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Il percorso lungo e accidentato del partito

Nel documento Oltre il realismo politico di Simone Weil (pagine 120-125)

L’ANALISI DELL’OPPRESSIONE

4.2 L’oppressione statale

4.2.1 Il Manifesto per la soppressione dei partiti politici: teorizzazione di una democrazia apartitica

4.2.1.1 Il percorso lungo e accidentato del partito

Il malcontento per i partiti di cui Simone Weil si fa portavoce non rappresenta una novità. Esso è stato argomentato per secoli, prima confo ndendo le fazioni con i partiti, poi accusando i partiti di essere delle fazioni, e infine condannando i partiti in quanto tali227. I partiti, dunque, hanno sempre creato una sorta di ansia sociale per ragioni intrinseche alla loro natura: essi dividono il corpo sociale, creano passioni spesso incontenibili e portano a conflitti rovinosi. In Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (2012) Piero Ignazi definisce i partiti con le seguenti parole:

I partiti sono associazioni volontarie che hanno avuto storicamente la funzione di nominare dei rappresentanti alle assemblee deliberative, rappresentanti che rispondessero ai partiti che li avevano scelti e quindi, per logica transitiva, che rispondessero ai cittadini che li avevano votati228

.

Questa rispondenza comporta che i partiti devono portare nell’arena deliberativa le domande dei cittadini di cui si sono fatti carico e, al tempo stesso, rendere evidente a tutti il loro lavoro e il loro impegno. Nel lessico politico britannico si dice che, ad ogni elezione, il partito che va al governo riceve un mandato, esplicitato dal suo programma elettorale, e proprio in base a come realizza tale mandato esso è giudicato dall’elettorato229.

226 Weil S., Note sur la suppression générale des parties politiques, Éditions Gallimard, Paris 1957,

trad. it. Manifesto per la soppressione dei partiti politici, a cura di F. Regattin, Castelvecchi, Roma 2012, p. 18.

227 Ignazi P., Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti, Laterza, Roma-Bari 2012, p. VII. 228 Ivi, p. VIII. Cfr. Esposito R., Galli C., Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine,

Ed itori Laterza, Ro ma-Bari 2000, p. 516.

229

Le radici culturali dell’antica diffidenza verso i partiti si ritrovano già nello stesso termine “partito”, derivante dal verbo latino “partire” (separare, dividere), il cui sostantivo derivato è “pars”, che indica una “parte”, una “componente”.

Questa idea di parzialità di cui la parola “partito” è impregnata collima con l’imprinting originario alla base della civiltà occidentale, che esalta l’unità contro la divisione: nell’antica Grecia il fondamento del vivere comune e, per esteso, della politica, è considerato l’unità armoniosa. I filosofi greci, infatti, vanno alla ricerca dell’eraclitea unità dei contrari, di un modo per superare le contrapposizioni e riportare il divenire ad una superiore armonia230.

Pertanto, nel passato, il partito ha dovuto affrontare importanti ostacoli culturali e politici per acquisire una sua legittimità.

La Roma repubblicana e imperiale è popolata da fazioni in lo tta costante tra di loro. Nel periodo delle città-repubbliche queste si espandono a macchia d’olio con violenza devastante, tanto da diventare un potente simbolo negativo nei secoli a venire: pensiamo a guelfi contro ghibellini, bianchi contro neri, popolani contro magnati e via di seguito. Proprio a causa delle divisioni interne alle città-repubbliche, la pace e l’unità vanno perdute e nel XIV secolo si registra l’avvento delle signorie. Dal 1500 in poi la cultura politica europea associa il termine “partito” a quello di fazione, intendendolo come l’azione di un gruppo, portatore di interessi di parte ed inconciliabile con la realizzazione del bene della repubblica. Questa idea, contenuta nel pensiero di Platone, di Aristotele e di San Tommaso, viene ripresa dalla concezione filosofica del Rinascimento per condannare ogni tipo di azione da parte di un gruppo in quanto ostacolo al raggiungimento del bonum commune e, quindi espressione di un interesse particolare opposto alla realizzazione del benessere della collettività231. Siamo ben lungi, quindi, da una visione innocua delle fazioni e dei partiti.

Per giungere ad un’accettazione positiva del partito bisogna aspettare la metà del XVIII secolo, quando affiora l’idea che una pars, un partito, possa essere accettabile. Nell’Inghilterra di metà Settecento Edmund Burke232, pur tra mille cautele, riconosce che i partiti sono honorable connections e possono fondarsi su dei principi, non solo

230

Ivi, p. 3.

