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La necessaria attualità del conflitto

Gli accordi internazionali precedent

2. L’ambito di applicazione della norma ratione materiae

2.2. La necessaria attualità del conflitto

Ciò che sembrerebbe un criterio di applicabilità piuttosto estensivo, trova in realtà una limitazione nella necessità che il conflitto tra la norma internazionale contenuta nell’accordo precedente e la norma di diritto UE sia attuale, cioè non solo potenziale o astratto. In altre parole, è necessario che lo Stato si trovi materialmente nella posizione di non poter adempiere un proprio obbligo internazionale senza contestualmente violare una norma UE. Tali indicazioni provengono da casi in cui la Corte, pronunciandosi nell’ambito di un procedimento di rinvio pregiudiziale, non si è dovuta occupare direttamente dell’applicabilità o meno dell’art. 351, par. 1 TFUE, lasciando al giudice nazionale il compito di accertare l’effettiva sussisten- za di un conflitto normativo. Ad ogni modo, le affermazioni della Corte appaiono rilevanti.

Nella sentenza Centro-com del 14 gennaio 1997, la Corte è stata chiamata ad affrontare la suddetta questione in relazione alla Carta delle Nazioni Unite. La con- troversia traeva origine dall’adozione, da parte della Comunità europea, di misure sanzionatorie nei confronti di Serbia e Montenegro, in attuazione della risoluzione n. 757 del 1992 del Consiglio di sicurezza, con cui era stato previsto un embargo nei confronti della Repubblica Jugoslava. La Corte era chiamata a decidere sulla compatibilità con l’art. 113 del Trattato di una misura nazionale adottata dal Regno Unito, intesa a dare attuazione all’embargo imposto dal Consiglio di sicurezza. Il giudice nazionale chiedeva inoltre quale dovesse essere l’incidenza, una volta stabilita l’esistenza della suddetta incompatibilità, dell’applicazione dell’art. 234 del Trattato. Le questioni erano state sottoposte alla Corte di giustizia dal giudice inglese, nell’ambito di un procedimento avviato dalla Centro-com S.r.l., impresa di nazionalità italiana, la quale contestava la legittimità del rifiuto opposto dal go- verno britannico di autorizzare la banca Barclays, con sede a Londra, al trasferi- mento di fondi da un conto corrente jugoslavo al conto corrente della Centro-com S.r.l., come pagamento di apparecchi sanitari esportati – con l’approvazione del Consiglio di sicurezza – dall’Italia verso il Montenegro10. Il caso rivestiva una certa 9 CGUE, causa C-812/79, Attorney General c. Burgoa, sentenza del 14 ottobre 1980, punto 6.

importanza, essendo il primo in cui venivano in rilevo, di fronte alla Corte, le que- stioni relative ai rapporti tra ordinamento UE e sistema delle Nazioni Unite.

La Corte ha innanzitutto riscontrato come la misura adottata dal Regno Unito fosse incompatibile con l’art. 113 del Trattato in tema di politica commerciale co- mune, in quanto costitutiva di una illegittima restrizione dei pagamenti verso Stati terzi. Per quanto attiene alla seconda richiesta del giudice inglese, che aveva ad oggetto l’applicabilità dell’art. 234 del Trattato alla fattispecie in esame, la Corte ha osservato che una misura nazionale che risulti incompatibile con le norme sulla politica commerciale comune può essere giustificata sulla base dell’art. 234 del Trattato solo quando essa sia necessaria a consentire allo Stato di adempiere gli ob- blighi internazionali derivanti da accordi precedenti con Stati terzi, lasciando però al giudice nazionale il compito di verificare in concreto la sussistenza di una siffat- ta situazione11. La Corte poi espressamente richiama la sua precedente pronuncia

Evans Medical e Macfarlan Smith, nella quale già aveva avuto modo di affermare che l’art. 351 risulta inapplicabile nei casi di accordi che configurino l’adozione di misure incompatibili con il diritto UE come una mera facoltà e non come un ob- bligo. In situazioni di questo tipo, incombe in capo allo Stato membro l’obbligo di adottare la misura «meno derogatoria possibile»12, formula invero pleonastica, data la difficoltà di misurare l’intensità di una deroga, la quale potrebbe condurre a rite- nere qualsiasi misura incompatibile con il diritto UE una violazione dell’obbligo.

