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1.2.4 | Il flicker nell'audiovisivo espanso

La traccia del flicker ci conduce, come ultima tappa del percorso storico, a quel frastagliato intreccio di pratiche che chiameremo audiovisivo espanso contemporaneo. Si è questa espressione di aggregare e dare nome ad alcune espressioni della media art contemporanea e insieme ad altre esperienze del passato, presentare le une e le altre in una visione complessiva. Tale continuità, ci permette di concentrarci su alcuni aspetti costanti come pure sulle evoluzioni e i cambiamenti, in continuum dagli anni Sessanta ad oggi. La definizione scelta a tracciare questa continuità rappresenta al tempo stesso una variazione del nome originariamente dato alle pratiche audiovisive che, in vario modo hanno coinvolto la dimensione ambientale determinata dall’opera audiovisiva, come vedremo, con livelli di senso differenti. Per chiarire le ragioni di questa scelta terminologica è

                                                                                                               

94 Bonaiuto P., L. Vinca Masini, 1966.

95 Spazio espositivo progettato da Giò Ponti ed utilizzato per eventi culturali organizzati da Ideal Standard.

96 Fondatore dello Studio di Fonologia Musicale di Firenze (S2FM), nel 1965 titolare della prima cattedra di musica elettronica in Italia presso il conservatorio di Firenze. Grazie alla collaborazione con IBM e Olivetti, è stato il primo a comporre musica con calcolatori digitali.

utile risalire alle radici di tali forme espanse.

In uno dei saggi contenuti in Expanded Cinema: Art, Performance and Film, recente pubblicazione della Tate Publishing, tra i più autorevoli contributi apparsi negli ultimi anni rispetto alla questione delle pratiche di Expanded Cinema e alla sua declinazione nel contemporaneo, A. L. Rees sottolinea come, fin dalle sue prime apparizioni, tale espressione rappresenti fin da principio una definizione ‘elastica', in grado di includere una molteplicità di forme - proiezioni disseminate in dome o padiglioni, happening, mixed-media events, performance intermediali, spettacoli di live cinema e molti altri – che sfuggono a qualsiasi intento tassonomico.97 Molte delle esperienze emerse ampliano talmente il campo dell’audiovisivo da dissolvere la solidità del cinema in un amalgama di linguaggi e da distaccare l’assimilazione del ‘cinematografico’ dalla sua radice mediale. Tra gli esempi di contaminazione linguistica troviamo i padiglioni di Stan VanDerBeek o le sue collaborazioni con Merce Cunningham e John Cage, le azioni Fluxus o gli eventi del collettivo USCO. Altre, come le performance Nervous System di Ken Jacobs o gli spettacoli di luci del The Joshua Light Show, recuperano tecniche e apparecchi pre-cinematografici o inventano dispositivi ottici e meccanici originali, mettendo in scena spettacoli 'paracinematografici.'

All’eterogeneità di manifestazioni del fenomeno corrispondono molteplicità di punti di vista sull’accezione data a tale definizione, che appare per la prima volta nel 1965, all'interno di Culture Intercome and Expanded Cinema: A Proposal and Manifesto, di VanDerBeek, nel quale l'artista, tra i pionieri della multimedialità, preconizza l'affermarsi di nuove pratiche audiovisive, influenzate da Fluxus e dal cinema d'avanguardia, come pure dalle idee in circolo nel neonato ambito delle ICT (Information and Computing Technologies).

Un secondo riferimento è Expanded Cinema: Free Form of Recollections of New York, di Carolee Scheeman,98 nel quale l'artista fissa alcuni momenti essenziali nella scena della performance e dell'happening newyorkese.

                                                                                                               

97 Rees A.L., Expanded Cinema and Narrative: A Troubled History, in Rees A.L., White D., Ball S., Curtis I., (a cura di), 2011, p. 12.

