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2.1.1 | La visione oltre l’occhio e la percezione incarnata

In un’intervista con Jonas Mekas del 1966, Tony Conrad racconta di aver sperimentato, conducendo ricerche sulla stroboscopia per la preparazione di The Flicker, un’ampia gamma di effetti legati alla visione ad occhi chiusi che delineano, secondo l’autore, un nuovo modo di visione, che permette di agire su una dimensione percettiva diretta e radicale ed eludere le modalità consolidate della visione cinematografica.2 Come nel caso di Brion Gysin, anche per Conrad il flicker è un metodo per instaurare nell’evento dell’opera una nuova forma di esperienza percettiva, uno statuto del visibile e dell’oggetto artistico generalmente attribuito ad un reame percettivo altro da quello determinato dalla centralità dell’occhio che ha condizionato l’estetica e le teorie dell’arte fin dalla loro nascita in età moderna.3 Questo aspetto è tratto comune a gran parte dei lavori basati sulla stroboscopia, si tratta di una tensione alla riformulazione del sensibile nell’esperienza estetica rintracciabile trasversalmente sia in senso cronologico, che rispetto alla tipologia di opere e forme mediali implicate.

Elemento ricorrente, quindi caratteristico, del campo percettivo creato nelle opere di flicker è la riduzione del dato audiovisivo a sola luce e metrica temporale. Altra specificità è la visione ad occhi chiusi o una modalità sensoriale simile al visivo ma che prescinde dall’occhio e anche dall’ottica, intesa in quanto dispositivo tecnico, e da qualsiasi forma di supporto interposto tra la sorgente della visione e l’occhio stesso per materializzare la forma visibile. Viene a rompersi nel processo percettivo determinato dal flicker l’assimilazione tra percezione visiva e occhio, che perde il suo primato di canale sensoriale eletto a captare dal reale specifici dati, in questo caso la luce. Viene messo in discussione quindi l’assunto che l'occhio sia l'organo della visione, una ‘verità’ percettiva che ha radici storiche molto profonde nella cultura occidentale, sia in ambito scientifico che nelle teorie dell’arte, con varianti spesso ardite e suggestive a seconda del periodo storico.4

                                                                                                               

2 Mekas J., An Interview with Tony Conrad, 24 marzo 1966, in Mekas J.,1972, pp. 228-232. 3 Cfr. Howes D., 2006.

Da questo primo punto, messo in crisi dalla condizione percettiva del flicker, è possibile fissare una prima convergenza tra arte e scienza, in particolare rispetto all’ambito delle neuroscienze. Le opere di flicker rendono, infatti, prassi sensibile una serie di conoscenze legate al funzionamento della visione alle quali la scienza è giunta solo da qualche decennio e cioè che la percezione di una forma visiva – o di quel sistema di segnali che comunemente viene definito visione - non sia riducibile ad una trasmissione passiva dello stimolo esterno all'occhio, dall'occhio al nervo ottico e quindi alle parti ritenute sede dell'attività cognitiva del cervello, per essere elaborata come percezione cosciente.5

Negli ultimi anni una disciplina chiamata neuroestetica si sta occupando di indagare e tentare di spiegare, con le leggi della fisiologia del cervello ciò che accade nel soggetto/friutore nel momento specifico della fruizione artistica. Questo dibattito sulle possibili sinergie tra arte e neuroscienze è per buona parte dedicato alla ridefinizione dei meccanismi visivi, in particolare nel caso di oggetti artistici basati su caratteristiche quali immaterialità e astrazione.

Tra le voci più autorevoli in tal senso, il neurobiologo Semir Zeki, considerato da molti il fondatore di questa disciplina ibrida, spesso problematica e

                                                                                                               