Va comunque osservato che la Corte ha seguito le argomentazioni proposte dalla Commissione e da alcuni governi intervenuti nel procedimento, fondate sulla piena compatibilità tra la risoluzione del Consiglio di sicurezza che disponeva l’embargo e il regolamento comunitario di attuazione. Il Regno Unito, al contrario, aveva inte-

England ex parte Centro-com SRL., Case n. C-124/95, in American Journal of International Law, 1997, 722 ss.; I. canor, “Can Two Walk Together, Except They Be Agreed?” The

Relationship Between International Law and European Law: the Incorporation of United Nations Sanctions Against Yugoslavia into European Community Law Trough the Perspective of the European Court of Justice, in Common Market Law Review, 1998, 137

ss.; c. vedder, h.p. Folz, Case C-124/95, The Queen v. H.M. Treasury and the Bank of

England ex parte Centro-Com Srl, Judgment of 14 January 1997, [1997] ECR I-81. Case C-177/95, Ebony Maritime SA, Loten Navigation Co. Ltd v. Prefetto della Provincia di Brindisi and Others, Judgment of 27 February 1997, [1997] ECR I-1111, in Common Market Law Review, 1998, 209 ss.; R. pavoni, UN Sanctions in EU and National Law: The

Centro-com Case, in International and Comparative Law Quarterly, 1999, 582 ss.

11 CGUE, causa C-124/95, The Queen v. HM Treasury and Bank of England ex parte

Centro-com S.r.l., sentenza del 14 gennaio 1997, punto 61. Nel caso di specie, tuttavia, la

Corte appare scettica sulla reale esistenza di una tale incompatibilità. Cfr. P. eeckhout, EU

External Relations Law, Oxford 2011, 429. La vicenda non ha avuto seguito a livello nazio-

nale a causa del fallimento della società Centro-com.

12 CGUE, causa C-324/95, R. v. Secretary of State for the Home Department, ex p. Evans

so la nozione di conflitto in maniera più ampia, ritenendo che vi fosse un’incompa- tibilità tra alcune norme del regolamento e un più generale obbligo internazionale di adottare tutte le misure necessarie a dare piena attuazione alla misura disposta dalle Nazioni Unite13. Anche da questa prospettiva, l’approccio della Corte sembra essere stato piuttosto restrittivo, avendo inteso il margine di discrezionalità accor- dato agli Stati dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza non come uno strumento di rafforzamento dell’efficacia delle misure nazionali, ma come una semplice liber- tà degli Stati di decidere in che modo dare seguito alla risoluzione stessa.

In realtà, il requisito della necessaria attualità del conflitto non era del tutto nuovo, sebbene la sentenza del caso Centro-com e quella del caso Evans Medical abbiano costituito il primo riconoscimento da parte della Corte. A conclusioni ana- loghe era però già pervenuto l’Avvocato generale Tesauro, nelle sue conclusioni al caso Stoekel. Si trattava di una controversia che ben evidenzia la dinamica dei rapporti tra diritto comunitario e accordi internazionali precedentemente assunti dagli Stati membri. La Corte, nell’ambito di un procedimento pregiudiziale, era chiamata a valutare la compatibilità della legislazione francese che proibiva il la- voro notturno femminile con l’art. 5 della Direttiva CEE n. 76/207 del 9 febbraio 1976, attuativa del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professiona- li e le condizioni di lavoro14. La legislazione era stata adottata per dare esecuzione alle Convenzione n. 89, del 9 luglio 1948 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che vietava, salvo alcune deroghe, il lavoro femminile notturno. Dopo aver evidenziato il diverso contesto storico e culturale in cui i due strumen- ti – quello comunitario e quello internazionale – dovevano inevitabilmente essere collocati, l’Avvocato generale perveniva alla considerazione che la direttiva non 13 Cfr. sul punto R. pavoni, UN Sanctions in EU and National Law cit., 604, 609.

