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Venise sauvée (1940)

Nel documento Oltre il realismo politico di Simone Weil (pagine 98-102)

ANALISI E RICOSTRUZIONE DEL REALISMO POLITICO

3.1 La genesi della categoria della forza

3.1.7 Venise sauvée (1940)

La teorizzazione della forza quale categoria interpretativa della politica viene portata a compimento da Simone Weil nell’abbozzo di tragedia Venise sauvée del 1940 e ne L’Iliade ou le poème de la force del 1941.

Venise sauvée è una tragedia in tre atti che Weil redige dopo la lettura della Conjuration des Espagnols contre la République de Venise en l’année M. DC. XVIII (1674), opera in cui César Vichard de Saint-Réal racconta la congiura ordita ai danni di Venezia tra il 1617 ed il 1618 dall’ambasciatore spagnolo, il marchese di Bedmar, allo scopo di abbattere il governo locale ed imporre il dominio spagnolo sulla Serenissima173.

Colpita dallo scritto dell’abate di Saint-Réal, Weil inizia a coltivare il progetto di una tragedia che rilegga questa pagina della storia veneziana. Nonostante l’opera rimanga, purtroppo, incompiuta, i lavori sono febbrili, tanto che la filosofa, durante il periodo a Londra, chiede di farsi spedire i suoi appunti su questa congiura che l’aveva tanto affascinata e che erano rimasti in Francia.

A livello narrativo, nella tragedia scritta da Weil nel 1940, il complotto ordito dal marchese di Bedmar è affidato per l’esecuzione a tre personaggi: Renaud, gentiluomo francese; Pierre, pirata provenzale, capitano e marinaio di fama; e Jaffier, capitano di vascello.

La tragedia ruota attorno alla contrapposizione tra Renaud, uomo ossessionato dal desiderio di potenza, e Jaffier, responsabile del fallimento della congiura. A fare da cornice la città di Venezia che, pur restando sullo sfondo, svolge un ruolo di primo

172 Riecheggia qui il pensiero di Machiavelli che nel Principe spiega come ogni capo politico sia

perennemente tormentato da due paure, l’una interna e l’altra esterna: la paura dell’altro come sottomesso-escluso dal potere e la paura dell’altro co me straniero-nemico. A queste si aggiunge la paura del popolo di perdere i propri priv ileg i o la libertà [Machiavelli N., Il principe, cit., c. XIX, p. 90].

173 La congiura, meglio nota come “congiura di Bed mar”, o ltre a rivelarsi fallimentare, si c onclude

piano nello svolgimento della narrazione. È proprio per la sua bellezza, infatti, che Jaffier decide di risparmiarla denunciando la congiura.

Venezia è, perciò, salva grazie al sacrificio di Jaffier che rinnega la propria patria – rappresentata dall’ambasciatore di Spagna a Venezia – ed inganna i suoi compagni congiurati – ivi compreso il migliore amico Pierre, il quale gli aveva ceduto la carica di “capo” nella preparazione del colpo di Stato.

Jaffier spezza, perciò, il corso della necessità infrangendo il sogno della forza rappresentato da Renaud. Quest’ultimo costituisce la personificazione della brama di dominio, che Weil descrive attraverso i numerosi discorsi tenuti dal gentiluomo francese, di cui un esempio è il seguente:

Chi son’essi, chi sono, per avermi rubato il destino, La parte che mi spetta della potenza e della gloria? Io, dall’ingegno che seppe levarsi come un’aquila, E scorgendo la greggia di quelli nati a servire Concepì il mezzo di dominare i popoli di lontano; Io, che volevo essere il favorito del re di Spagna, Farmi sotto il suo nome signore del mondo cristiano, Conquistare l’Oriente, comandare all’intera terra; Dovrò morire qui? Non avrò dunque mai vissuto! Non vissi mai, poiché non ho mai governato. Non è possibile, prima di morire bisogna vivere. Mi uccideranno là, nella prigione, avanti giorno; Mai più, dunque, mai più potrò regnare! 174

In questo estratto Renaud è nudo, spogliato della ragion di Stato. Egli prova orribile amarezza, non per una morte imminente, ma perché vede ogni speranza di potenza, di fortuna e di gloria andare in fumo. Svela le sue ambizioni: la riuscita della congiura doveva procurargli un’alta carica alla corte di Spagna, ed egli sperava, con la sua abilità, di diventare a poco a poco il favorito del re e il padrone di tutte le terre sottomesse alla corona di Spagna.

La brama di dominio acceca chiunque creda di governarla e, come Renaud, finisce per confondere la volontà di potenza e la ragion di Stato con l’esistenza stessa. Jaffier, al contrario, prova rammarico per aver tradito Pierre e gli altri compagni ma il rimorso stesso lo allontana dalla realtà e lo fa cadere nello stesso sogno da cui ha salvato Venezia. Jaffier, infatti, si sente un traditore e percipsce tutto ciò che lo circonda come sporco ed infetto, tant’è che anche Venezia, prima bellissima, adesso gli appare detestabile. Quel rimorso e orrore di sé che per eccellenza converrebbe al

174 Weil S., Venise sauvée, Éditions Gallimard, Paris 1968, trad. it. Venezia salva, a cura di C. Campo,

criminale è sentito dalla vittima, traditore non solo agli occhi altrui, ma anche ai propri occhi175.