5 “L'errore più comune è pensare che l'immagine ottica all'interno del bulbo oculare ecciti i fotorecettori retinici per poi essere trasmessa fedelmente lungo un cavo chiamato nervo ottico e mostrata su uno schermo chiamato corteccia visiva. È un evidente errore logico, perché se un'immagine viene proiettata su uno schermo interno, nel cervello ci dev'essere qualcuno che la guarda e, perché ci sia questo qualcuno, dovrà esserci qualcun altro all’interno del suo cervello; e così ad infinitum. Il primo passo per comprendere la percezione è abbandonare l'idea delle immagini nel cervello e pensare invece in termini di 'trasformati', o rappresentazioni simboliche di oggetti ed eventi del mondo esterno. Come i caratteri a inchiostro chiamati scrittura simboleggiano o rappresentano un oggetto a cui non somigliano, così l'attività dei neuroni cerebrali, i moduli di attività neurale, rappresenta oggetti ed eventi della realtà intorno a noi. Come i crittografi cercano di decifrare un codice ignoto, così i neuroscienziati si sforzano di penetrare il codice usato dal sistema nervoso per rappresentare il mondo esterno. […] Non possediamo solo una, bensì trenta aree visive nella corteccia della parte posteriore del cervello, e sono quelle a farci vedere il mondo. Non è chiaro perché ce ne occorrano trenta anziché una: forse ciascuna presiede un distinto aspetto della visione. All'inizio si potrà rimanere disorientati davanti all'anatomia delle trenta aree visive cerebrali, ma esiste un piano organizzativo generale. Il messaggio ottico proveniente dalla retina raggiunge il cervello e si biforca in due vie, i due principali sistemi visivi del cervello. La prima via, filogeneticamente più arcaica, attraversa il collicolo superiore (una struttura del tronco cerebrale); la seconda, filogeneticamente più recente e più evoluta, va alla corteccia visiva, nella parte posteriore del cervello. La via recente della corteccia presiede alla maggior parte di quella che di solito definiamo visione, come riconoscere gli oggetti. La via arcaica, invece, ci consente di localizzare gli oggetti spazialmente nel campo visivo e di allungare la mano per prenderli o girare i bulbi oculari per guardarli.” Ramachandran S. V., 2006, pp. 29-31.

ancora in fase di definizione. I suoi studi si concentrano sulla decostruzione di presunte conoscenze diffuse in ambito scienticio, fin in tempi recenti, che interpretano la visione come processo prettamente oculare. A questa Zeki contrappone ciò che lui ha definito visione interna (inner vision) nome scelto per riassumere e divulgare le conoscente raggiunte negli ultimi decenni dalle scienze in merito, in particolare, al funzionamento e le caratteristiche prioritarie della percezione visiva.6

Fino a pochi decenni fa, si riteneva che l’occhio registrasse un’immagine del mondo trasmessa alla corteccia visiva attraverso la retina e che l’immagine captata fosse compresa da un ‘centro di elaborazione,’ per lungo tempo identificato con la corteccia associativa.7 Questa suddivisione tra aree e tempi della visione ha fatto sì che la corteccia associativa fosse concepita come sede di facoltà superiori legate alla comprensione dello stimolo, determinando così una struttura gerarchia tra esperienza sensibile e pensiero, basata sulla netta separazione tra percezione e processi cognitivi. In questo quadro, inoltre, la visione è concepita come processo passivo, seguito da un momento attivo, corrispondente all'interpretazione nell'area cognitiva.8

In realtà, scrive Zeki, si è scoperto, da qualche decina di anni, che esistono nel cervello differenti aree visive in sinergia tra loro, a formare quello che le neuroscienze attuali definiscono cervello visivo: ad ogni stimolo visivo, si attivano nel cervello una moltitudine di processi paralleli e simultanei che portano a ridefinire la visione come sinergia tra percezione e cognizione, tra sensibilità e

                                                                                                               

6 “Sono fatti decisivi che hanno condotto in modo inevitabile all'idea, del tutto erronea, che sulla retina venga 'impressa' un'immagine del mondo, la quale, una volta trasferita alla corteccia 'visiva', viene da questa 'ricevuta', decodificata e analizzata. Dopo di che, l'immagine sarebbe interpretata, così pensavano i neurologi, in un'altra parte del cervello, sulla base di impressioni presenti e passate. Si concepiva insomma la visione come un processo in larga misura passivo […] Solo in tempi relativamente recenti ci siamo resi conto che questa descrizione del processo della visione – un'immagine del mondo visivo 'impressa' sulla retina – è ben lontana dal render giustizia alla realtà delle cose: la funzione della retina costituisce uno stadio iniziale vitale di un elaboratissimo meccanismo che da essa si estende alle cosiddette aree superiori del cervello”, Zeki S., 2003, p. 29-31.

