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3.3.1 | Ivana Franke: Seeing with the Eyes Closed (2011)

L'artista croata Ivana Franke utilizza linguaggi e protocolli artistici molto diversi per indagare le relazioni tra percezione e ambiente, visibile e invisibile, forma fisica e smaterializzazione. In opere spesso effimere, quali principalmente installazioni site specific e ambienti, l’autrice pone l’individuo in condizioni interrogatorie rispetto alla veridicità di ciò che osserva, spinge a ridiscutere la standardizzazione di modelli interpretativi tramite i quali si attribuisce un senso alla realtà. Le installazioni di Franke sono spesso piccole detonazioni di dubbio, come nel caso di installazioni collocate in spazi pubblici o del vivere quotidiano, o

nell'isolamento di non luoghi bui, definiti da interventi minimali di light art. In questa seconda tendenza del suo lavoro, l'opera e il suo contenuto coincidono, in linea con la tradizione dell'Arte Programmata e Cinetica. Il pubblico è posto in esplorazione del buio, prima che della luce, campo praticabile d’isolamento percettivo entro il quale distillare microgradazioni di fenomeni percettivi in scala architettonica, trompe l'oeil minimali che ridefiniscono l’ambiente dato. La sua è una costante riflessione sul modo in cui guardiamo il mondo o ciò che definiamo tale, sui processi di soggettivizzazione nei quali scovare la mescolanza tra esterno e interno, come brecce che intaccano la membrana tra queste due sfere della nostra esperienza.

Tra il 2009 e il 2010, l'interesse per i limiti ambigui tra 'esterno' e ‘interno’ al sistema percettivo è al centro del progetto di ricerca Seeing with the eyes closed, dedicato alla fenomenologia della luce stroboscopica e realizzato insieme alla neuroscienziata Ida Momennejad. Presupposto della collaborazione è costruire un percorso di studio sugli effetti pseudo-allucinatori provocati dalla luce stroboscopica, a partire da due framework disciplinari diversi, quello delle arti e quello neuroscientifico. Vengono realizzati un'installazione omonima e insieme un simposio che coinvolge studiosi di entrambi gli ambiti disciplinari, ospitato presso il museo Peggy Guggenheim di Venezia, nel corso della 54° Biennale d'arte, in collaborazione con l'AoN, Association of Neuresthetics, una piattaforma di lavoro fondata nel 2008 dal Dr. Alexander Abbushi, che supporta la produzione, formazione e ricerca basate sulla collaborazione tra autori e studiosi nel campo delle arti e studiosi di scienze cognitive.

Il cuore di Seeing with the eyes closed è un dispositivo cinetico-luminoso installato che, pur non esaurendo in sé il percorso di ricerca precedente e successivo la sua realizzazione, riconnette i quadri teorici di riferimento, il confronto tra competenze e formazioni chiamate a partecipare al percorso condotto da Franke e Momennejad, in un forma concreta di esperienza percettiva, riproducibile e scalabile in contesti espositivi differenti.

La macchina ottica è costituita da una matrice di lampade LED, programmate in sequenze ascendenti e discendenti di flash luminosi, in un range di frequenze tra 12 e 50 Hz. La durata complessiva dell'intero ciclo, ripetuto

omogeneamente e attivato tramite un pulsante dal fruitore, ha la durata fissa di tre minuti e 18 secondi. La permanenza percettiva di ciascun flash è di sei millisecondi, mentre la pausa tra un lampo luminoso e l'altro è variabile.

Il dispositivo così strutturato è posto in uno spazio completamente buio e silenzioso e il pubblico è invitato a sedersi a terra, di fronte alla matrice di LED e alla distanza di circa un metro: tenendo gli occhi chiusi, il suo arco visivo è completamente circondato dallo sfondo luminoso che ha forma semicircolare a 180°. L'accensione via pulsante attiva il ciclo luminoso programmato e insieme possibilità indefinite di visioni potenziali, differenti tra i partecipanti: le risposte percettive vanno da strutture geometriche, colorate o in b/n, dotate di movimenti differenti nello spazio, a sua volta, generato e assolutizzato dal dispositivo, fino a scene più complesse, dotate di una forte valenza iconica.

