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CAPITOLO 4 La mobilità studentesca dalla Sardegna: il caso degli studenti sard

4.1 Perché la Sardegna?

La scelta di parlare della dinamica della mobilità studentesca dalla Sardegna muove da diverse ragioni, legate principalmente alla specificità del caso sardo non tanto nel contesto della mobilità per studio, quanto nel quadro più generale della sua posizione e condizione geografica, economica, demografica e storica, e di come dunque questi fenomeni di mobilità o di migrazione si inseriscano in un sistema così complesso.

Infatti se c’è una specificità che caratterizza la Sardegna rispetto alle altre regioni del Mezzogiorno e d’Italia è il fatto di essere un’isola particolarmente distante dalla terra ferma.

La percezione dell’isolamento e dell’arcaicità dell’isola ricorrono spesso nell’immaginario, nell’auto-percezione e nella rappresentazione che i sardi hanno e fanno di se stessi e del loro rapporto con il mondo esterno, ma anche nelle rappresentazioni che dell’isola sono state fatte nel corso dei secoli, come posto in evidenza tra gli altri da Mattone (1980), e che sono anche un elemento fondamentale della specificità dell’isola nel contesto amministrativo italiano.

Ma tuttavia, come afferma lo stesso Mattone:

La storia della Sardegna non è fatta solo di chiusure e di arcaismi: le coste hanno assolto un compito importante, un prezioso ruolo di filtro con la realtà esterna. Non tutto è rimasto, infatti, immutato nel tempo: ogni età, ogni dominazione straniera ha portato qualcosa e ne ha cancellato o trasformato qualche altra. I contatti esterni, seppur episodici, hanno introdotto di volta in volta nuovi elementi: la Sardegna ha accolto o rifiutato ciò che giungeva da fuori, e ha sempre ridimensionato o adattato ciò che accoglieva, producendo inoltre forme e sviluppi propri e talvolta originali (Mattone, 1980: 30).

Insularità e isolamento sono due concetti particolarmente legati fra loro nella rappresentazione storica e nella storiografia sarda e della Sardegna. Ma come mette in evidenza Mattone (1980), scrivendo del rapporto fra la Sardegna e il mare, insularità e isolamento non sono sinonimi: «L’insularità, infatti, non è una categoria «naturale»,

astratta, calcolabile in cifre e in distanze dal continente, ma muta continuamente con l’evoluzione dei mezzi di trasporto, con lo sviluppo dei traffici e degli scambi culturali» (Mattone, 1980: 27). In questo senso, troppo spesso la storiografia sarda ha risolto in maniera sbrigativa il rapporto tra isolamento e insularità, in un’equazione meccanica e totale dei due termini, senza coglierne le ragioni materiali che ne hanno causato aperture e chiusure al mondo esterno nel corso della storia dell’isola.

L’isolamento più che un fatto geografico, che l’autore comunque non esclude a priori, è un fatto umano, legato cioè alle dinamiche e ai rapporti economici, storici e politici che la Sardegna ha avuto col continente, non da cause naturali. In questo senso, di nuovo, l’insularità «è una categoria (almeno se così si può definire) non rigida ma estremamente duttile, anzi decisamente relativa. La relatività deriva dal punto di vista, dalla prospettiva spaziale o temporale con cui si guarda e si studia la Sardegna.» (Mattone, 1980: 37).

Il rapporto di amore e odio tra il mare e la Sardegna andrebbe dunque ribaltato, offrendo un’altra prospettiva, che guardi non soltanto ai vincoli generati da questa sua posizione geografica, ma anche alle aperture che ne sono scaturite. In questo senso, la storia sarda viene definita da Mattone come un ‘ventaglio’, capace di grandi aperture, ma al contempo anche di grandi chiusure. Il mare rappresenta, quindi, talora veicolo di civiltà, e in altre circostanze vettore di dominazioni, rotture e lacerazioni, ma anche come «impenetrabile muraglia liquida di conservazione e isolamento» (Mattone, 1980: 37). Questo ventaglio, metafora delle possibilità che la Sardegna ha avuto e ha di aprirsi al mondo esterno, non è un ventaglio che si apre da solo:

È un ventaglio che viene aperto dall’esterno. È sempre il mondo esterno, il continente, che entra in contatto e comunica con la Sardegna (quasi mai la Sardegna con il continente). L’isolamento, quindi, via via aumenta o diminuisce a seconda delle spinte, degli interessi economici, delle preoccupazioni di sfruttamento che, dall’esterno, investono la Sardegna. È una caratteristica che si è profondamente radicata nella tipologia economica dell’isola. Secondo Le Lannou “i termini del sottosviluppo della Sardegna sono indubbiamente questi: l’isola deve la maggior parte delle sue iniziative economiche a una decisione esterna.”

(Mattone, 1980: 37).

Mattone scriveva questo articolo nel 1980, a qualche anno di distanza dal Piano di Rinascita che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei ceti dirigenti sardi e nazionali,

portare la Sardegna dentro la modernità. Già però erano in atto quei processi di trasformazione del capitalismo che avrebbero portato a parificare nel sottosviluppo le economie dei paesi del Mediterraneo, come la «pauperizzazione, proletarizzazione, abbandono delle campagne e massiccio incremento urbano; emigrazione, di proporzioni bibliche, verso le regioni industrializzate dell’Europa del Nord» (Mattone, 1980: 40).

Proprio quando la sviluppo della navigazione a vapore iniziava a rendere meno difficoltoso raggiungere la Sardegna, se ne accentuava la sua dipendenza (Mattone, 1980). Diversi sono stati gli avvenimenti che in particolare tra la fine del Settecento e durante tutto l’Ottocento hanno caratterizzato la storia economica e sociale sarda, e che hanno contribuito a dare vita a quel cleavage centro-periferia che ha radici profonde e che trova la sua esplicazione anche in un sistema partitico e politico del tutto originale nel panorama nazionale e in parte anche europeo, come evidenziato bene da Pala (2016).

L’espansione periferica del capitalismo ha aperto nell’isola delle profonde lacerazioni, che si ponevano come obiettivo quello di portare “sviluppo”:

I nuovi «poli» industriali, l’insediamento di fabbriche moderne, l’integrazione capitalistica a livello europeo, la crisi della cerealicoltura, hanno disarticolato, con le brutali trasformazioni dell’agricoltura, la tradizionale economia isolana. Le numerose servitù militari, la lottizzazione turistica delle coste, l’inquinamento del mare, hanno espropriato e privatizzato gli spazi. […] La sempre maggiore coesione con la realtà nazionale ha prodotto, inevitabilmente, contraddizioni e contrasti: il crepuscolo della civiltà contadina e pastorale ha provocato, con la perdita di una aurorale memoria storica, una crisi d’identità della società isolana (Mattone, 1980: 42).

Un’idea di sviluppo che rimane però nel suo complesso un processo eterodiretto (Mongili, 2015). Uno sviluppo come «meccanismo quasi-naturale del compimento storico-sociale» (Mongili, 2015: 109) che in Sardegna ha assunto il nome di “Rinascita” (Mongili, 2015) e che Barbiellini Amidei (1978: VII) definisce come «grande imbroglio della monocoltura petrolchimica», costruendo un’immagine di arretratezza «da imputare alla natura e alle tendenze secolari, fra cui primeggia un fantomatico “isolamento”.» (Mongili, 2015: 130). Secondo Mongili (2015), questi

processi hanno sottoposto e sottopongono l’Isola alla desertificazione. Anche in Sardegna si è prodotto, come dice Mongili (2015), il paradosso denunciato da Escobar, per cui «al posto del regno dell’abbondanza promesso da teorici e politici negli Anni Cinquanta, il discorso e la strategia dello sviluppo ha prodotto il suo opposto: sottosviluppo massivo e impoverimento, sfruttamento incalcolabile e oppressione» (Escobar, 1995 in Mongili, 2015: 139).