7 Zeki S., 2003, p. 31-34. Cfr. Henschen S. E.,1903, pp. 125-127; Henschen S. E., 1983, 170 180. 8 Tale teoria dell'organizzazione del cervello e della percezione è elaborata dallo psichiatra tedesco Paul Flechsig nel primo decennio del secolo scorso. Cfr. Fechsig P., Some Papers on the Cerebral Cortex (trad. G. von Bonin, a cura di), Thomas,1960, pp. 75-89, cit. in Zeki S., 2003, p. 36.

pensiero.9 Come sottolinea Zeki, infatti, la visione è un meccanismo estremamente complesso e basato su un rapporto tutt’altro che deterministico tra stimolo ed effetto percettivo, tanto che uno dei concetti di riferimento del suo discorso è quello di ambiguità: nel tentativo di costruire una conoscenza a partire dagli input provenienti dall'esterno, il cervello si trova spesso a fronteggiare circostanze sensoriali di non facile interpretazione, perché si confronta con una serie di possibili interpretazioni, tutte di uguale validità. Questo il caso, ad esempio, delle figure ambigue, nelle quali la risultante percettiva è tutt’altro che univoca e frutto di un processo costruttivo del singolo soggetto.10 Un altro è rappresentato dalle illusioni ottiche, eventi esperiti quotidianamente che amplificano la discrepanza tra ciò che crediamo di vedere e ciò che sappiamo della realtà come condizione ‘oggettiva’ e ‘misurabile,’ rendendo evidente come la percezione sia in gran parte una forma di interpretazione soggettiva dell’ambiente e non una sua riproduzione.11

Questo excursus nel campo delle neuroscienze e della neuroestetica fornisce strumenti utili a comprendere la radice di alcuni interrogativi posti dalle opere, rispetto alla relazione tra visibile e reale, aggiungere conoscenze sulla natura ambigua del processo visivo, intuita dagli artisti e rispetto alla quale lo sguardo delle hard sciences offrono la possibilità di ricollocare i fenomeni specifici del flicker, nel più ampio quadro di discussione sul potenziale rivelatorio dell’esperienza estetica rispetto a meccanismi profondi della relazione tra individuo e realtà, rappresentati dalla percezione. Sperimentare, infatti, in modo non mediato

                                                                                                               

9 In esso una parte è costituita dalla corteccia visiva (V1), che ha un compito di 'regia' e smista, in parallelo, lo stimolo ricevuto dalla retina ad una costellazione di altre aree che formano nel cervello “un sistema di elaborazione specializzato,” nel quale cioè ognuna si occupa sia di captare che interpretare, in modo iperselettivo, parti specifiche dello stimolo ricevuto, come un determinato colore, una forma o un movimento. Zeki S., 2003, p. 31.

10 Cfr. Maffei L., Fiorentini A., 2008, pp. 4-11.

11 Il biologo Jacques Ninio ha dedicato ampia parte del suo lavoro alla discrepanza tra sensi e realtà, resa una pratica esperibile nelle illusioni ottiche, tra le quali la più celebre è l’impressione che la terra sia piatta o la dimensione apparente delle forme, in base alla loro posizione in un campo spaziale dato. Ad esempio, se si osserva la luna nel cielo essa apparirà di dimensioni ridotte rispetto a quando viene osservata all’orizzonte, pur avendo coscienza del fatto che la sua reale dimensione resti invariata. Questi studi sono introdotti in La Science des Illusionis (1998) e ripresi nella prima parte di L’empreinte des senses (2011), ricostruendo, in questo secondo contributo, un excursus nella storia delle illusioni ottiche e rispetto ai principali autori che nei secoli hanno elaborato metodi empirici allo scopo di rivelarle rivelarle. Altro punto di interesse del saggio è l’aver proposto una ricostruzione dello sviluppo delle funzioni sensoriali e delle leggi che le regolano non solo nella storia della specie umana ma anche in quella del regno animale. Cfr. Ninio J., 1998; 2011.

