X. Die Geschichte vom fliegenden Robert
5. Per una metodologia della traduzione
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Alla domanda “che cosa vuol dire tradurre?” generalmente si risponde: “dire la stessa cosa in un’altra lingua” (Eco 2012: 9). Come fa notare Eco, tuttavia, questa definizione è problematica almeno sotto due aspetti: prima di tutto non sappiamo con precisione che cosa significhi “dire la stessa cosa”, e in secondo luogo, non è sempre chiaro quale sia la cosa. Per parlare di traduzione e trattare di una teoria della traduzione occorre, secondo Eco, partire da esperienze dirette, concrete (ivi: 12). Molte volte, infatti, capita di leggere testi di teorici della traduzione che in realtà non hanno mai tradotto, e che quindi parlano di qualcosa di cui non hanno esperienza diretta.
Non è certamente questo il caso di Antoine Berman, illustre intellettuale, linguista, critico e, non da ultimo, sapiente traduttore del secolo scorso. Il suo ampio corpus di scritti costituisce, infatti, uno dei più importanti contributi mai offerti alla traduttologia. Punto di partenza di qualsiasi sua riflessione sulla traduzione è la propria esperienza diretta di traduzioni da lingue diverse.
Questo dimostra come Berman condivida l’idea di Eco di un’indissolubile unione di teoria e pratica, premessa di una delle sue opere più rinomate all’interno degli studi di traduttologia, Pour une critique des
traductions: John Donne (1995). L’assunto di Berman è che esiste da poco una
critica della traduzione: naturalmente recensioni critiche di traduzioni esistono sin dall’epoca classica, ma solo sotto forma di giudizio o di mera valutazione e con l’unico obiettivo di attacco sistematico e di ricerca quasi ossessiva degli “errori”. Se tuttavia l’atto critico, come afferma Berman, deve essere “produttivo” (Berman 2000: 80), allora non si dovrà limitare ad una inutile e banale ‘caccia all’errore’, quanto a mostrare “l’eccellenza” (ivi: 81) di una traduzione. Ecco, dunque, che ‘critica’ diviene sinonimo di analisi rigorosa di una traduzione, del progetto che le ha dato nascita e del contesto in cui è sorta, ma anche di ricerca sul traduttore e tutto ciò che lo riguarda. Quest’ultima costituisce una tappa fondamentale di quell’analisi critica della
traduzione delineata da Berman, secondo il quale, per poter svolgere una qualsiasi attività di traduzione, è indispensabile chiedersi chi sia il traduttore:
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vogliamo sapere di quale settore del linguaggio e della letteratura si è occupato; […] quali sono le sue traduzioni più importanti; se ha scritto articoli, studi, saggi o libri sulle opere che ha tradotto; e infine se ha scritto sulla propria pratica di tradurre, sui principi che la guidano, sulle sue traduzioni e sulla traduzione in genere (ivi: 59).
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La centralità della figura del traduttore è peraltro oggetto della storia della traduzione, una disciplina tanto affascinante quanto ancora poco esplorata che considera il traduttore un essere umano, una persona in carne e ossa: solo attraverso i traduttori e i loro contesti sociali possiamo infatti tentare di comprendere le ragioni che hanno portato a determinate scelte traduttive in un preciso contesto storico e spaziale. Tuttavia, fare una ricerca su traduttori e traduzioni del passato non è cosa di poco conto, soprattutto se i primi sembrano essere coperti dal ‘mantello dell’invisibilità’.
Quello dell’invisibilità è un leitmotiv della letteratura di ogni tempo e luogo che risale al noto Canto dei Nibelunghi, in cui ad aiutare re Gunther a ottenere in matrimonio l’amata Brunilde è proprio un mantello magico che rende invisibili. Se all’origine l’invisibilità è percepita come potere o qualità incommensurabile, lo stesso non si può dire nell’ambito della storia della traduzione: non solo del traduttore spesso non si sa nulla, a volte neppure il nome, ma risulta persino difficile reperire informazioni sulla sua personalità e i suoi lavori.
L’idea di un ‘traduttore umano’ come focus della storia della traduzione, è uno dei principi base della disciplina individuati da Anthony Pym. Come afferma lo studioso nel suo volume Method in Translation History, spiegare perché determinate traduzioni siano state realizzate in un preciso luogo e momento del passato è il primo compito del ricercatore nell’ambito della storia della traduzione. Per poter assolvere a tale incarico, egli dovrà
partire proprio dalla figura del traduttore e chiedersi perché abbia scelto di dedicarsi alla traduzione. Se si parte dal presupposto che i traduttori sono persone in carne ed ossa, allora è chiaro che ognuno di loro avrà interessi diversi, e tanto diverse potranno essere le ragioni che li hanno spinti a tradurre: a volte si tratta di puro amore per l’attività traduttiva, più spesso, invece, il desiderio parte da un particolare rapporto emotivo con una cultura straniera o con un autore specifico (Pym 1998: 166-7).
