Attraverso l’esempio di due lavori performativi recenti, il paragrafo approfondisce alcune tra le molteplici forme assunte nel contemporaneo dalla ricerca artistica sui dispositivi ottico-sonori. Lo studio sugli aspetti mediali dell'opera audiovisiva, da parte degli artisti, si configura come un panorama di notevole complessità e popolato da approcci disomogenei, che spaziano dalla ri-appropriazione di tecnologie pre-cinematografiche alla messa a punto di sistemi meccanici originali, dal recupero di tecniche analogiche utilizzate per brevi periodi della storia del video all’ideazione di sistemi hardware e software. Queste e altre le possibili traiettorie che, è bene sottolineare, non sono da intendersi come percorsi distinti, quanto piuttosto come tendenze, rispetto alle quali gli artisti si pongono spesso in modo trasversale, a causa anche della sempre maggiore proliferazione di tecnologie differenti e della loro accessibilità. Gli autori contemporanei, infatti, attingono i propri strumenti da uno scenario mediale estremamente ampio, talvolta con costi ridotti, che offre inoltre la possibilità di recuperare, più facilmente di quanto non accadesse in passato, strumenti in disuso, prodotti dall'obsolescenza mediale. Molte delle ricerche in atto stanno ridiscutendo, nel loro complesso, i codici linguistici e i metodi elaborati in precedenza nelle diverse storie dell'audiovisivo, in particolare attraverso la messa a punto di sistemi di sintesi di suono e immagine digitali, analogici, ottici e meccanici.
Tra le tendenze recenti che forse più di altre permettono di tracciare una ideale continuità tra le esperienze storiche e il contemporaneo è l’area di
sperimentazione su metodi e strumenti di sintesi ottica del suono - o optofonici.1 A partire da inizio Novecento, questa tecnica rappresenta, infatti, una costante nelle opere basate sulla combinazione di immagine e suono, stabilita attraverso dispositivi analogici o ottico-meccanici. Le tappe più recenti di questo percorso sono rappresentate, ad esempio, dai lavori di Derek Holzer, Bruce McClure, Mikomikona, Jurgen Reble, Ben Russel, otolab.
Sistemi originali di sintesi optofonica, basilari nella nascita del cinema sonoro, sono messi a punto nel corso del Novecento da fisici, musicisti, matematici, filmmaker e artisti visivi. I sistemi progettati in questi ambiti di ricerca apparentemente distanti, sono accomunati da una proprietà di base: la possibilità, cioè, di attuare una traduzione diretta della luce in suono e di stabilire la coincidenza assoluta tra ritmo visivo e ritmo sonoro.
Un secondo aspetto, che emerge da una ricognizione storica, è la ricorrenza del flicker, utilizzato come elemento strutturale di riferimento. Pur essendo difficile stabilire i fondamenti di questa ricorrenza, una delle ragioni potrebbe essere, come visto nel capitolo precedente, rappresentata dalla definizione di ritmo – elemento del linguaggio audiovisivo utile a determinare l'espressione più efficace della sincresi tra suono ed immagine. Essendo la sintesi optofonica basata sulla traduzione diretta tra luce e suono, la struttura ritmica del flicker, nella compressione temporale che lo caratterizza, esplicita efficacemente la stretta relazione metrica e sincronica tra pulsazione luminosa e risposta sonora.
Tale metodo ottico-sonoro è inoltre, punto di partenza nelle ricerche di molti autori per la messa a punto di dispositivi originali e autocostruiti. In questa direzione, le due esperienze selezionate offrono elementi utili a fissare, senza alcuna pretesa di esaustività, alcune caratteristiche di riferimento rispetto all’eterogeneità del contemporaneo. I 'mondi' di riferimento degli esempi presentati sono molto diversi, come pure i risultati delle loro sperimentazioni. Essi sono rappresentativi di due delle possibili anime della media art contemporanea: una
1 Sulla sintesi optofonica o sintesi ottica del suono cfr. la ricerca svolta dall’artista americano Derek Holzer, durante una residenza al Tesla media arts laboratory di Berlino, ottobre-dicembre 2007. L’artista ha effettuato uno studio sulla storia di questa tecnica, da lui stesso recuperata nel live Toneweels, ideato in collaborazione con la video artista Sara Kolster, Holzer D., 2003; cfr. anche Thoben J., Tecnical Sound-Image Transformations, in D. Daniels, S. Naumann, 2010, pp. 424-431.
rivolta al cinema su pellicola, l'altra proiettata verso nuovi strumenti di lavoro, al tempo stesso, profondamente radicata nelle esperienze della prima videoarte analogica.