In Venise sauvée Weil mostra la realtà effettuale della politica in tutta la sua durezza. È importante sottolineare che Jaffier aveva deciso di salvare Venezia convinto che il Consiglio dei Dieci avrebbe risparmiato la vita dei suoi amici congiurati. La città, però, è dominata dalla ragion di Stato e, perciò, si difende dal complotto esattamente con la stessa tecnica politica con cui la si voleva conquistare: l’impiego della forza. Dal momento che nella storia mai una città fu preservata dalla pietà del nemico, anche Venezia “ha visibile cura di sterminare i suoi nemici”176: i Dieci non manterranno la promessa perché è la ragion di Stato ad imporre e a rendere necessaria questa misura177; la forza, scrive la filosofa, è «muta»178, il suo esercizio è cieco e non ha bisogno di giustificazioni.

In Venise sauvée Weil denuncia ancora una volta il meccanismo paradossale con cui l’“irrealtà” della forza governa realmente i rapporti tra gli uomini attraverso espedienti diversi. Primo fra tutti il ricorso, anche soltanto potenziale, alle armi, che «rendono il sogno più forte della realtà»179 e costringono i vinti a vivere il sogno dei dominatori.

Si, noi sogniamo [a parlare è Renaud] Gli uomini d’azione e d’avventura sono dei sognatori; preferiscono il sogno alla realtà. Ma con le armi essi costringono gli altri a sognare i loro sogni. Il vincitore vive il proprio sogno, il vinto vive il sogno altrui180.

Il riconoscimento dell’importanza preminente del potere militare nelle relazioni politiche costituisce uno dei leitmotiv del programma realista.

La forza delle armi si trova, infatti, al cuore delle prescrizioni forniteci da Machiavelli, sia per la sua importanza in sé, sia per la sua capacità di potenziare atri strumenti dello Stato quali la legge.

Educando i principi a mantenere l’ordine politico, Machiavelli afferma che i «principali fondamenti che abbino tutti li stati […] sono le buone legge e le buone

175 Ivi, p. 91. 176

Ivi, p. 99.

177 Ivi, p. 83.

178 Emblematico il fatto che Jaffier, appurando che i Dieci non manterranno la pro messa, imp lori

nuovamente il Segretario di Stato con queste parole: «Un tempo mi si udiva, se parlavo ottenevo risposta, / La mia paro la portava tra gli uomin i il mio volere. / Ero io stesso un uomo. / E ora, co me una bestia, / Nel mio più g rande bisogno la mia voce non si fa intendere». [Ivi, p.91].

179 Basti pensare che gli stessi congiurati sono vittime del loro sogno ed ammettono di non riconoscere

mai, durante un sacco, gli amici de lla vigilia che implorano di risparmiarli il gio rno dopo.

180

arme»181. Queste ultime risultano ancora più importanti delle prime, visto che «non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge»182. Forza e coercizione sono quindi centrali per il mantenimento dell’ordine e, data la loro importanza, il principe saggio «debbe adunque […] non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si espetta a chi comanda»183. Ciò implica, afferma Machiavelli continuando, che il principe deve sempre rifiutare eserciti ausiliari e mercenari: «Senza avere arme proprie, nessuno principato è sicuro; anzi è tutto obligato alla fortuna, non avendo virtù che nelle avversità lo difenda»184. Eserciti forti sono, perciò, fondamentali per l’ordine politico in quanto producono accordo all’interno dello Stato e sicurezza al suo esterno.

Weil riprende questa lezione da Machiavelli e ci ricorda che il valore maggiore accordato al potere militare rispetto ad altri princìpi mitiganti è esacerbato continuamente dalla natura polemica dell’arena politica, in cui ogni forza egemonica tenta di prendere il posto dell’altra e viene attirata in conflitti con terzi che danno l’opportunità a Stati più piccoli di irretirla in alleanze mirate a risolvere la loro stessa lotta per la sicurezza.

Questi processi, che si ripresentano con insistenza negli scritti weiliani tra il 1937 e il 1941, danno l’opportunità all’autrice di rimarcare il ruolo della necessità, in base alla quale le entità politiche assumono un comportamento detestab ile per ragioni che vanno al di là del loro controllo. Anche nella Guerra del Peloponneso del resto, opera con cui è Weil è in aperto dialogo, l’impero ateniese, una volta impostosi, viene considerato la maggior causa di assassinio e devastazione della guerra, mentre si guarda alla costrizione della necessità storica come ciò che impone l’impero.

Il mancato riconoscimento di questa logica, essenziale alla comprensione della realtà effettuale della politica, è pericoloso in tempi ottimali e può essere fatale quando ci si trova di fronte alla guerra imminente, dal momento che la politica, nella sua più intima essenza, è sempre polemos, guerra, conflitto.

181 Machiavelli N., Il principe, cit., c. XII, p 57. 182 Ibidem.

183 Machiavelli N., Il principe, cit., c. XIV, pp. 70-71. 184

Nel documento Oltre il realismo politico di Simone Weil (pagine 98-102)