98 Schneemann C., "Expanded Cinema - Free Form recollections of New York", International Underground Film festival, catalogo, Arts Laborarory/ NFT, London, 1970. Cfr. Rees A.L., White D., Ball S., Curtis I., (a cura di), 2011, pp 91-97.

Il saggio di Gene Youngblood Expanded Cinema,99 del 1970, è senza dubbio il contributo più noto sul fenomeno e quello più citato come precursore nella definizione delle pratiche 'tecnologizzate' contemporanee. In una rilettura critica, Sandra Lischi sottolinea come le tracce dell’Expanded Cinema vengano generalmente individuate a partire dalla componente multimediale dell’opera e quindi assimilate con l’intermedialità, affermatasi a partire dai media elettronici. Pur riconoscendo che il dato mediale rappresenti un aspetto determinante in questa varietà di espressioni audiovisive già marcato da Youngblood e contemporanei, Lischi evidenzia come esso sia in realtà per l’autore solo la punta dell’iceberg di una concetto di intermediale molto più complesso, corrispondente più ad un’ibridazione di linguaggi che all’interazione tra differenti forme mediali, una fusione linguistica che è anche mescolanza di modalità estetiche, operatività non solo interne all’opera ma anche e soprattutto ai modi di coinvolgimento dello spettatore, che vengono riformulati a partire da tale eterogeneità.100 Anche per quanto riguarda il processo di espansione nello spazio la studiosa individua due possibili livelli della visione di Youngblood su questo aspetto. L’attenzione alle modalità di espansione dell’immagine nello spazio si identifica, infatti, ad un livello più superficiale, con la moltiplicazione e disseminazione della superficie nello spazio, con un’elaborazione architettonica dell’immagine in senso tridimensionale, quasi un proseguo del mito cinematografico della polivisione.101 Allo stesso tempo, la condizione dello spazio audiovisivo, non riguarda unicamente la qualità e quantità delle superfici di proiezione quanto soprattutto la tensione al superamento del visivo subordinato allo schermo, alla piattezza della superficie, l’istituizione di modi della visione trasparenti, immateriali. Quella preconizzata da Youngblood non è una multivisione ma una mega-visione, una forma di relazione tra lo spettatore, il suo corpo e il dato audiovisivo nello spazio resa sistema organico, concepita come flusso di energia in continuo scambio tra soggetto e ambiente audiovisivo.102 Un’idea di espansione che si realizza sì attraverso diverse forme di allestimento dell’immagine avvolgenti e scenografiche, ma il cui senso va

                                                                                                               

99 Youngblood G., 1970.

100 Lischi S., 2003, p. 83. 101 Cfr. Kaplan N.,1955. 102 Lischi S., 2003, p. 83.

cercato in una particolare condizione del soggetto esperiente che anticipa, come vedremo nel corso della ricerca, i modi dell’immersivo. Quindi, la radice profonda della definizione data negli anni Sessanta, ridefinisce la questione ambientale dal dispositivo spazializzato, come insieme dei sistemi e apparati attraverso i quali amplificare l’immagine nello spazio, a dispositivo spazializzante, insieme di funzioni operanti sullo spettatore e sulle sue condizioni di percezione ed esperienza dello spazio.103

L’eredità più profonda dell’Expanded Cinema, va quindi cercata in un’attitudine alla formulazione dell’esperienza audiovisiva che decostruisce le codifiche del consumo del cinema da sala e che negli anni ha costituito la matrice di esperienze translinguistiche, indipendentemente dalle differenze di linguaggi, supporti o media impiegati dagli autori. Eterogeneità di approcci che, è necessario sottolineare, hanno contribuito senza dubbio con le proprie specificità a determinare una declinazione di modi e metodi attraverso i quali questa comune matrice ha assunto forme differenti, senza al tempo stesso minarle il carattere archetipico.

