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CAPITOLO 2 Le migrazioni interne dalla Sardegna dall’Unità ai giorni nostri

2.3 La Sardegna nel secondo dopoguerra

La Sardegna del secondo dopoguerra si presenta come una società ancora fragile, caratterizzata da spopolamento, povertà, malattie e isolamento, «solo marginalmente toccata da quei processi di sviluppo e modernizzazione che già avevano interessato altre aree italiane ed europee» (Bottazzi, 1999: 11). Tuttavia la Sardegna non viveva una situazione peggiore di altre regioni del Mezzogiorno e del Centro-Nord. La metà della popolazione sarda era impegnata in agricoltura, l’attività industriale era concentrata nell’area del Sulcis-Iglesiente e interessava prevalentemente il comporto estrattivo, mentre il settore terziario riguardava per metà la Pubblica Amministrazione e per un terzo il commercio. La popolazione era prevalentemente distribuita nelle aree rurali e i centri con caratteristiche urbane erano pochi (Bottazzi, 1999). Due eventi importanti caratterizzarono lo sviluppo della Sardegna nel secondo dopoguerra, l’attuazione della legge stralcio di riforma agraria del 1951 e il piano di rinascita del 1962 (Cadoni, 1983). Agli inizi degli anni Cinquanta la Sardegna era la regione meno coltivata e più disboscata d’Italia, anche se il prodotto lordo del settore primario era comunque superiore sia a quello industriale che a quello dei servizi, considerato però che i sei decimi di questo prodotto erano generati dall’allevamento (Ruju, 1998). Il settore primario impiegava il 51% del totale della popolazione attiva in Sardegna, ma era composto in maniera piuttosto eterogenea. Il 47% del totale degli addetti al settore primario risultava infatti essere un dipendente, rappresentando il 15% in più rispetto al dato medio nazionale (Ruju, 1998). La sconfitta della malaria nell’immediato dopoguerra rappresentò un intervento di

straordinaria importanza, consentì un enorme abbassamento dei livelli di mortalità e eliminò una delle cause storiche dell’arretratezza dell’isola. La riforma agraria del 1951 fu la risposta alle azioni di lotta delle masse bracciantili e dei contadini poveri nell’immediato dopoguerra in tutta Italia. In Sardegna venne costituito l’ETFAS (Ente per la trasformazione agraria della Sardegna), e si distribuirono migliaia di ettari di terra contribuendo alla modernizzazione del quadro economico e sociale dell’agricoltura isolana. Gli esiti della riforma agraria non furono tuttavia del tutto positivi, anche perché il settore agricolo avrebbe conosciuto proprio in quel periodo un calo generalizzato degli addetti, diretti verso le industrie, e che avrebbe coinvolto tutta la penisola. Su queste basi si mise in moto quel processo rivoluzionario che ha trasformato tanto rapidamente e in profondità la Sardegna nelle sue strutture economiche e sociali.

Il passaggio da una società prevalentemente agricola ad una società industriale e da questa ad una società terziaria è stato il paradigma prevalente nei modelli di sviluppo delle società occidentali (Bottazzi, 1999). La Sardegna ha affrontato questo processo di transizione in maniera particolarmente veloce, passando dall’oltre il 50% di addetti in agricoltura nel 1950 a poco più del 10% in trent’anni. Lo stesso processo di transizione ha richiesto non meno di sessant’anni nelle regioni del Centro-Nord. Inoltre il settore industriale non ha mai avuto un numero di addetti considerevolmente superiore alla quota del terziario, a differenza di quanto avvenuto nelle regioni del Centro-Nord. L’esodo agricolo sembrerebbe dunque essere stato assorbito dal settore terziario, saltando quel processo di industrializzazione che ha caratterizzato le regioni europee oggi più avanzate (Bottazzi, 1999) e facendo sì che «la Sardegna sia diventata post-industriale senza mai essere stata compiutamente industriale» (Bottazzi, 1999: 29). Tuttavia anche le altre regioni del Mezzogiorno e gran parte delle regioni del Sud Europa hanno affrontato dinamiche simili a quelle della Sardegna (Bottazzi, 1999). La storia dell’industria sarda è stata segnata da due modelli di sviluppo industriale diversi per origine e dinamiche. Il settore estrattivo è sempre stato quello prevalente nell’industria sarda, perlomeno fino agli anni Sessanta del Novecento, pur interessando quasi esclusivamente una parte ridotta dell’isola, cioè quella del Sulcis- Iglesiente. In questo settore erano occupati anche lavoratori provenienti da altre regioni italiane, in particolare piemontesi, bergamaschi e toscani. Questo settore che ha sempre

conosciuto crisi cicliche, entrò definitivamente in crisi nella realtà sarda all’indomani della seconda guerra mondiale, con la fine del periodo autarchico e l’apertura alla concorrenza internazionale a seguito degli accordi che diedero vita alla CECA. Difatti, la prima fase di esodo migratorio dalla Sardegna sarà proprio conseguente alla crisi del comparto estrattivo, che dai quasi 30 mila addetti nei primi anni Cinquanta passerà ai 6 mila del 1991 (Bottazzi, 1999), sia a causa del calo dei prezzi del piombo e dello zinco, sia per la difficoltà nello smercio del carbone del Sulcis nel mercato italiano ed europeo (Rudas, 1974).

