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La necessità ne L’Iliade, ou le poème de la force

Nel documento Oltre il realismo politico di Simone Weil (pagine 112-118)

L’ANALISI DELL’OPPRESSIONE

4.1 Dalla necessità all’oppressione

4.1.1 La necessità ne L’Iliade, ou le poème de la force

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, ne L’Iliade, ou le poème de la force (saggio iniziato nel 1939 e pubblicato nel 1941), Weil esamina la natura indifferente della forza – “braccio della necessità” – ed il suo potere di trasformare gli uomini in cose, potere che pietrifica ugualmente coloro che la subiscono e quelli che la usano.

Il saggio sull’Iliade deve essere letto alla luce dei fatti che in quegli anni scuotono la realtà vissuta da Simone Weil. La filosofa ha davanti agli occhi la pietrificazione di un popolo ad opera dei suoi conquistatori, il loro speciale potere di trasformare in cose gli uomini vivi, il terrore, i massacri.

Weil studia queste corrispondenze, interessata in particolare al lavoro e alla guerra, elementi che già nelle prime riflessioni sulla necessità gli appaiono interscambiabili. La guerra la affascina perché il potere, incanalandosi nella forma bellica, provoca trasformazioni varie e orribili; il lavoro, d’altra parte, consente lo studio della monotonia alienante delle azioni ripetute. Tuttavia, sottolinea Weil, queste due esperienze hanno una caratteristica comune fondamentale, che consiste nella violazione del limite, di quella misura ed equilibrio che la necessità impone alla natura stessa. È questa la dimostrazione di cui Weil è alla ricerca: quando la necessità s’incarna nella materia scatena reazioni più forti e disastrose di quando resta confinata nella natura. La necessità diventa orribile quando arriva all’eccesso, ma essa stessa punisce il suo abuso e l’Iliade, povera di vittorie, rispecchia questo castigo212.

Weil legge Omero fondando la sua interpretazione su testi presocratici e, in particolare, sul frammento di Anassimandro che recita: «ciò da cui gli esseri si generano è anche ciò in cui vengono a dissolversi secondo necessità; essi infatti reciprocamente scontano la pena e pagano il fio dell’ingiustizia secondo l’ordine del

211 Nevin T. R., Simone Weil. Portrait of a Self-Exiled Jew, cit., pp. 152-161. 212

tempo»213. Ogni cosa procede in quanto nasce dalla materia indeterminata o ritorna

alla materia indeterminata, secondo la necessità. Il passare di tutte le cose, il loro essere, produce inevitabilmente ingiustizia, per la quale le cose stesse devono pagare un tributo214.

L’idea che guida l’interpretazione weialina dell’Iliade è, quindi, quella dell’oscillare ritmico del divenire. Weil non considera la guerra un allontanamento violento dall’ordine per entrare nel caos, bensì una drammatizzazione dell’esistenza. Omero, spiega Weil, non ci mostra soltanto la guerra, ma un ordine della realtà terrificante in cui resta ancora spazio per alcuni “momenti luminosi” – così li definisce – quando sentimenti come il coraggio e l’amore hanno perso ogni ambiguità e si fanno palesi e invisibili215. Perciò, nonostante in questo stato di cose i sentimenti umani siano rari, nella misura in cui essi continuano a esistere, sono puri.

Inoltre, a conferma del realismo di Weil, è importante sottolineare che il suo saggio sull’Iliade non è un trattato pacifista. Al contrario, Weil lo compone dopo il rigetto del pacifismo, traendo ispirazione da un passo di Eraclito che ama molto e che traduce così: «La guerra è madre di tutte le cose, di tutte le cose regina; alcune le ha rivelate dei, altre uomini, alcune schiave, altre libere».

Le riflessioni sulla necessità determinano la sua interpretazione del potere. Per Simone Weil ogni forma di esercizio del potere è un tentativo dell’uomo di fermare i meccanismi della necessità, di utilizzarli per i propri scopi, e il risultato è la follia. A questo proposito, possiamo ricordare la furiosa vendetta di Achille per la morte di Patroclo, quando il guerriero omerico si trasforma in una forza della natura, finché non viene fermato da un’altra forza, il dio fiume rigonfio dei giovani troiani che egli aveva trucidato.

L’origine della follia è il tentativo di oltrepassare i limiti imposti dalla necessità attraverso la natura: ogni uomo deve riconoscere che non è possibile alcun controllo della natura per mezzo della ragione o della volontà. Ecco perché l’asservimento occupa tanto spazio nell’analisi weiliana. L’oppressione è per Simone Weil la dimostrazione metafisica che non conviviamo con il buono, il bello ed il vero. La

213 Talete, Anassimandro, Anassimene, I Frammenti, Marcos y Marcos, Milano 1992, p. 51.

214 Anche il Timeo di Platone, seppur con accenti più positivi, parla dell’oscillazione di tutte le cose

nell’equilibrio cosmico di necessità e divinità.