Alla singolarità indeterminabile della visione, corrisponde un setting esperienziale rigidamente prestabilito, come invariabile è anche la sequenza luminosa, il tipo di pulsazioni e la loro intensità. I parametri di riferimento sono quindi stabiliti e ripetuti invariabilmente da un individuo all'altro, isolati da qualsiasi intervento soggettivo altro dell'accensione da parte del fruitore. Il silenzio nella sala e il totale buio sono scelti per favorire un completo assorbimento nell'esperienza visiva determinata dalle frequenze. Ad eccezione di specifiche differenze nel design dell'esperienza, che vedremo meglio tra poco, il fenomeno visivo è raccontato dal pubblico in modo non dissimile da quanto descritto da Brion Gysin rispetto alla Dream Machine.

Anche il titolo scelto per il progetto si rifà direttamente alle esperienze di Gysin, quasi citando uno dei claim con i quali l'autore aveva tentato di lanciare commercialmente la propria invenzione: il primo oggetto artistico da 'guardare ad occhi chiusi.' Questa espressione, oltre a tessere la continuità dell'esperimento con il primo episodio di sconfinamento nelle ricerche sul flicker dall'ambito scientifico a quello delle arti, allo stesso tempo concentra il tema dell’opera sulla fenomenologia allucinatoria che la luce pulsante può indurre. Viene eliminato qualsiasi altro tema o questione non strettamente legata all'esperienza percettiva per permettere, a differenza di molti altri lavori considerati in questa ricerca, di

avvicinare l'esperienza determinata nel corso dell'installazione all'esperienza in vitro di un esperimento scientifico.

Mentre nella gran parte dei progetti fin’ora considerati, gli autori, anche nel caso in cui prendano ispirazione dagli ambiti neuroscientifici, lo fanno reinterpretando e innestando i fondamenti fisiologici della percezione in altri livelli di riflessione, in questo caso, invece, l'opera e l'esperimento percettivo coincidono pienamente. L'esperienza di ciascun partecipante è, infatti, direttamente inquadrata su un doppio livello, quello del momento estetico, unico e soggettivo, e quello del singolo campione di un'analisi quantitativa. Quest’ambiguità che rende il progetto di particolare interesse nel piano generale del nostro discorso, rappresenta allo stesso tempo una criticità e in gran parte irrisolto del lavoro di Franke e Momennejad, come avremo modo di approfondire nelle prossime pagine.

Tornando al design dell'esperienza, focalizzare tutta la struttura del progetto attorno alla produzione delle forme allucinatorie è necessario per far emergere una riflessione del singolo su cosa effettivamente sia il contenuto dell'opera, senza altra interferenza di senso o alcun tipo di sotto testo. Se questo rappresenta una prassi negli esperimenti scientifici, tesa a limitare il più possibile la contaminazione del fenomeno che s’intende studiare con altri fattori esogeni, è al tempo stesso un'evoluzione coerente con lo sfondo generale delle ricerche di Franke. Trovarsi immersi nel macchinario stroboscopico senza altro elemento che la luce pulsante e le forme fantasmagoriche, rappresenta quasi una presentazione didascalica del meccanismo percettivo, rende facilmente deducibile per ciascun fruitore che, come sottolinea Brion Gysin, l'autore dell'opera visiva è non può essere che lui stesso: in virtù di qualche bizzarro evento sensoriale ha luogo l'apparizione di forme e colori senza referenze materiali con l'esterno. La condizione progettata dalle due autrici facilita questo processo di conoscenza e consapevolezza, senza lasciare dubbi né altri interrogativi, se non il desiderio di documentarsi rispetto alle radici fisiologiche dell’esperimento. L’isolamento induce il fruitore a confrontarsi direttamente con la propria sfera immaginativa, annullando la distinzione prima sottolineata parlando del lavoro di Franke, tra

interno ed esterno, visibile e invisibile, consapevolezza e risposta percettiva incondizionata.41

L'oggetto cinetico luminoso attiva quindi un processo individuale e solipsistico, in cui il singolo si trova immerso in un sistema di feedback tra stimolo luminoso e esternazione della sua sfera endogena, che diventa oggetto e spazio percettivo. I tre minuti della sequenza luminosa rappresentano, a differenza di molte altre opere portate ad esempio dell'applicazione del flicker nell'arte contemporanea, un percorso in una dimensione strettamente soggettiva. “Un’oggettività endogena centrata sul soggetto è sovrapposta alla tradizionale dimensione oggettiva esogena”, osserva Ulrich W. Thomale, ‘il caos microscopico determina nell’osservatore la trama del sogno.’42 A differenza della maggior parte delle opere di Franke, costruite a partire da spazi preesistenti (chiese, padiglioni, cupole, navate), luoghi che annullano e ridefiniscono la percezione e l'esperienza in forme di luce e ombra, in questo caso la luce è non luogo, non collocazione, introflessione o estroflessione assoluta del fruitore e con questa determina in toto l'opera in senso visivo.

