L’ANALISI DELL’OPPRESSIONE
4.2 L’oppressione statale
4.2.1 Il Manifesto per la soppressione dei partiti politici: teorizzazione di una democrazia apartitica
4.2.1.2 Il partito come struttura burocratica da abolire e l’attualità del Manifesto di Simone Weil
Con profonda lungimiranza, nel Manifesto per la soppressione dei partiti politici (1950), Simone Weil denuncia l’illegittimità di tutti i partiti politici, i quali, a suo parere, costituiscono delle strutture permanenti e burocratizzate da abolire. Il suo progetto di suppression è da applicarsi a tutti i partiti politici ed è il risultato di una lunga impresa di disinganno collettivo condotta senza il ricorso alla violenza. L’esito di questa operazione deve essere la vittoria dell’azione del pensiero sul regno dell’opinione241, lo sviluppo nel singolo di un senso critico che gli consenta di non soffocare nel collettivo burocratizzato del partito.
Simone Weil identifica nel partito tre caratteristiche peculiari: passione, pressione collettiva, auto-crescita a dismisura. Scrive Weil nel suo Manifesto:
Un partito politico è «una macchina per fabbricare passione collettiva, […] un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte. […] Il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite»242.
240 Ivi, pp. XIV-XV. È così che i partiti, come scrive Ignazi, si sono ridotti a Leviatani claudicanti240,
colossi dai pied i di argilla che hanno ormai perso leg ittimità, fondando il loro potere sulla sabbia
241 Weil S., Note sur la suppression générale des parties politiques, cit., p. 7. 242
Sulla base di queste «tre verità di fatto»243 Simone Weil definisce il partito «uno strumento destinato a servire una certa concezione del bene pubblico»244. Tutti i partiti, spiega la filosofa, sono totalitari perché la concezione del bene pubblico propria a uno o all’altro partito è una finzione, una cosa vuota, che in realtà corrisponde ad interessi individuali. Per cui il fine, anziché coincidere con il bene, è idolatricamente il partito stesso245.
Il fine di un partito politico è cosa vaga e irreale. Se fosse reale, esigerebbe un enorme sforzo d’attenzione, in quanto una concezione del bene pubblico non è cosa facile da elaborare. L’esistenza del partito è palpabile, evidente, e non esige alcuno sforzo per essere riconosciuta. È inevitabile, così, che in realtà il partito sia esso stesso il suo proprio fine. C’è quindi idolatria, dato che solamente Dio è legittimamente un fine in se stesso246.
Questa idolatria partitica trova il suo nutrimento interno nei programmi di “educazione” rivolti ai nuovi aderenti e ai giovani. In realtà, dietro la parola “educazione” si cela un vero e proprio addestramento finalizzato a preparare l’individuo all’influenza che il partito eserciterà sul suo pensiero247. La conclusione di Weil è lapidaria:
Se l’appartenenza a un partito obbliga sempre, in ogni caso, alla menzogna, l’esistenza dei partiti è assolutamente, incondizionatamente, un male248. – Poco dopo aggiunge – La conclusione è che l’istituzione dei partiti sembra proprio costituire un male senza mezze misure. Sono nocivi nel principio, e dal punto di vista pratico lo sono i loro effetti. La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. È perfettamente legittima nel principio e non pare poter produrre, a livello pratico, che effetti positivi249.
Weil propone di sostituire i partiti con forme “fluide” come i circoli costituiti attorno alle riviste di opinione250:
È la fluidità che distingue dal partito un circolo costruito sull’affinità e gli impedisce di avere un’influenza nociva. Quando si frequenta in amicizia chi dirige una data rivista e chi vi scrive spesso, quando vi si scrive a propria volta, si sa che si è in contatto con il circolo creatosi attorno a quella rivista. Ma non si sa se si fa parte di questo circolo, non esiste una divisione netta tra interno ed esterno. […] Ogni volta che un circolo tentasse di cristallizzarsi 243 Ivi, p. 28. 244 Ivi, p. 29. 245 Ivi, p. 30. 246 Ibidem. 247 Ivi, p. 33. 248 Ivi, p. 36. 249 Ivi, pp. 43-44.
250 Si pensi all’adesione di Weil alla Lega dei diritti dell’Uo mo nel ’30, chiaro esemp io di circo lo
conferendo un carattere definito allo statuto di membro, dovrebbe esserci repressione penale non appena il fatto fosse stabilito251.
Misure anti-partito di questo tipo, che sembrano non prestare inconvenienti, sono in realtà per Simone Weil quelle che hanno meno probabilità di essere attuate. Infatti, spiega l’autrice, lo spirito di partito è dilagato ormai in ogni cosa e governa il nostro pensiero, tant’è che ormai non pensiamo quasi più, se non schierandoci a favore o contro un’opinione e cercando gli argomenti che all’occorrenza la confutino o la confermino. Questo meccanismo non è altro che la trasposizione dello spirito di adesione al partito e la dimostrazione che abbiamo perso il senso del vero e del falso252.