Ciononostante, riconnettendoci alla questione terminologica posta all’inizio di questo excursus, si è preferito nella definizione assunta sostituire il termine ‘cinema’ con quello di audiovisivo. Questa scelta vuole essere tutt’altro che una negazione della discendenza diretta del meticciato delle pratiche contemporanee a carattere ambientale dalle esperienze degli anni Sessanta, legame che anzi questo breve discorso sui tratti distintivi intende ancora una volta confermare. La variazione proposta parte piuttosto dalla costatazione di una consuetudine d’uso, sia tra molti degli autori considerati, i quali quasi mai fanno riferimento alle proprie opere come Expanded Cinema, sia più in generale nel panorama della media art audiovisiva.

Una prima ragione del mancato riferimento potrebbe essere legata alla tipologia dei contesti di diffusione delle pratiche espanse rispetto al cinema di sala,

individuato da Sandra Lischi: nei decenni successivi alla definizione del fenomeno, la molteplicità di modi linguistici ma anche delle condizioni di fruizione

                                                                                                               

103 Duguet A.M., Dispositifs, “Communications,” n. 48, 1988, pp. 221-242, cfr. anche Dispositivi, in Valentini V., 2003, pp. 259-283.

diversifica tipica dell’Expanded Cinema sembra fuoriuscire dai domini di ciò che viene definito cinematografico. Se da una parte, quindi, la sperimentazione degli anni Sessanta è proseguita in altre forme di sperimentazione (video arte, net art, opere telematiche, performance e installazioni), nel cinema comunemente riconosciuto come tale le istanze di espansione del visivo riemergono come forme di spettacolarizzazione e mimetismo sempre più spiccato, soggetto a trend di mercato e di consumo.104 Nell’ampio limbo tra questi due poli si collocano le modalità proprie del cinema di sala che non cede alla sensazionalismo dello spettacolo ma allo stesso tempo è cristallizzato nella fissità del corpo e la frontalità di visione, lasciando poco o alcuno spazio alla sperimentazione di nuove condizioni di esperienza.105 L’analisi di Lischi è significativa perché rileva la centralità della dimensione del fruitore come determinante nel seguire le influenze dell’Expanded Cinema nelle diverse conformazioni successive dell’audiovisivo.

Le consuetudini di ‘consumo’ e le differenze di fruizione dell’audiovisivo, aspetti di carattere non solo artistico ma anche economico e sociale, potrebbero costituire ragioni valide dello scollamento nel contemporaneo tra la definizione di Expanded Cinema e la produzione contemporanea di audiovisivo ambientale: sebbene la definizione ‘storica’ sia più che coerente con tali pratiche, l’assimilazione del cinematografico alla standardizzazione dei modi dell’esperienza audiovisiva potrebbe aver creato un distanziamento terminologico dal meme originario di tali tendenze.

Passiamo quindi ad ipotizzare una seconda ragione possibile della scarsa ricorrenza d’uso della nozione di cinematografico all’interno delle sperimentazioni elettroniche, che emerge osservando alcune consuetudini nell’analisi del fenomeno - in particolare rispetto al confronto tra la dimensione storica e quella contemporanea - all’interno dei film studies. Prendendo ad esempio la già citata pubblicazione di Tate Publishing del 2011, si può notare un evidente disequilibrio tra il rilievo dato alle esperienze storiche e l’analisi degli sviluppi contemporanei.

                                                                                                               

104 In particolare i sistemi spazializzazione o proiezione del cinema tridimensionale. Vedremo nel prossimo capitolo come questa serie di esperienze immersive trovano coincidenza anche in molte tappe rilevanti della storia delle modalità immersive a partire dalla realtà virtuale. Cf. J. Shaw, A. M. Duguet, H. Klotz, P. Weibel, 1997.

