Capitolo 2. IL SISTEMA AZIENDA
2. ORGANIZZAZIONE AZIENDALE Raggruppa tre classi di funzioni che sono:
2.2. L’ANALISI DI SETTORE: ASPETTI STRUTTURALI E DINANICI DINANICI
2.2.6. Integrazione verticale e decentramento
Con il termine “filiera tecnologica-produttiva” si intende l’insieme di lavorazioni che devono essere effettuate in cascata per passare da un certo ventaglio di materiali grezzi ad un prodotto finito. Da un punto di vista puramente teorico possiamo dire che le migliaia di operazioni incorporate nella filiera del prodotto potrebbero essere svolte sia da una sola azienda che parte dai materiali grezzi ed esegue tutte le lavorazioni fino a giungere al confezionamento finale del prodotto (“integrazione verticale massima”), sia da tante imprese diverse collegate in cascata (“grado massimo di specializzazione, totale decentramento”): ciascuna riceve un prodotto semilavorato (tranne chiaramente la prima), aggiunge una semplice operazione e vende il semilavorato ad un azienda successiva e così via fino al completamento finale del prodotto. E’ chiaro che all’aumentare della domanda cresce la convenienza nel realizzare un “processo di specializzazione” dei compiti ovvero di suddivisione (nel senso verticale) delle operazioni della filiera fra tanti operatori diversi. In altri termini, data una certa filiera di operazioni, la produttività delle lavorazioni è molto
maggiore se i produttori si organizzano in modo che ciascuno di essi svolga ripetutamente la stessa operazione, anziché ciascun produttore cambi continuamente il genere di operazioni da svolgere lavorando sempre allo stesso bene. Ogni impresa si trova quindi collocata all’interno di una filiera (o di più filiere) nella quale può svolgere un numero più o meno elevato di operazioni in cascata. Quanto più è lunga la serie di operazioni realizzate e tanto maggiore sarà il “grado di integrazione verticale” dell’impresa.
E’ lecito dunque chiedersi se, tra le molteplici soluzioni che vanno da una organizzazione produttiva massimamente integrata a quella massimamente specializzata, esista una qualche configurazione in grado di realizzare una miglior efficienza produttiva nella filiera. Il costituirsi di questo raggruppamento delle operazioni corrisponde alla suddivisione della filiera in tanti “settori” in cascata. Un settore è quindi delimitato:
sia in senso orizzontale: dal diverso grado di sostituibilità dei prodotti, sia in senso verticale: dalla diversa natura dei processi produttivi realizzati.
Ovviamente questa ripartizione ottimale del “grado di integrazione verticale” è influenzata da un numero rilevante di fenomeni:
1. La natura tecnicamente obbligata di certi processi tecnologici; 2. L’assetto continuo o intermittente della organizzazione del lavoro; 3. Il grado di variabilità della domanda nel tempo;
4. I criteri di imposizione fiscale, che possono colpire prevalentemente lo scambio o la produzione di valore aggiunto.
In termini generali il calcolo di convenienza imprenditoriale in tema di integrazione verticale consiste nell’analizzare la variabilità dei costi di produzione al variare del grado di raggruppamento verticale delle attività sotto un’unica organizzazione economica, sia in senso ascendente (aggiunta di operazioni della filiera che stanno a monte rispetto a quella considerata), sia in senso discendente. Passando in rassegna i fattori che operano pro o contro politiche di integrazione verticale è opportuno distinguere:
quelli che sono dipendenti dal processo di specializzazione/integrazione, da quelli che sono solamente associati al processo di integrazione.
La convenienza specifica ad aumentare il grado di integrazione verticale si produce allorché la natura dei processi produttivi è tale che, attraverso la loro stretta connessione, si totalizzino dei costi inferiori a quelli derivanti da una produzione separata. Questa
situazione, in funzione della quale un processo di integrazione porta ad un risparmio reale
di risorse, ha generalmente due matrici:
1. Tecnologica: la convenienza a realizzare una variazione del grado di integrazione discende dall’introduzione di nuovi macchinari o processi produttivi. All’inizio del processo di industrializzazione la sostituzione del lavoro manuale con il lavoro svolto da macchine si traduce in una forte spinta alla specializzazione, in quanto il macchinario svolgeva funzioni singole e molto semplificate; ma al crescere della padronanza tecnologica dei processi può crescere anche il numero delle operazioni svolte da una stessa macchina. La messa a punto di macchinari e impianti con funzioni complesse costituisce pertanto uno dei fattori primari di integrazione verticale delle imprese. 2. Organizzativa: un’azienda integrata verticalmente è in grado di pianificare meglio le
variazioni che si manifestano all’inizio della filiera (ad esempio, la disponibilità di nuovi materiali) o alla fine (ad esempio, variazione quantitativa e qualitativa della domanda). Tuttavia a questa caratteristica tecnicamente favorevole a soluzione integrate, si contrappone la maggior difficoltà che si incontra nel migliorare continuamente la produttività delle singole operazioni (una produzione che si rifornisca per un certo materiale componente da una sezione della stessa impresa può beneficiare esclusivamente dei vantaggi innovativi prodotti dalla sezione stessa, mentre un’impresa che si rifornisca dello stesso componente, sul mercato può beneficiare di tutto lo spettro delle innovazioni che il gioco concorrenziale induce sull’intera offerta, spostando gli acquisti di volta in volta presso il fornitore più innovativo).
