catalog/autoren.php?author_id=3220).
zuppiera , il cinismo di Hoffmann tocca il punto più alto; ecco dunque che, 64
dopo aver letto il finale, persino quell’accennata espressione di dolore (“o weh und ach!”) appare del tutto vuota se non addirittura ipocrita.
Alla quasi totale mancanza di ‘azione’ Hoffmann compensa dunque ricorrendo a stereotipi e alle sue doti artistiche, qui da intendersi non di certo per la complessità dei disegni, ma piuttosto per i significati intrinseci che, attraverso di essi, egli riesce a trasmettere. Ancora una volta, poi, sembra farlo per così dire ‘al contrario’, raccontandoci di un bambino che, anziché crescere, diventa sempre ‘più piccolo’ fino a scomparire. In questo senso quella di Suppen-Kaspar rappresenterebbe una radicale negazione della crescita e del ‘divenire adulto’ del bambino (Könneker 1977: 124).
Nella prima versione, infatti, compariva solo la croce, peraltro vista da dietro e dunque
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