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Dal realis mo classico a Morgenthau

Nel documento Oltre il realismo politico di Simone Weil (pagine 60-67)

ANALISI E RICOSTRUZIONE DEL REALISMO POLITICO

2.1 Identità e sviluppi del realis mo politico tradizionale

2.1.3 Dal realis mo classico a Morgenthau

Il passaggio dal realismo classico al realismo contemporaneo è segnato dai contributi di vari realisti, fra i quali spiccano Thomas Hobbes e Max Weber.

Nell’elaborazione della filosofia politica di Hobbes un ruolo considerevole è rivestito da Tucidide, padre del realismo politico occidentale.

Come quest’ultimo, Hobbes si interessa alla Guerra del Peloponneso, tanto da dedicare anni alla sua traduzione, pubblicata nel 1629 con il titolo di The History of the Grecian War, written by Thucydides, translated by Thomas Hobbes of Malmesbury (1629).

Tucidide rappresenta, agli occhi di Hobbes, lo storico ideale, colui che narra gli eventi di cui è stato testimone rimanendo neutrale. Nella traduzione di Tucidide del 1629 si evince già chiaramente lo stretto legame di Hobbes con il realismo politico tucidideo, che rimane costante in tutta la produzione successiva.

Hobbes condivide gli assunti principali del realismo politico di Tucidide: la concezione pessimistica della natura umana, la scissione tra politica e morale, i concetti di potenza e sicurezza alla luce dei quali entrambi gli autori svolgono le proprie analisi politiche, una visione ciclica della storia che postula una natura umana immutabile identificabile con il rapporto tra gli Stati da un lato, e con la guerra civile dall’altro86.

La guerra del Peloponneso suscita interesse in Hobbes proprio perché fornisce la descrizione della distruzione di una civiltà attraverso la guerra esterna, la guerra civile e la peste. Per Hobbes la storia non è una scienza, ma uno strumento utile per la politica, in quanto permette di analizzare i comportamenti umani. Tucidide, “lo storiografo più politico che abbia mai scritto”87, capisce che la guerra è sempre connessa alla patologia della stasis: la guerra interna, contenibile in tempo di pace, diventa un fenomeno incontrollabile durante la guerra esterna.

Per Tucidide gli uomini non sono cattivi, ma dominati da passioni che li inducono a distruggere la comunità a cui appartengono e anche ad autodistruggersi. La descrizione dello stato di natura come una condizione miserevole di guerra di tutti contro tutti, dove l’uomo, da homo homini lupus, deve sempre pensare a difendersi e girare armato, perché non esiste alcuna sicurezza, né lavoro, né commercio, né benessere, né arte, né cultura viene ripresa da Hobbes direttamente da Tucidide.

86 Co li D., Tucidide, Hobbes e il realismo anglo-americano, in Campi A., De Luca S., (a cura di), Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di ricerca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp.

139-141.

87 Hobbes T., Of the Life and History of Thucydides, in Id., The History of the Grecian War, written by Thucydides, translated by Thomas Hobbes o f Malmesbury (1629), in The English Works of Thomas Hobbes of Malmesbury, now fearst collected and edited by William Molesworth , London 1839, vol.

Ancora più interessante è il concetto hobbesiano di mortalità degli Stati teorizzato dal filosofo inglese nel capitolo XXIX del Leviatano a partire dall’immagine tucididea della dissoluzione del corpo fisico della società ateniese, aggredita nel 430-429 a.C. dalla peste che aveva causato migliaia di morti, e dalla guerra civile, che ne aveva distrutto il corpo politico.

Gli Stati, come i corpi, sono mortali e possono essere affetti da malattie interne. Perciò, quando essi non sono dissolti dalla guerra esterna, possono essere distrutti dalla guerra interna se il potere è debole e frammentato.

Come un corpo, lo Stato rischia l’estinzione per la nascita di conflitti interni, sempre sostenuti, secondo Hobbes, da nemici esterni. La guerra interna è per il filosofo inglese un fenomeno proprio della natura umana, che facilmente produce alleanze con stati vicini e conduce alla guerra esterna. Conflitto interno ed esterno sono una predisposizione innata ed immodificabile della natura umana88.

