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L’inapplicabilità della clausola agli accordi tra Stati membr

Gli accordi internazionali precedent

3. L’ambito di applicazione ratione personae

3.1. L’inapplicabilità della clausola agli accordi tra Stati membr

La nozione di accordi inter se si riferisce generalmente agli accordi conclusi so- lamente tra Stati membri. Come si è già avuto di modo di osservare, la creazione e il progressivo evolversi dell’assetto istituzionale e normativo dell’Unione europea non hanno fatto venir meno la tendenza degli Stati membri a ricorrere ad accordi internazionali per regolare rapporti giuridici tra loro intercorrenti16. Tuttavia, il ri- corso allo strumento convenzionale è certamente limitato dai vincoli imposti dal rispetto del diritto UE. Al tempo stesso, se non si può escludere una certa libertà 16 Sul tema v. ex multis B. de Witte, Chamaleontic Member States: Differentiation by

Means of Partial and Parallel International Agreements, in B. de Witte, d. hanF, e. vos

(a cura di), The Many Faces of Differentiation in EU Law, Anversa 2001, 231 ss. e id.,

Using International Law for the European Union’s Domestic Affairs, in E. cannizzaro, p.

palchetti, r.a. Wessel (a cura di), International Law as the Law of the European Union,

Leiden 2012, 133 ss; R. schutze, Foreign Affairs and the EU Constitution, Cambridge 2014,

135-150; L.S. rossi, Le Convenzioni fra gli Stati membri dell’Unione europea, Milano

2000. Una questione diversa si è posta con riferimento ai trattati bilaterali di investimento intra-comunitari, cioè conclusi tra i soli Stati membri. Sul punto v. infra al par. successivo. Ancora di recente, poi, la Corte ha ritenuto applicabile ad una controversia tra Ungheria e Repubblica Slovacca alcune norme in materia di relazioni diplomatiche, in deroga rispetto alla disciplina sulla libera circolazione delle persone, in ragione della specificità garantita ai Capi di Stato e di governo dal diritto internazionale. Cfr. CGUE, Ungheria c. Repubblica

Slovacca, causa C-364/10, sentenza del 16 ottobre 2012, punti 44-51. V. anche N. aloupi,

Les rapports entre droit international e droit de l’Union européenne (A propos du statut de chef d’Etat membre au regard de l’arrêt Hongrie c. République Slovaque du 16 Octobre 2012 (Aff. C-364/10), in Revue général de droit international public, 2013, 7 ss.

degli Stati a ricorrere a tali strumenti pro futuro, gli accordi che gli Stati membri avevano tra loro concluso prima della istituzione della Comunità devono intendersi non più efficaci.

Tale conclusione discende in primis dalle norme di diritto internazionale gene- rale, così come codificate dall’art. 30 della Convenzione di Vienna. Il par. 3 dell’art. 30, nello specifico, indica quale criterio di soluzione delle antinomie tra trattati il principio della prevalenza della lex posterior. Si è già visto che, quando tra le stesse parti sono vigenti due trattati incompatibili, prevale quello successivo nel tempo e il trattato precedente continua a trovare applicazione soltanto per le previsioni che siano ancora compatibili con il regime dettato dal trattato successivo. Si è già anche avuto modo di osservare che la norma non parla di abrogazione o di estinzione del trattato precedente, preoccupandosi soltanto di regolarne l’applicazione17. In questo senso, la norma postula un accertamento della compatibilità in concreto, nel senso che l’operatore sarà tenuto a valutare caso per caso se la norma del trattato prece- dente possa ancora trovare applicazione in quanto non incompatibile con il trattato successivo.

Appare dunque a tratti curioso che la Corte di giustizia abbia così frequente- mente invocato tale principio di diritto internazionale generale per affermarne un altro di contenuto ben diverso. Fin dal caso Commissione c. Italia del 1961, infatti, la Corte ha espressamente ritenuto che, in ossequio al criterio della lex posterior, i trattati conclusi tra Stati membri prima dell’istituzione della Comunità o della ade- sione debbano ritenersi abrogati. Tale interpretazione pone un duplice problema: da un lato l’art. 30, par. 1 della Convenzione di Vienna subordina l’applicabilità delle proprie regole di conflitto alle ipotesi di trattati che disciplinano lo stesso oggetto; dall’altro, il par. 3 prevede non l’automatica abrogazione del trattato precedente incompatibile, ma semplicemente la sua disapplicazione18.