Il dispositivo che circonda il fruitore, il suo essere uno spazio intimo di comunicazione tra corpo di luce e corpo di carne, contribuisce a creare un’indeterminatezza spaziale simile ad un simulacro dello spazio, come nel caso della realtà virtuale, ma autogenerato dal soggetto.

L'isolamento del fenomeno e della conseguente dimensione endogena dell'esperienza sono accentuati dal tipo di dispositivo progettato da Franke: l'oggetto luminoso delimita il campo esperienziale, stabilendo una prossimità assoluta con il corpo del fruitore, catalizzandone completamente l'attenzione. Il momento dell'opera non prevede, infatti, alcun altro condizionamento che lo stimolo luminoso e l'epifania visiva solipsistica. Questo tipo d’immersività instaura una relazione di continuità tra corpo del soggetto e apparato tecnologico che si spinge fino ad incorporare il fruitore e a rendere il suo sistema fisico e percettivo il vero medium di produzione dell'evento visivo. Elena Agudio, studiosa e curatrice dell'evento di presentazione del progetto a Venezia, evidenzia come Seeing with

                                                                                                               

41 Ulrich W. Thomale, nel corso di una presentazione del progetto presso il Deutsche Guggenheim di Berlino, Marzo 2012.

the eyes closed realizzi, attraverso una pratica ibrida tra set sperimentale ed esperienza estetica, il concetto di forma visiva come accadimento delineato da Hans Belting e dal suo approccio iconologico all'immagine tecnologizzata: il dato visivo non ha alcuna esistenza autonoma di senso, assume significanza di esperienza solo a partire da un processo performativo che coinvolge, in un dualismo inscindibile, corpo e medium tecnologico.43Rispetto alla performance dell'evento visivo, l'installazione determina questa simbiosi e la possibilità che l'evento accada, ma solo in potenza. Infatti, come per la Dream Machine, la macchina non è in realtà l'opera ma un tramite per l'esperienza, vero punto di contatto tra scienziato e artista.

A confermare che l'esperienza del pubblico è il punto d’incontro tra Franke e Momennejad vi è la pratica di racconto di ciascun partecipante, invitato, in seguito alla presentazione del progetto e dell'installazione a Venezia, a documentare il vissuto percettivo, anche in forma di disegno. Se l'esperienza percettiva e l'epifania visiva sono punto di partenza e risultante del percorso di studio comune che conduce le autrici alla tappa rappresentata dall'opera, gli sviluppi successivi, legati alle forme di racconto e alle riflessioni fatte a partire da quella esperienza, appare come una non completa realizzazione dei presupposti dichiarati. Il progetto, infatti, viene presentato come momento non solo di confronto tra i due ambiti di riferimento delle due autrici ma anche come percorso comune che, traendo linfa da queste differenze, sia in grado di elaborare una metodologia integrata. Nell'interpretazione dell'esperienza e sulle ragioni della sua centralità, Franke e Momennejad denotano una differenza che riconduce il lavoro al punto d’inizio senza che l’ibridazione abbia permesso di maturare un’effettiva crescita nelle due aree di studio: la raccolta delle singole esperienze è per Momennejad un dato quantitativo da interpretare attraverso strumenti di analisi statistica, allo scopo di individuare ricorrenze e strutture stabili, pur nell'ambiguità e indeterminatezza dell'esperienza individuale. In modo diametralmente opposto, per Franke, Seeing with the Eeyes Closed è un campo entro il quale stabilire forme di esperienza di volta in volta nuove, occasione per guardare, in continuità con la sua produzione, alla singolarità e variabilità di ciascun evento visivo nel vissuto

                                                                                                               

43 Belting H., 2005, pp. 302-319.

percettivo e irrappresentabile di ogni singolo fruitore. Mentre Momennejad cerca conclusioni e risposte a quesiti generali sulla relazione tra cervello, corpo e fenomenologia del flicker, Franke pone interrogativi insoluti.

Questa polarità, senza dubbio interlocutoria, non toglie forza al progetto ma spinge a riqualificare l'incontro tra i due ambiti di riferimento come due sguardi distinti su uno stesso fenomeno, in grado di intessere traiettorie comuni e complementari ma senza raggiungere una reale integrazione. Allo stesso tempo la fase di racconto del pubblico rappresenta un aspetto non risolto del progetto e dell'interazione tra metodologia scientifica e pratica artistica, in quanto il materiale ricavato è ritenuto significativo unicamente sul piano scientifico, mentre l’artista non propone alcuna lettura né valenza sul punto di vista sull’opera offerto dal pubblico, né nei termini di pratica documentativa sperimentale né come spunto per evoluzioni successive della propria produzione. In questo modo l'installazione rischia di oltrepassare le specifiche aree di pertinenza, esistenti per quanto sfumate, tra opera e test sperimentale e di caratterizzare l’installazione come momento empirico strumentale ai fini della ricerca scientifica.