Se da un lato, infatti, in modo del tutto pertinente, gli autori si prefiggono di individuare le radici storiche e complesse del fenomeno, a partire dagli anni Sessanta e nel decennio immediatamente successivo, sviscerate e analizzate ampiamente e con il supporto di un’esaustiva rassegna di documenti spesso inediti o di difficile reperimento, si riscontra d’altro canto una profonda lacuna nella verifica effettiva delle forme e le modalità attraverso le quali l’eredità degli anni Sessanta ha in effetti attecchito all’interno delle pratiche contemporanee.106

Inoltre, restano quasi totalmente escluse dall’analisi influenze esterne ai codici linguistici audiovisivi, sia filmico che elettronico, che pure hanno contribuito alla costituzione della scena attuale. Al contrario, studi recenti nel campo della media art, stanno contribuendo a ricostruire le relazioni che intercorrono tra queste pratiche e altri momenti della storia delle arti: primo fra tutti il movimento della Musica Visiva e altre esperienze di matrice wagneriana, nate in seno alle avanguardie, specialmente futuriste, infine le pratiche di light art che, sempre a partire dalle avanguardie, passando per le esperienze dell’Arte Cinetica e Programmata della seconda metà degli anni Cinquanta, hanno gettato i semi di una poetica dello spazio espanso e della smaterializzazione del dato visivo che è possibile rintracciare in molta produzione contemporanea.107

Se quelle appena citate rappresentano le origini culturalmente 'alte' del fenomeno, non vanno escluse influenze derivate negli ultimi anni dalla cultura di massa, in particolare dai contesti del clubbing e della musica elettronica.

                                                                                                               

106 Nell’ultima sezione, per altro esigua come mole, dedicata al contemporaneo, gli autori e le esperienze considerate riguardano nuove versioni delle opere degli anni Sessanta e Settanta, insieme ad autori contemporanei selezionati quasi esclusivamente tra coloro che praticano forme di re-invenzione dei dispositivi del cinema ottico.

107 Tra queste due raccolte dal titolo See This Sound Audiovisuology e Audiovisuology 2, legati alla mostra See This Sound, che, incentrata sulle relazioni tra immagine in movimento e musica, offre una serie di contributi importanti anche in relazione alle origini e alle evoluzioni delle pratiche audiovisive espanse. Infine di estremo interesse il lavoro portato avanti nelle ultime edizioni del festival olandese Sonic Acts: nato come festival di media art e musica elettronica, si è offerto negli anni non solo come momento di presentazione di autori e lavori recenti ma, anche grazie ad un programma ricco di seminari e screenings, ha portato avanti una ricerca in senso storico, accostando proposte provenienti dalla storia della musica, delle arti visive, del design e del cinema sperimentale. Se ciascuna edizione del festival biennale e relativo catalogo, offrono un excursus cronologicamente trasversale di estremo interesse, l'edizione 2008, dal titolo The Cinematic Experience ha offerto una carrellata più pertinente rispetto al nostro discorso sul flicker. Cfr: Daniel D., Naumann S., (a cura di), 2011; Daniel D., Naumann S., (a cura di), 2010; Debackere B., Altena A., 2008.

Sintomatica di queste radici è la provenienza di molti autori, più vicini ai mondi dalla IDM (Intelligent Dance Music), della musica techno o industrial di fine anni Novanta che a quelli del cinema sperimentale o, ancor meno, ai circuiti dell'arte contemporanea.108 Lo studio di un fenomeno così complesso, diversificato ed esteso, necessita di un costante confronto tra gli ambiti della storia culturale 'ufficiale' e le storie minori, come quella della musica elettronica indipendente e delle controculture. É indispensabile, inoltre, una lettura che parta dalle pratiche e da loro assorba la propensione allo sconfinamento disciplinare.