Altrettanto importante sarà, pertanto, una ricerca approfondita sui contesti sociali dei traduttori, sui mondi nei quali hanno vissuto e lavorato. Di qui la possibilità di scontrarsi con traduttori “interculturali” (ivi: x), vissuti in luoghi esposti a diverse culture o in paesi lontani, oppure che hanno avuto rapporti con mondi altri attraverso le più svariate figure di intermediari (diplomati, commercianti, spie ecc.), o con traduttori che “are not just translators”.
Tale processo dovrà tuttavia limitarsi alla sola ricerca di quei dettagli che possano effettivamente chiarire il lavoro di traduzione; nonostante il passato rappresenti uno scrigno di preziosi tesori da esplorare, è il presente il vero punto di partenza della storia della traduzione, il ‘qui e ora’. Ne deriva che la ricerca dovrà sì essere orientata al passato, ma sempre con l’intento ultimo di rispondere a quesiti del nostro tempo (ibid).
Nel caso specifico della letteratura per bambini, il traduttore dovrà considerare la nozione di ‘infanzia’ appartenente alla cultura d’arrivo e, soprattutto, l’immagine del bambino che ne deriva. Anche la traduzione di libri per bambini sembra tuttavia condividere lo stesso problema della traduzione di libri per adulti, ovvero quello dell’invisibilità: come afferma Oittinen nel suo volume Translating for Children, non solo non consideriamo i traduttori come esseri umani, ma ignoriamo del tutto il fatto che, in quanto tali, custodiscano una propria immagine del bambino (Oittinen 2000: 4).
Quest’ultima è un qualcosa di molto complesso: da un lato unica, basata sulle esperienze di ognuno di noi, dall’altro patrimonio collettivo di qualsiasi società. Quel che è certo è che quando un traduttore traduce libri
per bambini porta sempre con sé i ricordi della propria infanzia e del suo essere bambino (ibid).
Anche la nozione di ‘infanzia’ non è scontata; si tratta, infatti, di un concetto che ha subito una notevole evoluzione nel corso del tempo e che ancora oggi appare piuttosto complesso. In Europa si inizia a parlare di ‘infanzia’ a partire dal XVII secolo, con il solo intento di dividere gli adulti dai ‘non-adulti’ e riconoscere di fatto le loro differenze: i bambini erano considerati esseri piccoli e fragili, utili forse per qualche lavoretto. Il più grande ostacolo alla comunicazione tra adulti e bambini era e continua ad essere quell’autorità che gli adulti esercitano, o perlomeno tentano di esercitare, sui loro bambini, dimenticando i loro veri desideri e che forse anche loro sono in grado di prendere le proprie decisioni.
Non solo gli adulti, ma anche i traduttori di libri per bambini dovrebbero considerare questi e molti altri aspetti ancora, ritrovando almeno per qualche istante il bambino che è in loro e ricomporre così l’immagine della propria infanzia. Solo dopo aver compiuto questo sforzo potremo apprezzare i bambini per le loro innumerevoli qualità e soprattutto come esseri umani autonomi che pensano, imparano e che partecipano alla vita sociale sin dalla loro nascita (Oittinen 2000: 48): come afferma Selma Fraiberg, psicoanalista per l’infanzia, “the first human years are magical, and the child is a magician” (ibid).
Se tradurre per bambini significa tradurre per un pubblico specifico e rispettarlo considerando quelli che sono i suoi desideri e le sue abilità, allora il traduttore di libri per bambini dovrà interrogarsi su quale sia il concetto di infanzia, su come i bambini pensino e su quali siano le loro abilità, considerando anche l’importante contributo della psicologia infantile su questioni quali la censura o il “carnevalesco” (Oittinen 2000: 44).
Quest’ultimo termine potrebbe apparire del tutto fuori luogo considerando la traduzione di libri per bambini. Al contrario, la cultura del carnevalesco, descritta da Bachtin Michail in L’opera di Rabelais, è molto simile a quella che la Oittinen definisce children’s culture. Il carnevale, che ha origine nell’antichità e conosce il suo massimo splendore in età medievale
e rinascimentale, è, secondo Bachtin, una sorta di riso collettivo al quale tutti possono prendere parte. In letteratura, il carnevalesco e il riso appartengono da sempre a quei generi non ufficiali che Bachtin definisce “bassi” e che trattano della vita di singoli individui di umili origini. Lo stesso si può dire della letteratura per l’infanzia, da sempre considerata ‘inferiore’ rispetto alla letteratura per adulti solo perché apparentemente semplice e scontata.