da processi interpretativi alcune delle conoscenze raggiunte solo di recente dalle neuroscienze - che controvertono una concezione della percezione nata in seno alla scienza ma estesa all’ambito culturale e alle teorie dell’arte fin dalla nascita dell’estetica moderna – significa porre il singolo fruitore dell’opera nelle condizioni di ripensare la propria relazione con l’ambiente, il rapporto tra soggetto e realtà, rendendo l’esperienza estetica momento di conoscenza del sé. Ma è proprio rispetto a questo punto – nel passaggio cioè dai fondamenti fisiologici della percezione all’esperienza del singolo fruitore in cui l’operazione artistica si colloca, in cui si realizza il passaggio dall’oggettività della scienza alla soggettività della fruizione come specificità e dominio dell’estetica - che è bene inserire alcune osservazioni utili a comprendere le ragioni dei riferimenti alle neuroscienze e alla neuroestetica, presenti qui ed in altri passaggi della ricerca dedicati alla percezione. Si sottolinea, infatti, che ai fini del nostro discorso, i riferimenti a questo ambito disciplinare, ed in particolare ai lavori di Zeki, si intendono come apertura ad uno sguardo sulla dimensione percettiva che chiarisce alcuni meccanismi coinvolti nella prassi estetica, ma in alcun modo ne rappresentano un protocollo unico di analisi. Se, infatti, un contributo di rilievo di Zeki è l’aver riportato sul piano divulgativo una summa delle conoscenze sulla percezione sviluppate nel campo scientifico negli ultimi decenni, di averle rese strumenti approcciabili anche alle teorie dell’arte e di aver individuato i corrispettivi scientifici delle origini del predominio dell’occhio sulla complessità della percezione, allo stesso tempo le sue ricerche tradiscono una tendenza rischiosa, in quanto cadono spesso nella tentazione di non porsi in senso interlocutorio nei confronti delle teorie dell’arte ma di sostituirsi ad esse proponendo un modello riduzionista, che vede l’esperienza estetica fenomeno secondario dei processi fisiologici in atto nel cervello. Tale tendenza, più volte smentita dallo studioso ma leggibile in filigrana nel complesso del suo discorso, lascia emergere un neurocentrismo che rischia, laddove non criticizzato, di sostituire al predominio culturale dell’occhio quello del cervello, riconducendo ancora una volta la disomogeneità della percezione e dell’esperienza dell’opera d’arte. Al tempo stesso, si è scelto di non seguire lo scetticismo radicale che circonda la neuroestetica in ambito umanistico e in particolare in area italiana perché si ritiene che valga la pena riservare un interesse verso alcune delle

conclusioni introdotte da questa disciplina, a patto di ‘maneggiare con cura’ tali strumenti e di circostanziare le loro ‘verità’ ad alcuni specifici aspetti dell’opera e dell’esperienza estetica.12

Come avremo modo di vedere poco più avanti, nelle opere di flicker - come pure in un vasto panorama di opere contemporanee che mettono al centro del momento estetico la sensorialità – è il momento esperienziale del singolo fruitore a configurare e dare senso all’opera, opera che è dispositivo percettivo, basato sì su meccanismi e le leggi che regolano la percezione e che le neuroscienze e la neuroestetica possono contribuire a spiegare, ma che restano al contempo circoscritte ad una parte del progetto artistico. Come nel caso, ad esempio degli ambienti stroboscopici del Gruppo T, gli autori partono da una serie di condizioni percettive ricollocabili all’ambito scientifico ma, di fatto, esse rappresentano un a priori dell’opera che si realizza pienamente, in vivo, nel momento specifico della fruizione, cioè nell’esperienza del singolo soggetto e nell’imponderabilità delle conseguenze percettive, ma anche emotive e culturali che essa determina. Rispetto allo scarto tra l’oggettivizzazione dell’esperienza e la soggettività della fruizione, che è necessario segnalare, pur nei punti di contatto, un distinguo tra la pratica sperimentale nella scienza rispetto all’estetica. Mentre un contributo della neuroestetica alle teorie dell’arte è offrire conoscenza sul funzionamento del cervello in risposta a particolari stimoli prodotti nell’opera, non si dovrebbe cedere alla tentazione di spiegare attraverso questi la complessità e lo specifico dell’esperienza artistica, dato che queste funzioni si attiverebbero in risposta a qualsiasi input simile, ad esempio la luce pulsante, in qualsiasi condizione esperienziale, sia essa un’opera d’arte o un esperimento in laboratorio.13 Le neuroscienze quindi possono aiutare lo studioso a capire una parte delle modalità di azione dell’opera sul soggetto, ma non lo specifico dell’esperienza soggettiva.

Non essendo l’analisi delle questioni generali legate alla neuroestetica oggetto specifico di questa ricerca ci si limita a sottolineare un secondo punto

                                                                                                               

12 Per uno sguardo critico sul lavoro di Zeki e su alcuni aspetti della neuroestetica, cfr: Cappelletto C., 2009. Vedi anche recensione al saggio di Elio Franzini in “Altre modernità”, n. 4, 10/2010, pp. 303-305. Per un’analisi critica sulle questioni epistemologiche legate al rapporto tra neuroscienze e altre discipline cfr: Legrenzi P., Umiltà C., 2009.