Teorico della razionalità strumentale, Hobbes ritiene che la ragione sia ratio, calcolo, e che gli uomini usino la ragione per calcolare i mezzi per raggiungere qualsiasi obiettivo, compresi quelli delle loro passioni.

I valori sono, per Hobbes, creazioni individuali non universali. Il concetto di giusto- ingiusto fornisce al filosofo un valido esempio: il valore di giustizia non è universale, ma ha a che fare con la politica e le relative passioni individuali.

Negli Elements of Law Natural and Politic del 1640, in polemica con l’Etica Nicomachea di Aristotele, Hobbes è chiaro: «Ogni uomo dal canto suo, chiama ciò che gli piace ed è per lui, bene; e male ciò che gli dispiace».

Per Hobbes non esiste quindi alcun bene assoluto al quale tende l’appetito razionale. Gli uomini sono continuamente in competizione per l’onore e la dignità e da qui nasce l’invidia, l’odio, e infine, la guerra. Inoltre, come afferma nel capitolo XIX del Leviatano, la felicità per ogni individuo è desiderare e il desiderio umano non si esaurisce nel raggiungimento di un oggetto desiderato, ma deve assicurarsi di essere sempre alimentato per continuare perpetuamente a desiderare.

Analogamente, il desiderio senza tregua di un potere dopo l’altro è un’inclinazione generale di tutta l’umanità, generata o dal desiderio di una gioia più intensa di quella conseguita, o dall’assicurarsi il potere e i mezzi per vivere bene e conservarli nel tempo. Perciò, il problema principale dell’uomo non è soltanto

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acquisire potere, ma mantenerlo, fattore che lo obbliga a porsi sempre nuovi obiettivi da raggiungere89.

Come spiega Hobbes nel Leviatano, allo stato di natura l’uomo è caratterizzato da due pulsioni estreme: da un lato il desiderio di potere e, dall’altro, la paura della morte. Il passaggio dallo stato di natura allo Stato di diritto avviene grazie alla ragione, che pone l’uomo di fronte al dilemma di scegliere tra un potere illimitato e la paura di essere ucciso. Neanche il più forte, infatti, può dirsi “sicuro” nello stato di natura, in quanto può essere ucciso dai più deboli che si alleano contro di lui o venir tratto in inganno mentre dorme. Di fronte alla paura della morte, l’uomo decide così di delegare i propri poteri alla sovranità che, attraverso il contratto, gli promette sicurezza e benessere.

Tuttavia, entrando nello Stato, l’uomo hobbesiano non cambia natura e questo produce conflitti, come la guerra interna e quella esterna. È per questo motivo che lo Stato, in quanto corpo mortale, deve essere difeso da tutte le malattie che possono provocarne la dissoluzione.

A tale scopo, come prima misura, Hobbes propone l’istituzione di eserciti professionali in modo da disarmare i cittadini. È riscontrabile a questo proposito una differenza fondamentale tra il filosofo inglese e Machiavelli, il quale, nei Discorsi, sottolinea la necessità per uno Stato di mantenere i cittadini armati al fine di avere un esercito sempre pronto alla guerra come nell’antica Roma. Al contrario, per Hobbes, il cardine della sicurezza e della prosperità di ogni Stato è la pace interna, che può essere raggiunta solo con la disarma dei cittadini. La pace internazionale è, invece, impossibile.

Nel capitolo XIII del Leviatano Hobbes spiega come gli Stati vivano fra loro in una condizione di guerra perpetua. La guerra è un fenomeno che non consiste solo nella battaglia o nell’atto di combattere, ma in un fenomeno naturale simile a quello delle condizioni atmosferiche. Per questo – spiega Hobbes – «il cattivo tempo non consiste in uno o due temporali, ma nell’inclinazione alla pioggia di vari giorni». Analogamente, l’inclinazione umana al conflitto non consiste nella guerra, ma nella disposizione ad essa quando la pace non è assicurata90.