3.3.2 | Chris Salter, Tez, David Howes: Displace (2011-2012)

Un ambito di studi relativamente recente che sta aprendosi a possibili contaminazioni con l'arte e il media design, è quello dell'antropologia dei sensi, una branca delle scienze sociali che indaga le modalità attraverso le quali percezioni e sensazioni sono distinte, classificate e messe in relazione in differenti culture e periodi storici.44 In particolare, le ricerche e i contributi di David Howes, docente di Antropologia presso la Concordia University di Montreal e direttore, nella stessa università, del Concordia Sensoria Research Team (CONSERT), conciliano la ricerca mediale e sensoriale alla base di molte opere di media art, con studi recenti nel campo delle neuroscienze. Howes, infatti, attraverso una serie di metodologie interdisciplinari, interpreta i meccanismi della multisensory integration, cui si è fatto riferimento nel capitolo II, in chiave antropologica e sociale: pur riconoscendone la base fisiologica, lo studioso ritiene che una parte delle origini di

                                                                                                               

44 Howes D., 2006, 2004; 2003; 1996.

tali meccanismi, provengano da processi di apprendimento, condizionamento culturale ed educazione ai sensi legati a particolari contesti storici e sociali. Una posizione che deriva da uno studio comparato tra culture occidentali e non, rispetto ai domini del sensoriale. Secondo, Howes in Occidente, a partire dal Settecento, si osserva una progressiva separazione e astrazione dei canali sensori e delle sensazioni ad essi attribuite. Per lo studioso il rinnovato interesse da parte di molta arte mediale per la questione percettiva, la tendenza a concepire l'opera come campo di relazione tra le sensazioni, rappresentano un 'laboratorio' fertile entro il quale stabilire una riflessione sull'esperienza percettiva che coinvolga più ambiti disciplinari. Da queste premesse e dalla collaborazione con Chris Salter, nasce 'Mediations of Sensations: Sensory Anthropology and the Creation/Evaluation of Multimodal Interactive Environments', un programma di ricerca della durata di tre anni, finanziato dal FQRSC – Fondo di ricerca sociale e culturale del governo del Quebéc, finalizzato alla creazione di una serie di progetti artistici, seminari e momenti di confronto tra le pratiche dell'arte e del media design contemporaneo e le metodologie di ricerca avanzata proprie dell'antropologia culturale.Il progetto coinvolge l'Hexagram Concordia's LabXmodal, laboratorio fondato e diretto da Salter e dedicato alla ricerca, lo sviluppo e la creazione di ambienti performativi multimediali e il CONSERT - Concordia Sensory Research Team, diretto da Howes. Chris Salter è un media artist e docente in Media Design e Computational Art presso la Concordia University. Le sue ricerche sono dedicate allo studio delle relazioni percettive, stabilite attraverso sistemi generativi e interattivi, all'interno di opere ambientali audiovisive. 'Mediations of Sensations', accanto ad una prima fase di studio teorico e di ricognizione dello stato dell'arte sulle interazioni percettive in diversi contesti sociali e storici, si concentra sulla progettazione e realizzazione di prototipi sperimentali di ambienti immersivi, basati su diversi meccanismi sensoriali, mappati in tassonomie dal gruppo di ricerca del CONSERT e corrispondenti per la maggior parte a pratiche rituali in culture tradizionali.

Il principale risultato di quest'area del programma è Displace (2011), installazione multimediale e insieme progetto di studio, formazione e disseminazione sulla percezione, suddiviso in quattro fasi.45

                                                                                                               

La prima, iniziata nel 2010, ha carattere marcatamente teorico e metodologico e coinvolge principalmente Salter, Howes e un gruppo di antropologi e ricercatori in campo etnografico. Da una ricognizione dello stato dell'arte nell'antropologia dei sensi, viene tratta una tassonomia di casi e metodi di stimolazione sensoria, del loro significato all'interno dell'esperienza quotidiana individuale e collettiva e del loro valore simbolico e religioso. Dal punto di vista artistico, questa fase permette di isolare alcuni meccanismi cross-modali, alla base dei riti tradizionali, e di evidenziare il comune e ricorrente carattere comunitario dell'esperienza. A partire dall'individuazione di alcuni elementi fondamentali, il passaggio successivo consiste nello studio di modalità grazie alle quali trasporre alcune delle stimolazioni sensoriali osservate e il senso collettivo dell'esperienza in un'ambiente multimediale e in una pratica estetica, sottraendone il portato simbolico, componente dell'esperienza situata e strettamente connessa con le specificità culturali, storiche e sociali non riproducibili, imprescindibili dalla specificità del luogo, dalla popolazione e dal momento storico.