231 Ivi, pp. 516-518.

232 Ed mund Bu rke (1729-1797), politico, filosofo e scrittore britannico di origine irlandese, fondatore

della rivista politica Annual register. Nel 1765 Burke entra nel Parlamento britannico, venendo eletto alla Camera dei Co muni, co me membro del partito Whig, ovvero dei liberali, avversari dei To ries

su interessi particolari come il denaro e la sete di potere. In Pensieri sulle cause del malcontento attuale (1770) Burke definisce il partito come «un gruppo di uomini uniti per promuovere mediante i loro sforzi congiunti l’interesse nazionale sulla base di un principio specifico sul quale sono tutti d’accordo», ponendo di fatto le basi per una valutazione dei partiti come istituzioni rappresentative necessarie di intermediazione tra popolo, parlamento e governo.

Si comincia così ad accettare un tipo di partito in grado di andare oltre gli interessi particolari implicitamente connessi ad uno spirito di fazione e, addirittura, si riconosce la possibilità che vi possa essere anche più di un partito in competizione con gli altri, purché siano tutti animati da uno spirito comune volto a perseguire il bene collettivo233.

Nonostante ciò, i partiti sono ancora lontani dal guadagnare un riconoscimento universale e senza contrasti: anche nelle due grandi rivoluzioni di fine Settecento – quali la Rivoluzione francese e la Rivoluzione americana – che, in quanto espressioni di uno stesso impulso alla libertà avrebbero dovuto portare come corollario la piena legittimazione dei partiti, i sospetti sul loro carattere distruttivo e pernicioso hanno la meglio sul valore della libera associazione.

I rivoluzionari francesi hanno troppo in dispetto i “corpi intermedi” dell’ancien régime per pensare che tra il cittadino (l’individuo) e lo Stato possa frapporsi di nuovo un’entità collettiva, quale sarebbe il partito. Pertanto tutta la loro lotta per affermare il principio della libertà e, soprattutto, della rappresentanza individuale non gli consente di accettare un organismo che filtri il volere del popolo. Eppure, è proprio una contraddizione insita nel pensiero rivoluzionario a salvare il partito. I rivoluzionari francesi, infatti, osteggiano il partito per timore della sua forza disgregante del bene comune e perché offusca il principio della rappresentanza individuale ma, avendo proclamato i diritti individuali come principi universali, non possono spingersi fino a condannare in toto le libere associazioni. Il décret n.62 dell’Assemblea nazionale, emanato il 17 dicembre 1789, consente, infatti, che «i cittadini possono incontrarsi liberamente e senza armi» per elaborare petizioni e richieste, e quello successivo del 13-19 novembre 1790 autorizza la costituzione di libere società.

(conservatori). È ricordato soprattutto per il suo sostegno alla lotta cond otta dalle colonie americane contro re Giorgio III – nonostante sia contrario alla loro indipendenza – e per l’opposizione alla Rivoluzione francese con l’opera Riflessioni sulla rivoluzione in Francia (1790).

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È così che, proprio nel periodo rivoluzionario, nascono «i primi embrioni di partiti politici moderni»234 e la politica partitica conosce un immediato e travolgente sviluppo. Nonostante l’opposizione teorica alla divisione, i rivoluzionari procedono spediti ad organizzare le loro fila: in tre anni i club giacobini e le varie associazioni politiche si diffondono da Parigi in tutta la Francia e arrivano ad essere presenti in quasi tutte le località classificate all’epoca come centri urbani, circa 5.500.

Tuttavia, un passo indietro viene compiuto dai contro-rivoluzionari, che seppelliscono definitivamente la perniciosa idea che si possa dividere la comunità e ritornano ad una concezione teocratica del potere, incardinata sui concetti di armonia, unità organica e legittimazione sovrannaturale.

De Maistre ritiene, infatti, che la “buona società” non possa ricomprendere il conflitto perché la volontà generale non è un costrutto umano, bensì promana da una legittimazione dal volere divino. La “buona società” è organica e gerarchica e in essa ognuno ha il proprio posto desunto dalla tradizione, la quale non fa altro che rispecchiare il volere divino. Il potere, secondo De Maistre, trascende ogni intervento umano ed è unico e indivisibile. Qualsiasi forma di associazione partitica è così rigettata235.