215

brutalità umana, spiega Weil, ci fa vedere la realtà delle cose, la verità del necessario216.

Un aspetto importante dei meccanismi dell’oppressione analizzati dalla filosofa è il ruolo dell’illusione umana in relazione all’operare della necessità. Quando le leggi imperscrutabili della natura si traducono misteriosamente nelle forze dell’organizzazione sociale l’essere umano nutre l’illusione di sentirsi predestinato a obbedire a un ruolo di schiavo o padrone. Ogni ordine sociale, sostiene Simone Weil, poggia su queste illusioni che, usurpando la forza della materia, riducono gli uomini a cose, spesso con la loro collaborazione.

Al contrario, ogni bene autentico – l’indipendenza del pensiero, la vitalità dell’amore – agisce contro questo meccanismo in modo rivoluzionario, ripristinando il legittimo ordine delle cose, e riportando la necessità alla natura.

Weil precisa come nella società la necessità sia portata a una fatale distanza dalla natura. A tal proposito, la filosofa attacca violentemente le fonti principali di illusione sia del marxismo sia dell’hitlerismo, entrambi convinti a suo parere che la storia possa essere trasformata e che gli uomini possano tenere sotto controllo la natura. L’unica cosa a cui la società può arrivare è una soffocante coercizione a opera della burocrazia di Stato, sia esso fascista, comunista o capitalista.

Hitler, in particolare, incarna la visione della storia che la cultura occidentale ha accettato sin dai tempi di Roma: il culto della grandeur, della brama di dominio, che è cominciato, secondo Weil, con Roma, il primo impero a imporre un dominio ideologico universale su tutto il mondo allora conosciuto. Roma avviò una trasformazione prima del cristianesimo nascente e dei moderni Stati europei. Il suo totalitarismo costituisce l’ultima l’espressione dell’idolatria romana del potere. Espressioni di questo genere sono tentativi inutili di sovvertire la natura ed eccedere i limiti imposti dalla necessità, organizzando il male come se fosse un bene e conferendo una spiritualità fittizia ai prodotti del volere umano217.

La spinta del potere assume inevitabilmente la forma della collettività che minaccia qualsiasi timido tentativo di pensiero individuale. Il bene, sostiene Weil, non può trovare espressione nella forma sociale: nessuna dichiarazione di potere, nessun ricorso alla forza, può pretendere di rappresentarlo.

216 Nevin T. R., Simone Weil. Portrait of a Self-Exiled Jew, cit., p. 158. 217

La collettività si pone in contrasto metafisico con le leggi non scritte a cui la natura stessa obbedisce. Weil documenta le atrocità del dominio imperiale di Roma, di Appiano, Polibio, Giulio Cesare e percepisce dietro di esse una forma iniziale di nazismo, tutto romano. Attribuisce al popolo di Roma anche la convinzione di essere una razza superiore e nata per comandare. Il perno dell’imperialismo romano, sostiene Weil, è il suo strumento di dominio: l’effetto psicologico della crudeltà. Duemila anni prima di Hitler i romani avevano capito che la forza aiuta solo se congiunta alla politica. Con questa combinazione mostruosa paralizzavano le masse creando un sistema in cui la guerra era istituzionalizzata come culmine estremo della necessità218.

Lo statalismo romano è, dunque, il primo tentativo riuscito di cooptare la necessità. L’ostilità di Weil per Roma deriva dal fatto che quest’ultima rinasce con la Francia di Richelieu, l’inventore del moderno Stato europeo: proprio lo statalismo di Richelieu, basato su un’autorità centrale che esige obbedienza e devozione, è stato, dichiara Weil, la moderna fonte di ispirazione di Hitler, l’anello di collegamento tra l’antica Roma e il terrore di Stato del XX secolo. In Richelieu Weil vede una giustificazione particolarmente lucida del potere: lo Stato, una volta reso “la macchina anonima, cieca e produttrice di ordine” accantona ogni moralità per perpetuare se stesso219.

Nelle sue descrizioni del periodo successivo a Monaco, Weil spiega come il pericolo maggiore non derivi tanto da Hitler o da una Germania riarmata, quanto dall’umiliazione spirituale venuta allo scoperto con Monaco, «l’avvilimento del pensiero di fronte alla potenza dei fatti»220. Analogamente ai romani, il cui obiettivo

è insegnare la pace ai loro vicini, Hitler e suoi necessitano della collaborazione delle loro vittime, della loro disponibilità a considerarsi sottomessi per volere del fato. Weil coglie l’occasione per denunciare le debolezze della macchina oppressiva statale e, in generale, di tutti i totalitarismi. Si tratta principalmente di debolezze psicologiche che possiamo riassumere nei punti seguenti:

a) la passività delle masse e l’odio. L’entusiasmo artificiale richiesto dalla macchina oppressiva rende le masse passive. Una volta stanche, le masse avvertono la costrizione e quindi l’obbligo di una falsa docilità che genera odio;

218 Weil S., Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990, pp. 218-246.

219 Weil S., L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain , Éditions

Gallimard, Paris 1949, trad. it. La prima radice, a cura di F. Fortini, SE SRL, Milano 1990, p. 109.