Se da una parte il progetto editoriale Expanded Cinema: Art, Performance and Film che, si sottolinea ancora, può essere assunto come esemplificativo di una tendenza diffusa, propone la necessità di una riesamina delle esperienze storiche per la comprensione del contemporaneo, allo stesso tempo si sottrae di fatto dal considerarlo nel suo complesso. Inoltre, mentre altrettanto dichiaratamente, sottolinea il legame con altre pratiche espressive e linguistiche risulta rinunciataria, anche in questo caso, di un’effettiva esplorazione di focolai sia storici che contemporanei della relazione tra evento audiovisivo e spazio, al di fuori di traiettorie già storicamente consolidate nell’ambito del cinema di ricerca. La resistenza a spostare lo sguardo dell’analisi fuori dai confini disciplinari del cinematografico, confini che proprio il movimento dell’Expanded Cinema degli anni Sessanta si prefiggevano di oltrepassare, potrebbe costituire un’ulteriore e significativa ragione dell’obsolescenza di questa espressione nei contesti dell’audiovisivo elettronico contemporaneo. Una perdita di attualità della definizione Expanded Cinema determinata non soltanto dalla fissità delle forme codificate del cinema di sala ma anche a partire dal punto di vista di quei contributi che paradossalmente si prefiggono di confermarne la longevità nel presente. Resta difficile stabilire una continuità tra la storia e il contemporaneo se lo sguardo resta rivolto al passato: per cercare il riflesso attuale del Cinema Espanso è necessario rivolgersi alle forme che questa attitudine ha assunto nelle esperienze recentissime della media art o delle forme contaminate interne ai mondi della musica elettronica o al panorama polimorfo delle arti visive, abbandonando la tentazione di fissare le espressioni liminali e instabili all’interno di tassonomie e classificazioni. In questo

                                                                                                               

108 Dekker A., 2003.

scenario, complesso e molto lontano dal dipanarsi, con l’intento di instaurare una continuità non tanto terminologica ma coerente con l’eterogeneità delle pratiche e tentando di non forzare alcuna di queste all’interno di griglie disciplinari pregresse, si è scelto di invertire il punto di vista, osservare il fenomeno a partire dai modi di fruizione che ha determinato. Con audiovisivo, prendendo spunto dalle traiettorie tracciate da Michael Chion,109 s’intende, infatti, richiamare sia la dimensione fenomenologica della fruizione che la contaminazione tra linguaggi del sonoro e del visivo, riassumere ad un tempo i modi della produzione della forma audiovisiva che della sua fruizione, la transitorietà del momento dell’opera e di quello che, nel paragrafo precedente, è stato definito tempo relativistico dello spettatore.

Dopo questa digressione sul rapporto tra origini e sviluppi del fenomeno, utile a chiarire le regioni della definizione utilizzata, procederemo ripercorrendo la storia dell’audiovisivo espanso dall’Expanded Cinema degli anni Sessanta al contemporaneo, individuando esempi significativi in base alla presenza, all’interno delle opere, del trattamento stroboscopico del segnale visivo.

Una voce autorevole nel corso degli anni Sessanta che molto ha contribuito al nascente panorama dell'Expanded Cinema è Jonas Mekas, che dalle pagine del 'Village Voice', segue i primi esperimenti della scena newyorkese a lui contemporanea, concentrandosi anche su lavori nei quali il flicker o l'uso di luci stroboscopiche è distintivo nella progettazione dell'ambiente e del coinvolgimento del pubblico.

Tra queste, il celebre E. P. I. - Exploding Plastic Inevitable, spettacolo progettato da Andy Warhol, in collaborazione con i Velvet Underground, e presentato in diverse città degli Stati Uniti tra il 1966-1967. In E. P. I. l'uso di tre fonti di luce stroboscopica a velocità variabile sono utilizzate come elemento di aggregazione, insieme alla controparte sonora della musica dal vivo, di un meccanismo intermediale talmente complesso e stratificato da essere definita in una recensione del 1966, Fun Machine: una macchina audiovisiva che assorbe e fagocita il pubblico in una frammentazione di elementi sconnessi tale da generare

                                                                                                               

109 Cfr. Chion M., 1994.

un effetto partecipativo inverso, rendendo lo spettatore puro osservatore di un meccanismo percettivo ipertrofico e autoreferenziale.110