Il secondo modello è quello più recente dell’industria petrolchimica, nato dall’altro evento storicamente più importante nella realtà socio-economica sarda del dopoguerra, la legge sul Piano di Rinascita del 1962. La Sardegna di fine anni Cinquanta era la regione col reddito pro capite più basso d’Italia e con un livello dei consumi ben al di sotto della media nazionale (Ruju, 1998). L’idea del Piano di

Rinascita era nata proprio su queste basi. Il Rapporto conclusivo sugli studi per il Piano di Rinascita del 1958 assegnava un ruolo prioritario al comparto primario, verso

cui si prevedeva di destinare la maggior parte degli investimenti. Tuttavia gli orientamenti politici nazionali e locali tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, indirizzati verso lo sviluppo per poli, l’industrializzazione e una politica assistenziale-infrastrutturale volta ad arginare l’esodo agricolo, finirono per stravolgere gli obiettivi del Rapporto, assegnando la maggior parte dei fondi allo sviluppo dell’industria «secondo modelli già invecchiati ed acriticamente mutuati da altre realtà socio-economiche» (Cadoni, 1983: 69). Gli sviluppi futuri e il varo della legge statale n.588 del 1962 sul Piano di Rinascita portarono tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta alla nascita di diversi impianti industriali, tra cui i maggiori erano quello della Rumianca e della Saras nel cagliaritano, della SIR a Porto Torres, ai quali si sarebbe aggiunto nei primi anni Settanta lo stabilimento di Ottana, nel centro Sardegna (Bottazzi, 1999). La nascita dello stabilimento di Ottana a dieci anni dalla nascita degli altri due poli, quando già si poteva presagire l’arrivo della crisi mondiale della chimica e della petrolchimica, era un tentativo di bloccare la recrudescenza di fenomeni criminali come raccomandato dalla Commissione

parlamentare di inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna istituita nel 1969, e

quindi del costume» (Bottazzi, 1999: 35). L’idea di fondo era che l’industria moderna dovesse trasformare il pastore in operaio, e che dall’industria dovesse nascere un indotto che avrebbe dovuto portare allo sviluppo dell’industrializzazione in tutta l’isola. L’esperienza della petrolchimica in Sardegna fu in larga misura negativa, dando vita alle cosiddette cattedrali nel deserto. Si trattava di investimenti e di capitali esogeni, che evidentemente trovavano conveniente investire nell’isola, ma che comunque rispondevano ad obiettivi e strategie aliene agli interessi della Sardegna. Così nel 1970 gli occupati nel settore industriale raggiunsero il valore record di 100 mila unità, di cui 15 mila direttamente o indirettamente occupati nel settore della petrolchimica. Il settore chimico rappresentava da solo il 42% dell’intero prodotto lordo dell’industria sarda nel 1972 (Ruju, 1998). La crisi petrolifera del 1973 rappresentò un duro colpo per l’industria sarda, che entrò in crisi a dieci anni dalla promozione del Piano di Rinascita che avrebbe dovuto rappresentare il vero nodo dello sviluppo economico e sociale sardo. Se l’intento era quello di porre un argine ai fenomeni migratori, non si può certo dire che il Piano di Rinascita abbia assolto appieno a questo compito. Così, gli sforzi e gli investimenti per l’industrializzazione venivano vanificati dalla perdita di capitale umano:

Il costo di formazione di un giovane di venti anni è calcolato in circa quattro milioni di lire, per cui, essendo gli emigrati in numero di 100/110 mila unità al 1961, il danno subito dalla Sardegna è di 400/440 miliardi in dieci anni, cioè la stessa somma erogata col Piano di Rinascita (Cadoni, 1983: 72).

Anche Puggioni (1978 in Zurru e Puggioni, 2017) ha tentato di calcolare in termini monetari la perdita subita dalla Sardegna come conseguenza dell’esportazione di capitale umano nel ventennio tra il 1951 e il 1971, stimando questa cifra in 1.351 miliardi, superiore di ben tre volte alle somme previste fino ad allora per l’implementazione del Piano di Rinascita (Zurru e Puggioni, 2017). Nel 1974 il disegno di legge n. 509 su Rifinanziamento, integrazione e modifica della legge 11

giugno 1962 n.588 e riforma dell’assetto agropastorale in Sardegna, venne convertito

in legge. Così si prevedeva che la metà dei fondi stanziati, circa 600 miliardi di lire, venissero indirizzati al settore agropastorale, con l’obiettivo prioritario di trasformare la pastorizia da mobile a stanziale. Mentre per il settore industriale si prevedeva di

privilegiare la piccola e media impresa e le industrie manifatturiere ad alta intensità di lavoro (Soddu, 1998).

Parallelamente prese avvio la fase di terziarizzazione dell’economia, generalmente spinta dalla fase di maturazione del processo di industrializzazione. In Sardegna invece questo passaggio fu spinto più dalla crescita dei servizi alla persona, come il commercio, la ristorazione, i trasporti, effetto dell’aumento dei redditi e dei cambiamenti nell’organizzazione della vita sociale, come la sempre maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, ma anche la crescita dell’amministrazione pubblica, soprattutto quella regionale, della sanità e dell’istruzione (Bottazzi, 1999). Il calo dell’occupazione in agricoltura e nell’industria è stato dunque parzialmente assorbito dal settore terziario, facendo della Sardegna una delle regioni con la quota maggiore di addetti in questo settore (Ruju, 1998). Tuttavia questa occupazione non si è diretta verso i settori più all’avanguardia, segno di un avanzamento complessivo della struttura produttiva dell’economia, come l’intermediazione finanziaria, il credito, l’informatica, i servizi alle imprese e altro ancora, ma piuttosto verso i servizi pubblici (Bottazzi, 1999).