Bruce McClure, il primo autore trattato, parte dal dispositivo cinematografico e offre un'originale riformulazione in chiave performativa della genesi della forma visiva e sonora e delle loro proprietà materiche e spaziali. Influenze nelle sue ricerche possono essere considerate le sperimentazioni tardo strutturaliste, ma anche i dispositivi del pre-cinema, le esperienze delle avanguardie, insieme ad alcuni tratti caratteristici della musica minimalista e noise. Pur forte del suo legame con la storia, l'opera di McClure non è spinta quasi mai alla citazione letterale né al remake di tali tradizioni. Il suo approccio al dispositivo cinematografico ricorda piuttosto ciò che Rosalind Krauss ha definito reinvenzione, attuata nei confronti di un medium in via di obsolescenza e del sistema di regole linguistiche ad esso legate.
Il collettivo otolab, secondo polo di questa analisi, con uno sguardo sempre rivolto alla tradizione della musica e del video analogici, conduce la messa a punto di prototipi originali, progettati a partire da metodi di condivisione e dall'utilizzo di tecnologie open.2 Il collettivo segue, infatti, una prassi di sperimentazione sul dispositivo che molto deve alla scena del media design contemporaneo definita generalmente DIY - do-it-yourself.
Pur restando due punti di vista molto diversi – selezionati proprio in virtù della loro disomogeneità – le ricerche mediali di Bruce McClure e otolab rivelano importanti punti di contatto, in particolare per alcuni approcci condivisi al momento performativo: in primo luogo, entrambi i lavori convergono nei numerosi rimandi ad una liveness tipicamente musicale, espressa attraverso un ampio margine di improvvisazione e di aleatorietà, dovuta alla natura aperta dei dispositivi utilizzati. Inoltre, in entrambe le ricerche, il momento dell'opera non rappresenta una fase conclusiva del percorso di ricerca quanto piuttosto una delle manifestazioni possibili di un più ampio e costante work in progress.
3.1.1 | Bruce McClure: Christmas Tree Stand (2005)
Bruce McClure è stato definito artista para-cinematografico, proto-cinematografico, esponente dell'Expanded Cinema contemporaneo.3 Definizioni queste, sempre respinte dall’autore, che preferisce collocarsi in un ideale punto d’intersezione tra arti visive, cinema sperimentale e musica d'avanguardia. Il suo lavoro è attraversato da alcune costanti, tra le quali l'onnipresenza del flicker, utilizzato come elemento di transizione dalla sfera del visivo a quella del sonoro. Altro tratto ricorrente è rappresentato dallo studio delle possibilità offerte dal proiettore cinematografico, modificato dall'artista e reso protagonista del suo set di strumenti elettrificati, impiegati nella prassi performativa.
Le sue film performance rientrano nella scena della sperimentazione audiovisiva degli ultimi quindici anni che vede, accanto alla diffusione dei sistemi digitali, un profondo interesse per le tecnologie ottiche e sonore degli inizi del Novecento e per gli strumenti e le tecniche del cinema su pellicola. Oltre a Bruce McClure, altri autori come Sandra Jibson e Louis Recoder, Jurgen Reble, Ben Russell, il collettivo Metamkine, ciascuno con le proprie specificità, stanno conducendo una rielaborazione dei codici del pre-cinema, delle avanguardie e del cinema sperimentale degli anni Sessanta e Settanta, riletti alla luce di influenze provenienti dalla media art digitale, dalle arti visive e soprattutto dalla musica elettronica, noise in particolar modo. In tutti questi autori, come nello stesso McClure, il cinema è scelto quasi sempre per il suo carattere di sistema aperto e fallibile, impreciso, esposto costantemente all'errore meccanico, al drop e alla deperibilità.4
In una prospettiva storica, l’opera di McClure può essere anche posta in relazione con alcuni lavori basati sulla sintesi ottica realizzati a metà degli anni
3 Picard A. Reading Between the Lines with Bruce McClure, 2009.
4 Walley J., 'Not an Image of the Death of Film': Contemporary Expanded Cinema and Experimental Film, in Rees A. L., White D., Ball S., Curtis D., 2011, p. 244.