caratteristico delle opere della dimensione percettiva del flicker rispetto al quale la neuroestetica, così come delineata da Zeki, evidenzia la propria portata riduzionista: la dimensione percettiva proposta dallo studioso, seppure efficace nel marcare l’ambiguità come carattere fondante del rapporto tra soggetto e oggetto della percezione, allo stesso tempo lascia eliso dal processo la dimensione somatica, la corporeità che agisce l’esperienza e ricolloca il processo percettivo sul piano della specificità sensoria dell’opera. Se, infatti, la visione diretta stabilita dal flicker permette al dato audiovisivo di parlare direttamente al cervello, questa immediatezza percettiva è stabilita attraverso la totalità sensoria inscritta nel corpo. Infatti, il processo percettivo, che dà fondamento all’opera a partire da funzioni che le scienze possono aiutarci a comprendere, si realizza sul piano particolare del sensibile che è agito da una “corporeità esperiente”, un corpo “effettuale che va alle radici del senso, senza accettare di essere ‘ridotto’ a funzioni operative e fisiologiche.”14

Una concezione, questa, del processo percettivo condivisa da posizioni interne alle stesse neuroscienze, che evidenziano il carattere incarnato, la rilevanza attiva del corpo nell’esperienza attraverso la quale il soggetto dà forma e senso al mondo. Tra queste voci, una delle più note e attente alla definizione dei processi fisiologici coinvolti nella percezione visiva, anche in relazione alla prassi estetica, è quella del neurobiologo Vittorio Gallese, i cui studi sul cervello riportano l’attenzione al corpo e descrivono un sistema di relazioni tra le sensazioni provenienti dalla sfera somatica e la loro risposta in termini neuronali, definito dallo studioso complesso e multimodale.15Infatti, in collaborazione con Freedberg, ha proposto un modello di interpretazione del portato empatico dell’esperienza, anche estetica, definito embodied simulation, secondo il quale l’empatia tra il sogggetto e altri individui o, nell’opera d’arte, tra il fruitore e riproduzioni, raffigurazioni del corpo o segni e tracce astratte sul suo gesto determinano un’immedesimazione tra corpo esperiente e corpo guardato/rappresentato che è

                                                                                                               

14 Franzini E.,2010, p. 305. Per una ricognizione delle teorie della corporeità cfr. Cavarero, A. 1995; Fontanille J., 2004; Foucault, M., 1998; Foucault, M., 2001; Pancino, C., 2000.

15 Gallese V., Seeing art….beyond vision. Liberated embodied simulation in aesthetic experience, in Franke I., Momennejad, (a cura di), 2011, p. 62.

riflessa in modo diretto sul piano neuronale, con conseguenze empatiche ed affettive.16

In ambito filosofico la più nota teoria della corporeità è senza dubbio quella offerta dal fenomenologo Merlau-Ponty, attraverso una concezione del corpo ‘vissuto’ che fa da cardine alla sua Fenomenologia della percezione (1945), ispirata a sua volta ad alcuni contributi sul corpo come vettore del movimento e del sentire tratti da Edmund Husserl.17 I presupposti teorici della tradizione fenomenologica sulla corporeità, di matrice sia francese che tedesca, sono al centro di un rinnovato interesse negli ultimi anni: linee di studio moltempli assumono infatti, non senza variazioni e rielaborazioni di rilievo, la prospettiva fenomenologica sullo sfondo delle conoscenze scientifiche sulla corporeità coinvolte nella percezione proposte dalle neuroscienze: come l’approccio neurofenomenologico, che vede tra i maggiori esponenti Francisco Valera,18 accanto a contributi che ridefiniscono il ruolo del corpo e della sensorialità nella formazione della coscienza del sé, tra i quali di particolare interesse il saggio La mente Fenomenologica di Shaun Gallager e Dan Zahavi (2008), significativo anche per aver ricostruito un ampio scenario di ambiti disciplinari e i paradigmi legati alla percezione, al corpo e alla coscienza, tra neuroscienza, filosofia della mente, fenomenologia e psicologia sperimentale, quali ad esempio la ‘teoria ecologica della percezione’ di James J. Gibson.19

In questa sede e più in generale nel corso della ricerca le sensazioni verranno considerate, alla luce di tali paradigmi incarnati della percezione, non unicamente come sensazioni semplici, corrispondenze degli stimoli esterni, ma come impressioni soggettive e intime. Esse non rappresentano, infatti, il mero risultato di un’immissione passiva di informazioni all’interno del soggetto, rielaborate successivamente in rappresentazioni complete e stabili, quanto piuttosto un livello primario di interazione tra soggetto e ambiente nel quadro complessivo di un processo percettivo che comporta un’attività da parte del soggetto un suo ‘fare’ incorporato. Le sensazioni sono suscettibili e si modificano, a partire dai

                                                                                                               

16 Cfr. Gallese, V. and Freedberg, D., 2008, pp. 52-59.