Un altro aspetto comune a queste due culture, quella del carnevalesco e quella dell’infanzia, è rappresentato dal linguaggio: entrambe, secondo Bachtin, violano le norme assolute e inviolabili della letteratura ufficiale, creando mezzi di comunicazione alternativi oppure, specie nel caso dei bambini, utilizzando un linguaggio volgare che non viene accettato dal mondo degli adulti.
Molte altre sono le caratteristiche comuni a queste due culture: il gusto per il grottesco, la derisione di tutto ciò che fa paura, i giochi, il cibo ecc. Ancor più importante del loro confronto, tuttavia, è capire il significato ultimo di tale confronto: è il valore aggiunto di una diversa visione delle cose o, nel nostro caso, della letteratura per l’infanzia, che assume così nuovi e più profondi significati. Si scoprirà così che anche questo genere basso e non ufficiale può avere molto da insegnare a noi adulti, sconfiggendo quell’inesauribile desiderio di autorità che a volte ci rende ciechi.
La cultura dell’infanzia può considerarsi, dunque, una forma di carnevalesco: il traduttore di libri per bambini si ritrova nel loro carnevale, imparando da loro e dialogando con loro, senza alcuna pretesa di distinzione o superiorità (Oittinen 2000: 54-8).
Prendendo in analisi la traduzione di Der Struwwelpeter di Gaetano Negri, si farà riferimento a bambini in età pre-scolastica, anche se molte delle osservazioni su questo tipo di traduzione si possono estendere anche a bambini più grandi.
Lo Struwwelpeter (1845) di H. Hoffman, è uno dei primi esempi di “picture book” (in italiano: libro illustrato), con le sue colorate e numerose illustrazioni e i suoi testi così brevi e semplici da comprendere. Generalmente, i libri illustrati presentano una struttura relativamente fissa,
con il testo scritto sulla pagina di sinistra e le illustrazioni nella pagina di destra. La pagina centrale, inoltre, costituisce il vero climax della storia ed è spesso accompagnata da una grande illustrazione a tutta pagina (Sezzi 2010: 83-108). Il linguaggio iconico costituisce dunque un elemento fondamentale dei libri illustrati: come afferma Kiefer, "In the best picture books, the illustrations are as much a part of the experience with the book as the written text.” (Kiefer 2010: 156). Nonostante la lunga tradizione di cui gode questo genere testuale e il crescente interesse che sembra suscitare tra molti studiosi, spesso lo si considera troppo banale e più facile da tradurre rispetto ai normali libri per adulti; in realtà “si tratta di libri la cui apparente semplicità […] nasconde una forma poetica complessa” (Sezzi 2010: 83-108), ponendo di fatto il traduttore davanti a ostacoli quasi insormontabili.
Una caratteristica distintiva di questa tipologia testuale è dunque la presenza di due diversi codici semiotici: quello verbale, costituito dal testo scritto, e quello visivo, costituito invece dalle illustrazioni (ibid). Queste, come le parole, contribuiscono a evocare nel lettore una precisa immagine della storia e dei suoi personaggi, influenzando così la sua interpretazione del testo scritto. Tuttavia, è bene notare che nel rapporto immagine-parole entrambe s’influenzano a vicenda: non solo le immagini, dunque, influenzano le parole, ma anche queste ultime possono a loro volta offrire una diversa chiave di lettura delle illustrazioni (Oittinen 2000: 109). Attraverso la lingua, infatti, una stessa immagine può essere descritta, arricchita o persino contraddetta. Il ruolo centrale delle illustrazioni per quanto concerne la traduzione di libri illustrati è evidente e il traduttore dovrà pertanto saper ´leggere´ le immagini con la stessa abilità con la quale legge e traduce le parole, prestando attenzione anche ai più piccoli dettagli (ad esempio la forma e la grandezza delle lettere o il layout dell’intero libro) e tenendo sempre in considerazione l’interpretazione che l’illustratore, prima di lui, ha dato alla storia (ivi: 101-2).