Settanta da autori dello strutturalismo inglese, in particolare quelli di Guy Sherwin e Lis Rhodes, con i quali, al di là degli aspetti formali e di linguaggio – quali ad esempio la transitività diretta tra luce e suono, la ricorrenza del flicker come elemento cardine dalla traduzione tra segnale luminoso e dato acustico - condivide la propensione per la rielaborazione di ciascuna versione della performance.5 Un altro referente del lavoro di Bruce McClure, citato spesso dallo stesso autore, è Ken Jacobs, in particolare per il suo ciclo di performance stroboscopiche dal titolo The Nervous System, realizzate dall'autore dal 1975 fino agli inizi del 2000.6
La stroboscopia e l'ossessione per il ritmo entrano fin da subito nel percorso artistico di questo autore. A partire dalla prima metà degli anni Novanta, le sue ricerche si concentrano sulla relazione tra forme visive statiche e movimento, con rimandi ai dispositivi e alle forme del pre-cinema, utilizzando unicamente luci stroboscopiche e dischi ottici. McClure intende indagare le possibilità e i limiti di una pratica del cinema condotta senza ricorso agli elementi deputati, quali ad esempio camera, proiettore o pellicola. Traendo ispirazione, in particolare, dal Fenachistoscopio e dai Rotorelief di Duchamp (1926), mette a punto una serie di Roto-Optics, sistemi cinetici stroboscopici formati da dischi con forme astratte, montati su motori. Ciascun disco, in movimento ad una velocità costante di 1200 giri al minuto, è illuminato da una luce stroboscopica a frequenza variabile. Tali strumenti sono messi a punto per analizzare la percezione del movimento. L’autore utilizza però la luce stroboscopica per ottenere una fenomenologia visiva inversa a quella comunemente cercata nei dispositivi pre-cinematografici, per indurre cioè la percezione di una forma statica a partire da un oggetto in rotazione costante: l’effetto è prodotto grazie all'aumento progressivo di velocità della luce stroboscopica che, avvicinandosi sempre di più al ritmo di rotazione del disco, ne determina una fissità apparente. La sua indagine si concentra successivamente sul proiettore, utilizzato nella produzione di eventi performativi stroboscopici violenti, spesso disturbanti, dalla duplice natura aleatoria e al tempo stesso rigidamente strutturata.
5 Frye B., 2006.
Tra questi, Christmas Tree Stand (2005),7 uno dei lavori più interessanti, perché evidenzia lo sconfinamento ricorsivo tra rigidità della struttura scarna e minimalista e la dissoluzione nel noise audiovisivo più furioso ed ipnotico.
La performance si apre, nel buio assoluto dello spazio di proiezione, con una forma circolare pulsante, corrispondente ad una metrica sonora di asciutti battiti metallici in onde quadre, proiettata su uno schermo nero autocostruito. L'intervento di una seconda proiezione sovrapposta trasforma la bidimensionalità del cerchio in sfera. L'interazione tra le due ritmiche fa crescere una consistenza progressivamente più materica, fino a suggerire un effetto di tridimensionalità e di moltiplicazione del movimento. Le forme luminose di espandono e contraggono, anche il suono si intensifica e aumenta di densità, si espande in senso tridimensionale grazie alla sovrapposizione di più livelli ritmici, riverberi e armoniche. Il live evolve con l'inserimento di altri due proiettori, che stratificano ulteriormente la trama visiva, proiettando sulla superficie preparata un pattern geometrico a griglia, in rotazione circolare. L'interferenza tra il movimento della griglia e la pulsazione del flicker genera un effetto detto marquee, dal quale deriva il titolo dell'opera: la forma stroboscopica sembra moltiplicarsi in una costellazione di piccole fonti luminose pulsanti nello spazio buio.8 A partire, quindi, dal rigore del minimalismo geometrico, McClure alimenta la forma visiva nella sua dimensione sia temporale che ambientale fino all'esplosione nello spazio.