Come già osservato, nel caso Commissione c. Italia la Corte aveva già avuto modo di affermare che

in omaggio ai principi di diritto internazionale, uno Stato il quale assuma un nuovo obbligo contrario ai diritti riconosciutigli da un Trattato anteriore, rinuncia per ciò stesso a valersi di tali diritti nei limiti necessari a dare esecuzione al nuovo obbligo19.

A ben vedere, non sembra che la Corte avesse in mente una reale abrogazio- ne del trattato precedente, soprattutto se si ha riguardo alla formula secondo cui lo Stato rinuncerebbe ad esercitare i propri diritti soltanto “nei limiti necessari” all’adempimento del trattato successivo. La Corte osserva inoltre che «il Trattato 17 Sul punto cfr. supra Capitolo I, par. 3.

18 Con l’eccezione dei casi in cui il trattato precedente non sia già stato terminato o al- meno sospeso in forza dell’art. 59 della Convenzione.

CEE, nelle materie che disciplina, prevale sulle convenzioni concluse fra gli Stati membri anteriormente alla sua entrata in vigore»20. Ora, va rilevato che il caso in questione presentava alcune peculiarità tali da impedire, ancora oggi, che i principi in esso espressi possano essere generalizzati oltre misura. Come si dirà più avanti, infatti, il trattato precedente oggetto della controversia era il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), dunque un accordo multilaterale cui partecipavano anche Stati terzi. La pronuncia della Corte e, in particolare, la statuizione circa la non applicabilità dell’accordo ai rapporti tra Stati membri, devono essere letti alla luce di quel contesto normativo. La prevalenza del Trattato CEE sul GATT, infatti, era dovuta al fatto che il governo italiano aveva invocato l’art. 234 con riferimen- to ad un accordo intervenuto – sempre nel quadro del GATT – con un altro Stato membro. Da ciò deriverebbe la preferenza della Corte per la formula della inappli- cabilità della convenzione precedente, invece che della sua abrogazione assoluta. Sarebbe infatti stato impossibile per la Corte parlare di abrogazione di un accordo multilaterale che coinvolgeva anche Stati terzi. Al tempo stesso, il fatto che quel singolo rapporto giuridico – pur iscrivendosi nel più ampio quadro multilaterale del GATT – coinvolgesse due Stati membri impediva l’applicazione al caso di specie della clausola di subordinazione contenuta nell’allora art. 234 del Trattato.

Invero, il linguaggio della Corte non è sempre univoco e anzi è foriero di una certa confusione quanto agli effetti della clausola in relazione ad accordi precedenti inter se. Se alle volte la Corte afferma che il Trattato «prevale» sugli accordi prece- denti tra Stati membri, altre volte impiega formule quali «l’art. 307 non autorizza» gli Stati membri a far valere convenzioni precedenti nei rapporti intracomunitari21. Non è dunque agevole comprendere quale sia la posizione della Corte rispetto agli accordi precedenti tra Stati membri. Se, da un lato, si potrebbe ipotizzare che questi debbano considerarsi abrogati per effetto della conclusione dei Trattati fondativi delle Comunità europee, sembra però preferibile seguire la strada indicata dall’art. 30 della Convenzione di Vienna, laddove prevede che gli accordi precedenti, se in- compatibili, sono semplicemente inapplicabili. Che si opti per l’una o per l’altra so- luzione, resta comunque fermo il problema della successiva applicazione dell’art. 30 della Convenzione di Vienna. Infatti, applicando il meccanismo successorio 20 Ibid. La Corte ha richiamato più volte il principio in situazioni analoghe. Cfr. CGUE, causa C-34/79, Regina v. Henn and Darby, sentenza del 14 dicembre 1979, punti 24-26. Ma soprattutto vedi le conclusioni dell’Avvocato generale Warner nel medesimo procedimen- to, presentate il 25 ottobre 1979, 3833. Per analoghe conclusioni cfr. anche CGUE, causa C-121/85, Conegate c. HM Customs and Excise, sentenza dell’11 marzo 1986, punti 24-26; causa C-286/86, Ministère Public c. Gérard Deserbais, sentenza del 22 settembre 1988, punti 17-18; cause riunite C-241/91 P e C-242/91 P, RTE e ITP c. Commissione, sentenza del 6 aprile 1995, punto 84.