14 Direttiva 76/207/CEE del Consiglio del 9 febbraio del 1976, relativa all’attuazione

del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’ac- cesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro,

in GU L 39 del 14 febbraio 1976. In particolare, l’art. 5 recitava: «1. L’applicazione del principio della parità trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantire agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso. 2. A tal fine, gli Stati mem- bri prendono le misure necessarie affinché: a) siano soppresse le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento; b) siano nulle, possano essere dichiarate nulle o possano essere modificate le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento contenute nei contratti collettivi o nei contratti indi- viduali di lavoro, nei regolamenti interni delle imprese nonché negli statuti delle professioni indipendenti; c) siano riesaminate quelle disposizioni legislative, regolamentari e ammini- strativi contrarie al principio della parità di trattamento, originariamente ispirate da motivi di protezione non più giustificati; per le disposizioni contrattuali di analoga natura, le parti sociali siano sollecitate a procedere alle opportune revisioni».

imponeva necessariamente di adottare misure incompatibili con la Convenzione, ponendo solo a carico dello Stato l’obbligo di non creare discriminazioni fondate sul sesso rispetto alle condizioni di lavoro. La Francia, dunque, non avrebbe potuto invocare l’ex art. 234 del Trattato per sottrarsi ai propri obblighi comunitari, dal momento che doveva riconoscersi in capo ad essa un margine di discrezionalità – garantito dalla direttiva stessa – il quale poteva essere esercitato senza pregiudizio per le norme poste dalla direttiva15. Sempre secondo l’Avvocato generale, lo Stato non sarebbe incorso nella violazione degli obblighi comunitari se avesse, ad esem- pio, vietato il lavoro notturno tanto maschile quanto femminile.

L’argomentazione solleva alcune perplessità. Se è vero che in questi casi l’ob- bligo internazionale può essere rispettato dallo Stato senza per questo venire meno ad un obbligo di diritto dell’Unione, non pare condivisibile l’impostazione secondo cui tale apprezzamento dovrebbe essere condotto in astratto, cioè semplicemente considerando la sussistenza o meno di un margine di discrezionalità in capo allo Stato. Non sembra, cioè, che allo Stato possa essere richiesto, per il solo fatto che la norma internazionale non impone un comportamento determinato, di adottare misure eccessivamente onerose o di difficile attuazione, come sarebbe quella di un divieto del lavoro tout court. La Corte sembra comunque aver tacitamente accettato questo argomento, riconoscendo che la normativa francese si poneva effettivamen- te in contrasto con il divieto di non discriminazione di cui all’art. 5 della Direttiva. Vedremo nel prosieguo che una logica inversa è invece sottesa all’applicabilità del secondo comma dell’art. 351 – relativo agli obblighi degli Stati membri rispetto ad accordi precedenti incompatibili – potendo in quel caso rilevare anche un con- flitto normativo solamente potenziale. Ci sembra, comunque, che, nella valutazio- ne circa l’effettiva sussistenza di una incompatibilità tra obbligo internazionale e diritto dell’Unione, sia necessario evitare qualsiasi forma di automatismo tra la presenza di un margine di discrezionalità garantito dall’accordo internazionale e la corrispondente assenza di un conflitto normativo, dovendo invece tale esame essere condotto avendo riguardo alla concreta situazione dello Stato interessato.

D’altronde, come a breve si vedrà, il requisito della necessità di un conflitto attua- le tra norma internazionale e norma UE, così come restrittivamente interpretato dalla Corte di giustizia, sembra costituire una manifestazione della differenza tra diritti e obblighi dello Stato membro derivanti da un accordo precedente, in base alla quale soltanto per i secondi lo Stato ha diritto di invocare la clausola di subordinazione. Nell’ambito del requisito appena analizzato, la Corte sembra considerare che laddove sussista non un obbligo dello Stato, ma una mera facoltà, questa debba essere neces- sariamente esercitata conformemente agli obblighi derivanti dal diritto UE.

15 Conclusioni dell’Avvocato generale Tesauro, presentate il 24 gennaio 1991, causa C-345/89, Stoekel, punto 11.

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