Qualsiasi testo non è mai definitivo ed è sempre aperto a infinite interpretazioni: anche gli illustratori, dunque, trarranno da una stessa storia impressioni diverse che influenzeranno la loro traduzione in immagini. In un
modo o nell’altro, infatti, l’illustratore apporta sempre un valore aggiunto al testo originale, scegliendo, ad esempio, di privilegiare determinate scene o di accentuare certe caratteristiche dei personaggi descritti dall’autore . In 78
questo senso l’illustratore svolge lo stesso lavoro del traduttore, traducendo le proprie impressioni non più in parole, bensì in immagini. ‘Tradurre’ e ‘illustrare’ possono dunque considerarsi come diverse forme d’interpretazione, entrambe fondamentali per una buona traduzione di un qualsiasi picture book.
Nel caso specifico dello Struwwelpeter, il codice verbale e quello visivo costituiscono insieme la morale di ciascuna storiella. Il lettore dovrà pertanto sempre leggere le storie guardando i disegni, eseguiti a penna e colorati ad acquerello dallo stesso Hoffman. Proprio nella semplicità dei disegni va ricercato uno dei principali motivi del successo di questo libro per bambini tanto amato quanto odiato e criticato da molti pedagogisti. Nonostante il titolo reciti Lustige Geschichten und drollige Bilder, ossia storie divertenti e immagini buffe, nel libro, in effetti, c’è ben poco di divertente e allegro. Inoltre, è evidente che i nuovi metodi educativi sono totalmente diversi da quelli del passato, preferendo il dialogo al metodo sanzionatorio e alla punizione severa.
Nonostante tutto, il libricino costituisce un vero patrimonio della cultura tedesca, tanto caro a chi da bambino lo ha ascoltato e ora, da adulto, ancora lo legge ai propri figli. Il mio incontro con lo Struwwelpeter è stato piuttosto tardivo, ma da subito mi è stato chiaro il suo prezioso valore, incontrando gli occhi lucidi e colmi di emozione di chi per primo me ne ha parlato. Un’emozione che forse provò anche Gaetano Negri nel leggerlo e che lo spinse poi ad avventurarsi nella sua traduzione.
Ibid: p.103, p.106.
6. Gaetano Negri: cenni di una biografia intellettuale
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Dopo aver indugiato nel primo capitolo sul ‘padre’ di Struwwelpeter, passiamo ora a delineare la biografia del ‘padre’ della versione italiana di Pierino Porcospino, il letterato e politico Gaetano Negri.
La maggior parte delle informazioni su Negri e le sue opere sono raccolte nell’ampia monografia di Augusta Del Vecchio Veneziani (1934). A questo testo in particolare faranno riferimento le note di biografia intellettuale di questo capitolo. L’opera è dedicata ai figli del Negri, per aver fornito preziosi documenti per la sua realizzazione, e al senatore Michele Scherillo, per averne incoraggiato la realizzazione. Purtroppo, a ottant’anni dalla pubblicazione della monografia, di quei preziosi documenti sembra essere rimasto ben poco, perlopiù libri e fotografie di famiglia e qualche lettera. Ciò di più prezioso e indelebile è tuttavia il ricordo dei suoi cari , 79
che amano rivivere la sua figura di uomo colto, dedito al lavoro e soprattutto alla sua famiglia. Lo rivivono scambiandosi qualche aneddoto di famiglia, rivedendo i suoi ritratti alla Cassinetta e assaporando il profumo dei libri con cui è cresciuto e di cui si è sempre circondato; dopo averne scoperta l’esistenza solo qualche mese fa, oggi possono ripercorrerne i ricordi anche sfogliando l’ampia monografia della Del Vecchio . Nata a Bologna, si laurea 80
presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo bolognese ricevendo il prestigioso premio Vittorio Emanuele II per la sua tesi sul filosofo idealista Camillo de Meis. Costretta poi a trasferirsi a Roma, rimane sempre legata alla sua città natale e in particolare alla sua Università, alla cui Biblioteca dona una preziosa raccolta di lettere e documenti (al piccolo fondo è stato dato il titolo Lettere concernenti il volume “La vita e l’opera di A. C. De Meis”
fanciullezza e l’adolescenza). La stessa Università ha poi istituito un premio a
Si fa qui riferimento ai due pronipoti del Negri, Mariella e Antonio Negri, che gentilmente
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mi hanno fornito quei preziosi documenti rimasti e mi hanno aperto le porte della casa di famiglia di Cassinetta di Lugagnano (Milano).
Per tutte le informazioni sull’autrice e i suoi scritti si veda il sito della Biblioteca
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Universitaria di Bologna: http://www.bub.unibo.it/it-IT/BubLife/Maggio-2007/Accade-in-Biblioteca/Si-arricchisce-il-catalogo-dei-manoscritti-della-BUB.aspx?LN=it-IT&idC=61718.