La dialettica tra la forma come organismo concluso e definito e la sua espansione, è rintracciabile sia sul piano sonoro che visivo non solo in Christmas Tree Stand, ma più in generale nel complesso del suo lavoro. Partendo da questo esempio è possibile, infatti, estendere la riflessione all’interezza delle ricerche di questo autore: perché il suo è un lavoro imperniato su elementi e protocolli costanti, rispetto al quale ciascuna opera rappresenta la tappa di un percorso di ricerca estremante coerente, quasi ossessivo.
La dinamica tra bidimensionalità e tridimensionalità, ottenuta attraverso il flicker, essenziale per tradurre la natura temporale e metrica del dispositivo
7 Presentato in anteprima presso l’Anthology Film Archive di New York, nell’ottobre del 2005, all’interno del ciclo Walking Picture Palace, a cura di Mark McElhatten.
cinematografico, è il debito più forte di Bruce McClure nei confronti del Nervous System di Ken Jacobs. Quello che può essere considerato un work in progress che accompagna buona parte della carriera artistica di Jacobs, è, infatti, una continua ricerca delle possibilità offerte dal flicker nel determinare un volume plastico nell'immagine, a partire dalla bidimensionalità della proiezione, ereditando quella che Nicky Hamplyn definisce ‘oscillazione’ tra l'immagine cinematografica, intesa nella sua accezione di forma, e l'immagine come fenomeno visivo e sonoro amplificato e instabile.9 Ma a differenza di Jacobs, l'intervento di McClure non parte dall'immagine e dalla sua presenza ritmica sullo schermo: il campo sul quale agisce è quello interno al proiettore e che precede la formazione dell’immagine. L'autore racconta, infatti, che il suo lavoro è per la maggior parte dedicato al bagliore della lampada del proiettore, elemento dell'apparato cinematografico generalmente relegato al ruolo d’intermediario tra il fruitore e l'immagine visiva. Secondo McClure, invece, esso non è strumento di traduzione di un immagine contenuta a monte nella pellicola, ma agente attivo di poièsi visiva e sonora.10 Per comprendere a pieno la sua ricerca è necessario guardare all'apparato ottico, meccanico e sonoro messo a punto dall'autore. Il set di strumenti utilizzati nel live è un sistema definito di parametri sonori e visivi, struttura e grammatica di riferimento autocostruita e alla quale l'autore ritorna per ogni lavoro: utilizza sempre una serie di proiettori 16mm caricati con loop, impressionati utilizzando del nastro adesivo, diversificati in base a varie ritmiche del flicker. Inoltre, ciascun proiettore è modificato con filtri e maschere, inseriti direttamente nello sportello di proiezione. L'autore realizza, infatti, delle maschere intagliate con forme geometriche in grado di scolpire e dare forma al fascio luminoso proveniente dalla lampada. Il gruppo di proiettori è collegato ad un metronomo elettronico amplificato, un mixer e una serie di pedaliere elettroniche.
Questo set permette di manipolare il suono proveniente dal proiettore, a partire dal segnale emesso dai loop su pellicola. La pulsazione luminosa, che è dialettica visiva sincopata di buio/luce, dal punto di vista sonoro è battito di vuoto e
9 N. Hamlyn, Mutable Screens: The Expanded Films of Guy Sherwin, Lis Rhodes, Steve Farrer and Nicky Hamlyn, in Rees A. L., White D., Ball S., Curtis D., 2011, p. 215.
10 Walley J., 'Not an Image of the Death of Film': Contemporary Expanded Cinema and Experimental Film, in A. L. Rees, D. White, S. Ball, D. Curtis, 2011, p. 247.
pieno, assenza di suono e densità di frequenze nel white noise. La metrica sonora è base comune di molte delle ricerche strutturaliste, rispetto alle quali McClure si spinge però oltre nell’indagare la potenzialità musicale intrinsecamente contenuta nella pellicola 16mm: a partire da questa matrice audiovisiva, McClure costruisce un sistema sonoro originale e performabile che agisce sull'amplificazione del segnale proveniente dal proiettore. I segnali generati in modo automatico e costante dalla pellicola, sono la base di un processo di trasformazione in real time incentrato, in gran parte, sull'improvvisazione, nel quale i ritmi di base dei proiettori sono trasformati in un crescendo sempre più potente di ritmi sovrapposti e amplificati.