A cavallo tra Ottocento e Novecento il partito si trova stretto tra due nuovi potentissimi nemici, la nazione e lo Stato. Ancora una volta l’ostilità al partito deriva dal suo connotato “particolaristico” e dalla sua potenza divisiva. L’esaltazione della nazione sia in Germania che in Francia deprime il ruolo dell’individuo, che ha l’unico compito di fondersi con la collettività e di accettare il proprio naturale attaccamento alla madrepatria. Charles Maurras (1868-1952) parla dei partiti identificandoli con i nemici della nazione e definendoli “spiriti faziosi”. Con questa espressione Maurras si riferisce in particolare ad ebrei, protestanti, massoni e internazionalisti, colpevoli a suo parere di non riconoscersi nella nazione e di volerla dividere236.

Bisogna aspettare la fine del secolo affinché il partito conquisti faticosamente legittimità attraverso due percorsi diversi. Il primo è costituito dalla via parlamentare, cioè dall’aggregazione di eletti che, riconoscendosi progressivamente come portatori di opinioni ed interessi identici, danno vita dall’interno delle assemblee

234 Ibidem. 235 Ivi, pp. 9-11. 236

rappresentative ai cosiddetti “partiti di notabili”237, forme di partito dai contorni fluidi e, dunque, deboli dal punto di vista della struttura organizzativa e delle competenze politiche.

L’altro percorso con cui il partito conquista legittimità, invece, passa per la società e vede come protagonisti i partiti di massa che, sulla spinta dei rivoluzionari francesi e in particolare dei giacobini, si fanno interpreti autentici di interessi generali e non settoriali e – a differenza dei partiti di notabili accessibili a pochi eletti – sono aperti a tutti.

Agli anni Venti seguono gli anni dei totalitarismi durante i quali il partito assume su di sé l’interezza delle funzioni dello Stato. Si tratta di un vero paradosso, in quanto il partito politico viene issato al centro della scena proprio quando viene cancellato il pluripartitismo – nel 1942 sono solo quattro i paesi europei democratici, cioè Gran Bretagna, Irlanda, Svezia e Svizzera. Sia a destra con i fascismi, sia a sinistra con il comunismo, le funzioni dello Stato sono riassunte e rappresentate dai nuovi partiti totalitari, che esercitano un controllo monopolistico sulla politica e sulla società.

Il partito totalitario espande ed esaspera le caratteristiche dei partiti di massa d’inizio secolo. Esso punta ad un reclutamento di massa, alternando però periodi di espansione con periodi di maggiore selettività, tanto da fare dell’appartenenza formale al partito un titolo di merito238.

Alla fine del Novecento il modello del partito di massa s’impone a tutte le formazioni politiche. Il suo lascito più importante fatto proprio dai mass party di oggi è una tipica apertura, da cui derivano due caratteristiche organizzative tuttora valide nei partiti: l’iscrizione formale al partito come segno “concreto” di appartenenza e l’istituzione della sezione, intesa come una sede fisica d’incontro accessibile ai membri. Questa impostazione ribalta il mondo chiuso dei club e dei salon frequentabili solo grazie al proprio status sociale privilegiato. L’organizzazione territoriale dei nuovi partiti riflette un cambio di prospettiva e di dimensione: dai pochi ai molti, dalla selezione all’apertura, dall’esclusione all’inclusione239.

237 L’espressione “partiti di notabili” è del sociologo ed economista Max Weber (1864 -1920). Ne La politica come professione (Politik als Beruf), un saggio nato dalla conferenza o monima tenuta nel

1919, Weber elabora la celebre distinzione tra partiti d i notabili e partiti d i massa. Questi ultimi sono strutture permanenti e burocratizzate in cui i notabili non ci sono più: al loro posto ci sono funzionari, professionisti nell’ambito della politica.

238 Ignazi P., Forza senza legittimità, cit., p. 19. 239

Eppure, la diffidenza verso il partito permane tuttora e si manifesta in varie direzioni: attraverso la non partecipazione alle elezioni, attraverso il voto a formazioni anti- sistema, attraverso il distacco dai partiti e il disinteresse per le loro iniziative, attraverso l’espressione di sentimenti negativi nei loro confronti. Di fronte all’atomizzazione della società post-industriale i partiti hanno reagito costruendo un ambiente privilegiato e separato dai cittadini, fatto di funzioni pubbliche, ricchezze e privilegi che hanno concentrato su di sé al caro prezzo della perdita di stima, consenso e partecipazione240.

4.2.1.2 Il partito come struttura burocratica da abolire e l’attualità del

Nel documento Oltre il realismo politico di Simone Weil (pagine 120-125)