Nel capitolo XIV del Leviatano, riflettendo sulla legge naturale e i contratti, Hobbes afferma che per il diritto naturale ogni uomo è libero di usare quanto in suo

89 Ivi, p. 147. 90

potere allo scopo di preservare la propria vita e, poiché lo stato di natura è una condizione di guerra in cui ogni uomo è contro l’altro, ne segue che per preservare la propria vita ognuno ha diritto a fare qualsiasi cosa, anche ad uccidere. È in questo modo che Hobbes teorizza la necessità di uscire dallo stato di natura e stipulare il contratto. Il bisogno che il potere sia sostenuto dalle leggi è palese nel capitolo XX, in cui Hobbes considera pericoloso per uno Stato fondare la sua sovranità esclusivamente su uno scontro militare e affermare diritti di conquista senza il consenso della nazione sconfitta91.

La teoria realista delle relazioni internazionali di Hobbes può essere assimilata a quella di Benedetto Croce (1866-1952), che sviluppa una concezione della guerra simile a quella di Hobbes.

Secondo Croce, la storia dimostra che gli Stati sono perpetuamente in lotta per la sopravvivenza ed uno dei casi più acuti di questa lotta e ciò che più comunemente chiamiamo “guerra”. Quest’ultima costituisce per Croce un fenomeno de l tutto naturale, idea che fa di lui un lucido realista e che determina la sua opposizione alla Società delle nazioni e all’Onu.

Pur auspicando nel 1932 un’unione europea contro i nazionalismi che minacciano di distruggere l’Europa, Croce rimane sempre un realista politico. Politica e morale sono due sfere che in tutta la sua riflessione rimangono ben distanti, come testimoniano queste righe scritte nel suo diario il 4 ottobre 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale:

Stanotte mi sono svegliato poco dopo le tre e non ho potuto ripigliare sonno. Sono stato a rimuginare la guerra, il diritto internazionale e altri concetti affini, cercando sotto la stretta della terribile passione di questi giorni la parte da condannare moralmente, ma la conclusione è stata che la guerra non si giudica né moralmente, giuridicamente, è che quando c’è la guerra, non c’è altra possibilità né altro dovere che cercare di vincerla92.

L’idea di un’antinomia indissolubile tra politica e morale gli è già del tutto chiara nel 1912 quando, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, sostiene la correttezza della realpolitik tedesca, cosciente che le guerre si fanno per aumentare la potenza e non per principi morali.

Come la maggior parte dei realisti – e in linea con Simone Weil – Croce è critico dei principi della rivoluzione francese, che considera astratti e non applicabili alla guerra

91 Ivi, pp. 146-151. 92

tra gli Stati. Dietro questa posizione si nasconde una concezione dei rapporti internazionali del tutto simile a quella di Hobbes, il cui perno resta la sovranità degli Stati nazionali.

Infine, nella ricostruzione del passaggio dal realismo politico tradizionale a quello contemporaneo, degno di nota è il pensiero realista di Weber, che s’inserisce nel contesto della sua prospettiva sociologica e si presenta come il prodotto dell’interrogazione del filosofo tedesco sulla razionalità moderna.

Weber pone al centro del fenomeno politico la lotta per la potenza. Nell’epoca dei nazionalismi e degli imperialismi, Weber riconosce che la potenza nazionale è funzionale al fine più alto di conservare e promuovere beni di cultura che costituiscono l’eredità spirituale della nazione. La nazione, con la sua politica di potenza, è il solo regime politico che, agli occhi di Weber, garantisce la coltivazione e lo sviluppo delle qualità umane e degli ideali a esse connessi.

Tuttavia, in questa lotta per la potenza, la posta in gioco è il destino degli uomini. È per questo motivo che il realismo di Weber è caratterizzato da una forte ispirazione antropologica tesa a ricostruire il significato culturale del presente in cui l’uomo vive ed è immerso 93.

Il realismo di Weber esplode per la prima volta solennemente nella Prolusione di Friburgo del 1895 quando, chiamato a presentare la sua prospettiva accademica, Weber prende posizione contro una diffusa concezione della politica economica che impediva di interrogarsi sul destino spirituale dell’umanità.