L'utilizzo massivo di luci stroboscopiche, insieme a registrazioni sonore su nastro e proiezioni, è caratterizzante nelle opere del collettivo newyorkese USCO - The Company of US, attivo nella seconda metà degli anno Sessanta a New York e formato da artisti, ingegneri e musicisti, tra i quali, Gerd Sten, Stan VanDerbeek, Jud Yalkut, Steve Durkee e Michael Callahn. Nei loro allestimenti la luce stroboscopica è ottenuta attraverso lampade autocostruite dal collettivo o realizzate per loro da Harold Edgerton, docente presso i lavoratori del MIT (Massachusetts Institute of Technology). La stroboscopia è utilizzata per favorire, talvolta in modo traumatico, l'immersione dei partecipanti in un unico organismo pulsante, esperienza meditativa e mistica, influenzata dalle filosofie orientali e dalla psichedelia.111 Per il collettivo la stroboscopia racchiude inoltre un valore simbolico, quasi magico, in quanto, la costante oscillazione tra accensione e spegnimento, buio e luce, corrisponde ad un dominio liminale tra energia e non energia, equilibrio nella sequenza ritmica tra positivo e negativo, una canalizzazione in forma temporale dell’energia che circonda il soggetto.112

La psichedelia delle loro performance, oltre alla vicinanza con il cinema meditativo di Paul Sharits, segna un legame anche con la serie di Vortex Concerts di Jordan Belson: un ciclo di 62 spettacoli a metà tra Cinema Astratto e Musica Cromatica, realizzati tra il 1957 e il 1959 nel Morrison Planetarium della California Academy of Sciences di San Francisco, in collaborazione con il musicista Henry Jacobs.113 Nel corso di questi live events, considerate tra le tappe pioneristiche del Cinema Espanso e definiti da Youngblood come 'cosmic cinema,'114 Belson mescola la proiezione di suoi film - Flight (1958),115 Raga (1959),116 Seance (1959)117 - con il ritmo di luci stroboscopiche disposte nel planetario a circondare il

                                                                                                               

110 Williams M., 1966, p. 62.

111 Stern G., 2001.

112 Mekas J., 1972, p. 244-247.

113Keefe C., Jordan Belson and The Vortex Concerts: Cosmic Illusions, in Altena A., (a cura di), 2010.

114 Youngblood G., 1970, pp. 135-177. 115 Belson J., Flight, 1958, 16 mm, col., 6’. 116 Belson J., Raga, 1959, 16 mm, col., 7’. 117 Belson J., Raga, 1959, 16 mm, col., 4’.

pubblico. La frequenza delle 'strobo', la progressione di forme e dei colori dei film e il suono elettronico composto dall’autore avvolgono il pubblico in una dimensione percettiva e mentale prossima a quelli sperimentati nei diversi stati meditativi.

Tali lavori citati sono caratteristici di quella che A. L. Rees definisce tendenza utopica e spirituale,' legata all'influenza psichedelica che serpeggia in molta arte e cinema d'avanguardia statunitense degli anni Sessanta e Settanta; affiancata da una seconda, vicina alla corrente strutturalista, focalizzata invece sullo studio analitico dei differenti linguaggi. In questo filone si rintracciano esempi di ricerca sul flicker tra i più interessanti.

Il lavoro di Paul Sharits rientra in questa classificazione come pure molti esperimenti di Steina e Woody Vasulka, come ad esempio Noisefields, lavoro in video del 1974, riproposto in tempi recenti in forma di installazione multischermo.118 In Noisefields, realizzato grazie all'uso di uno strumento originale, il Field Flip/Flop Switcher, il flicker è elemento metrico attraverso il quale analizzare le relazioni tra la dimensione temporale del flusso video analogico (ritmo di scansione) e la superficie visiva dello schermo. In precedenza, sul finire degli anni Sessanta, poco prima dell’inizio della sperimentazione sul video, Woody Vasulka aveva condotto una serie di esperimenti stroboscopici modificando una camera e un proiettore 16 mm, con i quali realizza 360 degree camera/scanner