220

b) la paura improduttiva. In un sistema di questo tipo lo stimolo principale dei lavoratori è una paura snervante e improduttiva. Weil dichiara che «viene un momento, alla fine, in cui la maggioranza della popolazione, eccettuati i giovani, non desidera la vittoria, e neppure la pace, ma la guerra e la sconfitta, per liberarsi dei suoi padroni»221. Secondo Weil, infatti, un desiderio senza azione non è volontà e si traduce in niente;

c) la perdita dei valori spirituali. La tirannia dimostra che «la forza può distruggere i valori spirituali, al punto che non ne rimane neppure traccia»222;

d) il prodigioso dinamismo. Weil sostiene che «quel che rende questi regimi terrificanti è anche quello che, con gli anni, li indebolisce, vale a dire, il loro prodigioso dinamismo….Tutto ciò che serve al mantenimento della forza viene sacrificato a ciò che favorisce il suo progresso. Perciò quando il progresso ha raggiunto un certo limite, si instaura una paralisi»223.

Questa contraddizione è particolarmente evidente nello Stato totalitario, sempre immerso in un’atmosfera di rivoluzione permanente, come se fosse costretto a pagare per i suoi stessi tentativi di sconvolgere la legge naturale.

Nonostante i sistemi di oppressione abbiano fatto valere sulla coscienza moderna il primato della forza materiale, l’oppressione, spiega Weil, non può ricalcare in eterno l’asprezza della necessità.

Si tratta di una lezione che Weil riprende dal frammento di Anassimandro: è vero che il bene, la ragione, la cultura, e tutte le altre simili appendici della persona civile non hanno nulla di garantito in questo mondo, ma la crudeltà deve pagare per i suoi eccessi e la storia lo dimostra.

Nella tradizione della rivoluzione francese Weil rinviene una forza in grado di controbilanciare la tirannia dello Stato: la libertà. Solo il naturale amore per la libertà può ritardare, e forse arrestare, la marcia verso il potere che ha motivato le nazioni per intere generazioni.

Poiché con Richelieu e Luigi XIV la Francia aveva avviato la sua marcia lungo il sentiero dello statalismo, Weil si richiama alla Francia del 1789 per fe rmarla. Il suo obiettivo è far diventare la Francia un ideale da contemplare, una fonte di e nergia per gli altri paesi. La filosofa vuole quindi contrapporre allo Stato moderno la Francia

221 Ivi, p. 308. 222 Ivi, p. 309. 223

del 1789, intesa come una società libera, uno spazio circoscritto e purificatore in cui esistono ancora giustizia ed umanità224.

Tuttavia, proprio perché non intende calare il suo ideale in alcun sistema sociale o politico – gli ideali sono, per lei, traguardi irraggiungibili – il suo appello finisce nel nulla in quanto privato del ricorso alla collettività,.

Non poteva essere altrimenti, perché per lei la vera libertà è individuale. È la singola mente umana che viene a patti con la necessità. Quest’ultima si annida nell’esistenza incontrovertibile del limite naturale, nel fatto che tutto il bene di questo mondo è unito al male, e che c’è la morte. L’organizzazione sociale, quel gros animal come lo definisce, costituirà sempre una minaccia implicita all’autonomia e al senso critico225.

L’umanità, spiega Weil, è entrata in una schiavitù collettiva molto più funesta del dominio della natura sulle epoche precedenti. L’illusione di poter contrastare la necessità non è caratteristica esclusiva della collettività, ma nasce innanzitutto nella mente individuale. Nella parabola platonica del gros animal, a cui Weil fa ripetutamente riferimento, un ruolo fondamentale è assegnato ai domatori della bestia sociale, i sofisti, bravi a abbindolarla nei suoi interessi. Nell’analisi della realtà politica a lei contemporanea, Weil attribuisce la parte dei sofisti ai dittatori moderni, a tutti i propagandisti politici ed alla loro burocrazia.

Tuttavia, anche questi manipolatori sono vittime dell’illusione. Nella visione weiliana della necessità il fatto più triste sembra essere che ogni uomo insiste a volerle sfuggire cercando la protezione, talvolta personale ma generalmente collettiva, in costrutti artificiali, fantasie che danno la certezza del potere. Il rimedio proposto da Weil è, allora, quello di accettare la presenza del malheur, della sventura.

Peggiore di qualunque danno possa venire dall’esterno è, infatti, il danno che si fa a se stessi dall’interno, permettendo all’immaginazione di creare spazi in cui trovar rifugio dalla realtà. E da realista Weil accetta il mondo e la sofferenza che esso porta con sé ad ogni costo.

224 Weil S., L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, cit., p. 105. 225

Nel documento Oltre il realismo politico di Simone Weil (pagine 112-118)