21 Cfr. ad esempio CGUE, causa C-147/03, Commissione c. Austria, sentenza del 7 lu- glio 2005, punto 73.

previsto dalla Convenzione, e dunque ritenendo che quando si applica il diritto UE gli accordi precedenti debbano – in virtù della norma di diritto internazionale generale – semplicemente cedere, si dovrebbe giungere alla conclusione che, con un accordo successivo, gli Stati membri possano regolare una materia in maniera diversa dai Trattati. Sappiamo comunque che una tale ipotesi, se non è preclusa dal diritto internazionale, è certamente esclusa dal diritto UE. Sarà dunque questo, e non l’art. 30 della Convenzione di Vienna, a regolare la possibilità degli Stati mem- bri di concludere accordi inter se22.

Resta ora da analizzare un secondo profilo problematico relativo all’inapplicabi- lità dell’art. 351 agli accordi tra Stati membri, con particolare riferimento al requi- sito posto dall’art. 30 della Convenzione di Vienna, ai sensi del quale presupposto indefettibile perché i criteri in esso contenuti possano trovare applicazione è che i due trattati in questione abbiano lo stesso oggetto. Si è già visto che fin dal caso Commissione c. Italia la Corte ha sottolineato che l’art. 351 è inapplicabile agli accordi precedenti inter se «nelle materie disciplinate dal Trattato CEE».

Nel caso Matteucci, tuttavia, la Corte ha fornito un’interpretazione ben più estensiva del principio della prevalenza dei Trattati sugli accordi precedenti inter se. La controversia aveva ad oggetto una convenzione conclusa nel 1956 da Belgio e Francia, con la quale veniva istituito un sistema di finanziamento all’istruzione, tramite borse di studio, per i cittadini di entrambi i Paesi. La ricorrente nel procedi- mento nazionale, la quale era stata esclusa dal godimento di detta borsa di studio, lamentava la violazione delle norme comunitarie a tutela dei lavoratori, così come garantite dal Trattato. La Corte ha effettivamente riscontrato una violazione del Trattato, rigettando altresì l’argomento francese per cui il diniego alla concessione della borsa di studio era stato determinato dalla necessità di rispettare la lettera della convenzione bilaterale.

Ora, ciò che preme in questa sede rilevare è che, al tempo della controversia, la Comunità era sprovvista di una competenza nel settore dell’educazione e della cul- tura, sì che di per sé il ragionamento per cui le convenzioni tra Stati membri dove- vano ritenersi non più applicabili non avrebbe potuto trovare applicazione nel caso specifico, stante l’insussistenza del requisito della medesimezza dell’oggetto posto dall’art. 30 della Convenzione di Vienna. La Corte, invece, ha mostrato di interpre- tare ben più estensivamente la disciplina dell’allora art. 351, giungendo alla con- clusione per cui, nonostante l’assenza di una specifica competenza della Comunità in quel settore, il diritto comunitario determinava comunque l’inapplicabilità della Convenzione del 1956. La Corte aveva ribadito che l’art. 351 non si applica nel caso di accordi precedenti tra Stati membri e aveva affermato che l’applicazione del diritto comunitario non può essere preclusa sulla base del fatto che essa pregiudi- 22 Sul punto cfr. J. klaBBers, Treaty Conflict and the European Union, Cambridge 2009,

cherebbe l’efficacia di un accordo tra due Stati membri23. Sembrerebbe dunque che la Corte abbia definitivamente affermato il principio per cui la semplice conclusio- ne dei Trattati costitutivi avrebbe avuto come effetto quello di abrogare, tacitamen- te, tutti i trattati precedenti incompatibili24. In questo senso, la Corte ha certamente prestato ben poca attenzione al dato normativo dell’art. 30 della Convenzione di Vienna, preferendo invece accordare, non senza evidenti lacune nell’argomenta- zione di fondo, una generale prevalenza al diritto comunitario sui rapporti di diritto internazionale sorti tra Stati membri prima della creazione della Comunità25.

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