Nella seconda fase, avviene la trasposizione di quanto osservato e isolato in ambito antropologico, in una pratica di sperimentazione su differenti dispositivi e allestimenti, utili ad attivare processi di commistione tra sensi. A condurre il progetto con Salter, anche Maurizio Martinucci, in arte Tez, media artist italiano, di base ad Amsterdam, dove ha fondato nel 2009 l'Optofonica Media lab, laboratorio di sperimentazione su media sinestetici e sound spazialization. Parte della sua ricerca è dedicata in particolare alle proprietà della luce, alla stroboscopia e alle possibili relazioni percettive tra luce pulsante e onde binaurali. Da questi studi proviene, ad esempio, il live audiovisivo in real time PV868 (2008), direttamente ispirato alla Dream Machine di Brion Gysin.46

I due autori coinvolgono, inoltre, una serie di ricercatori, artisti e designer provenienti da campi molto eterogenei47 – media artist e media designer,

                                                                                                                                                                                                                                                                                         

art della Malmo University, Svezia, ottobre 2012, http://medea.mah.se/2012/10/medea-talks presents-chris-salter/, ultimo accesso 4 aprile 2013. Cfr. anche Bertolotti S., 2013.

46 La citazione è esplicita: PV868 è il numero di registrazione del brevetto della Dream Machine.

47 Il gruppo di lavoro comprende: Chris Salter, TeZ, direttori artistici; Harry Smoak light design; Caro Verbeek e Jorg Hempenius, olfactory design; David Szanto, gustatory design; Yolanda van Ede, interviste; Jonathan Reus, sound design; Bram Giebels, direzione tecnica.

antropologi, gastronomic designers, storici dell'arte specializzati in relazioni tra arte e sensi. Il team così composto realizza una serie di test su oggetti mediali, allestimenti, sintesi di sostanze edibili e odori, sistemi di luci, di raffreddamento e riscaldamento, indirizzate alla creazione di stimoli afferenti a categorie sensoriali molto al di là della categorizzazione in cinque canali. Vengono prese in considerazione, ad esempio, sensazioni ibride, non localizzabili in alcun specifico canale percettivo, quali: le percezioni dolorose e viscerali, che in parte richiamano una dimensione quasi aptica ma introiettiva; la propriocezione, che regola la consapevolezza della presenza del corpo nello spazio, determinando orientamento o disorientamento; la percezione del tempo, slegata e spesso molto diversa e soggettiva da quanto esperito attraverso strumenti di misurazione. Oltre alla qualità e tipologia di sensazioni viene messa a punto la loro progressione, il percorso esperienziale in forma di narrazione sensoria. Questa della modulazione delle sensazioni, la scrittura del percorso estetico in termini di partitura sensoriale è un modus operandi dei due autori che rimane un tratto costante del progetto, invariato nelle diverse versioni.

Un primo esempio di ambiente è Atmosphere (2010), per il quale l'attenzione si concentra principalmente nella messa a punto di sistemi di luci, fumo e suono come dimensione architettonica entro la quale inserire altre commistioni sensorie. A seguito degli esperimenti condotti nel corso dell'anno precedente e dei vari prototipi installati in laboratorio, nel 2011 prende il via la terza fase, costituita dalla messa a punto di un ambiente performativo multisensoriale, intitolato anch'esso Displace, un percorso tra diversi ambienti, corrispondenti ad altrettante situazioni sensorie cross-modali. Una versione prototipale è presentata tra il 16 e il 20 novembre 2011, nel corso del meeting annuale dell'AAA – American Anthropological Association, presso la Concordia University di Montreal. Essa prevede un percorso della durata fissa di 45 minuti, scandito dal passaggio in tre diversi ambienti, basati sul rimescolamento di elementi olfattivi, gustativi, tattili, insieme ai più classici stimoli luminosi e sonori e a sensazioni di calore, propriocezione, equilibrio. L'intera esperienza ha una