Il sistema di sintesi audiovisiva progettato dall'autore contiene in sé la possibilità di muoversi sul limite tra natura solida e definita del ritmo audiovisivo di partenza e la sua intensificazione fino all'espansione spaziale. Più precisamente, se dal punto di vista sonoro è l'aggiunta del metronomo e delle pedaliere a consentire la ri-processazione audio con effetti di tridimensionalità, la controparte visiva di questo effetto è ottenuta, oltre che dal flicker, dall'aggiunta delle lastre all'interno del proiettore. La modifica apportata al dispositivo ha conseguenze sull'ontologia della visione: la maschera consente, infatti, la fuoriuscita dal rettangolo di riferimento del cinema, contenuto nel fotogramma e di riflesso nello schermo. Inoltre, attraverso la maschera, McClure scinde l'unità tra dimensione temporale e visiva della pellicola, determinate ad esempio nel lavoro degli autori strutturalisti. Nelle sue performance, alla pellicola è lasciato il solo ruolo d’impulso ritmico e temporale, mentre il proiettore diviene il luogo generatore del grado zero della forma visibile. Una seconda possibilità è offerta dalle maschere per lavorare sulla profondità dell’immagine, oscillando tra effetti di evanescenza e solidità geometrica pulsante e amplificando il movimento interno della forma proiettata. L’approccio di McClure alle tecnologie del cinema non è definibile invenziona. La sua è una modifica che parte dalle specificità e potenzialità preesistenti nel dispositivo, rielaborandone alcune funzioni ma lasciando pur sempre intatta la struttura generale. Al tempo stesso si rifà ad una tradizione, in particolare al cinema degli anni Settanta, per cui il suo lavoro potrebbe sembrare aderente all'ortodossia strutturalista. Il superamento dall’integrità del fotogramma conduce le ricerche di McClure oltre le traiettorie tracciate dallo strutturalismo. Le
ricerche e gli esperimenti condotti da McClure sul proiettore e sul dispositivo cinematografico, hanno permesso all'artista di intravedere altre possibilità e applicazioni, nuovi usi del cinema su pellicola e in particolare del proiettore. Egli attua quello che Rosalind Krauss ha definito ‘reinvenzione del medium: differente dall'ideazione di un nuovo apparato mediale o dal recupero archeologico di tecnologie in disuso, la reinvenzione è un processo attraverso il quale l'artista riesce a 'vedere’ le specificità proprie di un medium – inteso non tanto nella sua dimensione tecnologica e materiale, quanto piuttosto come sistema di funzioni che genera un linguaggio, a sua volta sostenuto da una sua grammatica – e a rielaborarne l'uso oltre quello convenzionale, intendendo con convenzioni non sono solo quelle del consumo di massa o del mercato, ma anche quelle interne ai mondi dell'arte. Nel lavoro di Bruce McClure, la scomposizione della meccanica del proiettore nelle sue forme più elementari, nonché, la sua ricostruzione in modi nuovi che inaugurino altri possibili usi e funzioni dello strumento, è un processo che afferma le possibilità del medium cinematografico di trovare forme altre nel panorama mediale contemporaneo. Il suo modus operandi riesce a conservare il legame con la storia del cinema e al tempo stesso condurre le evoluzioni del cinema analogico oltre il rischio di obsolescenza, anzi godendo proprio del processo di de-attualizzazione in atto nei confronti del cinema stesso. Riprendendo Benjamin, la Krauss evidenzia, infatti, i vantaggi dell'obsolescenza di un medium: l'eclissarsi della consuetudine d’uso di una tecnologia facilita nell'artista la tensione, così come accade in McClure,ad individuare nel proprio processo artistico un 'oltre' della tecnologia stessa, un ‘al di fuori’ dal determinismo tecnologico a lui contemporaneo o interno a particolari correnti delle arti, sfruttando una riformulazione propria e innovativa del linguaggio generato dal medium.