Quasi dappertutto […] l’operazione di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero. Si tratta di una lebbra che ha avuto origine negli ambienti politici, e si è espansa, attraverso tutto il Paese, alla quasi totalità del pensiero. Non è certo che sia possibile rimediare a questa lebbra, che ci sta uccidendo, senza cominciare dalla soppressione dei partiti politici253.
La crisi dei partiti politici evidenziata da Simone Weil ha stimolato di recente un’ampia riflessione sulle ragioni che hanno prodotto tale crisi e, più in generale, sugli elementi che rendono il partito politico una realtà strutturalmente ambigua all’interno del gioco politico democratico: da un lato il partito rappresenta “la parte del tutto”, dall’altro tende a farsi “il tutto”.
Oggi ci s’imbatte in numerose riproposizioni del Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Weil, o in scritti politici dal contenuto analogo distribuiti a cavallo tra la Prima e la Seconda Repubblica – dalla Democrazia senza partiti di Adriano Olivetti a Contro l’industria dei partiti di Ernesto Rossi, al Manifesto per l’abolizione dei partiti politici di Willer Bordon.
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, il partito politico è da tempo al centro di un paradosso evidente, di cui è insieme vittima e responsabile. Accettato in modo pressoché unanime come elemento costitutivo delle democrazie odierne, esso reca in sé la promessa di una duplice missione: da un lato, quella, tutta politica, di esprimere le rivendicazioni e le opinioni non dell’intera cittadinanza ma di una sua parte soltanto; dall’altro, quella istituzionale di saper abdicare alla propria parzialità e perseguire – una volta giunto, attraverso il voto, all’interno delle istituzioni –
251 Weil S., Note sur la suppression générale des parties politiques, cit., pp. 44-46. 252 Ivi, pp. 46-47.
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l’interesse del demos nella sua interezza. Perciò, entro la cornice dell’assemblea parlamentare, i partiti sono chiamati a trascendere la propria vocazione particolaristica e a concorrere alla costruzione di un ordito più ampio e complesso254. Tuttavia, più che superare le proprie ottiche parziali, i corpi politici nell’assemblea parlamentare sembrano rafforzare il particolarismo delle istanze, sfregiando, anziché ricomponendo, il volto del popolo sovrano. Nella percezione diffusa dei cittadini i partiti sono come larve che maturano all’interno di un corpo più ampio – lo Stato – e che portano avanti frammenti di volontà parziali, spesso del tutto disgiunte da quelle dei propri elettori. Cosi facendo, essi disattendono il compito cui sono chiamati all’interno del gioco democratico, perché si dimostrano luoghi di potere poco accessibili e che aumentano il distacco tra vertici e base.
Nella storia del pensiero, infatti, i termini “partito” e “fazione” sono utilizzati come equivalenti ed interscambiabili: i partiti sono fazioni, versione secolarizza ta di quelle sette che, prima dell’imporsi dello Stato moderno, avevano gettato l’Europa del Cinque e Seicento nelle guerre civili di religione. Nei partiti odierni sembrano riemergere antiche vocazioni che deformano la materia di cui si compongono le nostre democrazie. I partiti di questi anni frammentano l’unità politica dello Stato trasformando la democrazia in “policrazia”: si tratta di partiti che non si accontentano di esercitare il potere di cui sono stati investiti per mandato degli elettori, ma che desiderano infiltrarsi nella pubblica amministrazione e negli ingranaggi della macchina statale, ostruendoli e corrompendoli.
La crisi dei partiti viene letta come uno dei sintomi più evidenti dell’avvento di una nuova fase della democrazia dei moderni, una democrazia post- rappresentativa: una democrazia, cioè, in cui le forme e gli istituti della rappresentanza vengono piegati ad uso e consumo di cittadini-spettatori che partecipano alla vita politica passivamente.
L’imporsi dei partiti negli ultimi due secoli ha riplasmato in modo radicale i modi e i tempi di costruzione della rappresentanza a livello istituzionale.
La rappresentanza politica non mira soltanto a una mera trasposizione del sociale nel politico attraverso i partiti. Essa contribuisce a trasformare le identità politiche
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Ragazzoni D., I partiti politici: «parti del Tutto» o «parti contro il Tutto»? Considerazioni a
margine di alcuni recenti lavori in Rivista di Politica, 01/ 2014, , Rubbettino editore, Soveria Mannelli
pregresse e a crearne di nuove, attivando un processo che mira a tradurre le molteplici istanze particolari in una grammatica politica comprensibile a tutti e da tutti fruibile. I partiti politici dovrebbero contribuire alla costruzione di una solida democrazia e contribuire a innervare di pluralismo lo spazio pubblico proprio perché individuano, nella libera espressione e competizione tra idee al loro interno, la premessa indispensabile per una buona qualità della vita democ ratica. Essi dovrebbero disegnare la fisionomia, in perpetua evoluzione, del popolo democratico, esprimendone le opinioni e le rivendicazioni e incoraggiando un processo di costante revisione, a livello individuale e collettivo, delle priorità perseguite dai rappresentanti eletti all’interno delle istituzioni.