Secondo Weber il mutamento dei processi economici e sociali deve essere misurato in base alle qualità umane. Il problema è che nelle scienze sociali del suo tempo e nella politica economica che si trova a insegnare, interessarsi al destino spirituale e agli effetti sulle qualità umane degli ordinamenti sociali suona inattuale. Le scienze avevano imboccato la direzione dello specialismo e Weber si trova davanti al problema di come rimanere scientificamente rigoroso senza essere cieco rispetto alla questione del destino spirituale dell’uomo (opzione positivista), e di come porre tale questione senza risolverla nel normativismo materialista (opzione marxiana)94.

Il filosofo tedesco tenta di trovare una risposta a questo dilemma in due opere, prima nel saggio L’”Oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della

93 Silla C., «Non come si troveranno gli uomini del futuro, bensì come saranno…». Il “realismo politico” di Weber tra problematica antropologica e tragicità del moderno, in Campi A., De Luca S.,

(a cura di), Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di ricerca, cit., pp. 153-157.

94

politica sociale (1904), e poi, più compiutamente, nel saggio Il senso della avalutatività delle scienze sociologiche ed economiche (1917).

Nel primo saggio metodologico la questione è posta nei termini del superamento della visione dell’economia politica come scienza etica su base empirica, vale a dire fondata su giudizi di valore oggettivamente validi fatti derivare da una specifica concezione economica del mondo. Questo modo di intendere l’economia politica, spiega Weber, scambia l’evidenza – cioè la concordia nell’identificare il fine ultimo della politica economica e sociale nel miglioramento del benessere materiale degli uomini – con la verità.

L’opzione metodologica che non consente di cadere in tale errore è quella che, nella trattazione scientifica di temi politico-economici e sociali, articola in maniera feconda significatività personale e oggettività scientifica95.

La domanda per Weber è come si possono trattare scientificamente i giudizi di valore. A questo proposito, individua tre possibili considerazioni scientifiche dei giudizi di valore.

Innanzitutto essi possono essere analizzati dal punto di vista dell’appropriatezza dei mezzi rispetto allo scopo. In secondo luogo, è possibile individuare le conseguenze che derivano dall’utilizzo dei mezzi appropriati e dal raggiungimento dello scopo prefisso. Infine, è possibile far emergere e chiarire logicamente le idee che stanno a fondamento dei giudizi di valore e degli scopi ad esso inerenti.

Mentre i primi due modi di considerare i giudizi di valore sono obiettivi di legittima pertinenza della scienza empirica, il terzo ricade nell’ambito della filosofia sociale. Weber arriva in questo modo dritto al cuore del problema: come sottrarre al razionalismo scientifico la decisione sulle questioni ultime relative al senso dell’esistenza e ai beni da conservare e promuovere nella vita comune.

La razionalità moderna secondo Weber produce una disgiunzione tra l’uomo come parte della realtà e la realtà stessa. L’uomo moderno staccandosi dalla realtà, s’innalza a signore della realtà e, in questo modo costruisce il significato della realtà ponendolo con un atto di signoria. Ecco perché si può pensare la realtà come una costruzione sociale.

Del tutto in linea con gli scritti di Simone Weil sulla scienza, per Weber il compito più urgente del nostro tempo è quello di ristabilire la realtà nella sua

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interezza. Avendo compreso il potenziale tirannico della scienza empirica moderna – della sua oggettività – il filosofo tedesco tenta di delimitarne precisamente possibilità e scopo. La scienza moderna attraverso l’illusione del controllo ha infatti precluso agli uomini ogni accesso a quel livello della realtà non empiricamente rile vabile, eppure veramente umano.

Weber propone quindi una redistribuzione delle mansioni: il compito della scienza empirica è di occuparsi dei mezzi e delle causazioni adeguate, mentre il dovere della filosofia è d’interrogarsi sui fini, sui motivi e sulle ragioni dell’agire. Weber è convinto che una prospettiva davvero realista sulla politica e sulla realtà non possa fare a meno della guida della filosofia, oltre che della strumentazione della scienza empirica. Analogamente ogni scienza empirica richiede il ricorso all’interrogazione filosofica a patto di non essere disposta a una perdita della realtà96.

Nel documento Oltre il realismo politico di Simone Weil (pagine 60-67)