L’effettivo grado di integrazione verticale che tende a imporsi sul mercato dipende quindi da un delicato bilanciamento di fattori aventi valenze contrastanti. In sostanza un processo di integrazione verticale si caratterizza tendenzialmente per una sostituzione di costi variabili (costi da input) con costi fissi (impianti e dipendenti).
Esiste invece una convenienza solamente associata all’integrazione o al decentramento quando essa non è dettata dalla ricerca di economie reali, ma il desiderio di difendersi da (o di imporre) posizioni monopolistiche. Tra i fattori che operano in modo “associato” al variare del grado di integrazione verticale, vanno considerati quegli aspetti di natura istituzionale concernenti l’utilizzo del fattore lavoro. Come è noto, in generale, il potere contrattuale dei lavoratori cresce in modo proporzionale alla dimensione delle aziende in cui sono occupati; ciò introduce una serie di limitazioni e di rigidità nella gestione della forza lavoro che si traduce in un aggravio di costi. In questo senso uno stesso ammontare
di produzione comporta costi diversi a seconda che venga realizzato in tante piccole aziende “specializzate” anziché in una singola azienda “integrata”.
2.2.7. La diversificazione
Un’impresa attua un processo di diversificazione allorché dilata la propria gamma di prodotti. Il concetto di diversificazione presenta un aspetto di analogia con la differenziazione nel senso che una stessa operazione aziendale può sostanziare simultaneamente un fatto di differenziazione e di diversificazione, che tuttavia rimangono due fenomeni distinti, in quanto è diversa l’ottica concettuale che ne sta alla base.
1. In tema di “diversificazione” il punto di riferimento è dato dalla singola impresa ed il processo in questione sta a sottolineare come essa stia ampliando il proprio campo di azione inserendosi in nuovi settori. Naturalmente tale inserimento può essere:
di entità assai modesta se si aggiungono uno o più prodotti da collocare in nuovi segmenti di un mercato in cui già si opera,
oppure molto rilevante quando gli elementi di contatto del nuovo prodotto rispetto ai precedenti sono scarsi o addirittura nulli.
2. In tema di “differenziazione” invece il punto di riferimento è dato dal sistema della concorrenza in quanto l’analisi in merito a tale argomento si interroga sul grado di sostituibilità che caratterizza i prodotti presenti sul mercato.
Pertanto in virtù di tali considerazioni possiamo dire che quando un’impresa inizia la produzione di un prodotto precedentemente assente nella sua gamma compie comunque una “diversificazione”, e poi, a seconda delle caratteristiche del prodotto in questione, ciò potrà anche introdurre una variazione del “grado di differenziazione” esistente in un mercato.
Se si tratta di un prodotto assolutamente nuovo, mai commercializzato prima da nessuna impresa, si ha la formazione di un nuovo settore/mercato e non si produce un effetto di differenziazione;
Se il prodotto è nuovo per l’azienda, ma si inserisce in un mercato preesistente, la diversificazione realizzata è inferiore a quella prodottasi nel caso precedente e si avrà certamente una variazione della differenziazione presente nel mercato;
Se il prodotto inserito costituisce solamente una nuova variante di una produzione preesistente ci si trova di fronte ad una diversificazione modestissima, che comunque
produce una modificazione nel grado di differenziazione. In questo caso il nuovo prodotto non solo esercita una concorrenza aggiuntiva nei confronti delle altre imprese, ma può riverberare effetti competitivi anche sulla restante linea di prodotti della stessa impresa;
Se infine un’impresa entra in un mercato che le è nuovo con un prodotto assolutamente uguale a quelli già offerti dalle altre imprese siamo di fronte a un caso di diversificazione senza alcuna forma di differenziazione.
Si noti che un processo di diversificazione può comportare anche un fenomeno di “integrazione verticale” nel caso in cui il nuovo prodotto venga in parte riutilizzato dalla stessa impresa come prodotto componente e in parte lanciato sul mercato. Ma, anche in questo caso, è importante tenere distinte le valenze diverse (diversificazione,
differenziazione, integrazione) insite in un unico evento economico.
Come qualsiasi altra strategia aziendale, una politica di diversificazione è guidata dall’obiettivo di mantenere e migliorare la profittabilità dell’impresa nel lungo periodo, e proprio per questa ragione ogni iniziativa di diversificazione, pur rappresentando un business avente caratteristiche sue proprie, va comunque analizzata all’interno della più generale dinamica economica e finanziaria dell’impresa di cui è parte. In genere, quanto più esistono elementi di omogeneità tra le precedenti produzioni e quella che viene ad aggiungersi, tanto maggiori sono le opportunità di utilizzo delle risorse tecnologiche, organizzative e commerciali di cui dispone l’impresa. Da questo punto di vista il processo di diversificazione a “macchia d’olio” presenta indubbi vantaggi, in quanto consente un progressivo allargamento delle aree di intervento di una impresa attraverso una politica di attento dosaggio degli investimenti, che riduce considerevolmente i rischi del confronto concorrenziale. Tuttavia questo genere di sviluppo presenta rischi derivanti da “congiunzione di domanda”; si è già visto che se un’impresa opera su operazioni in cascata (azienda integrata verticalmente) un ristagno della domanda finale si ripercuote su ogni lavorazione a monte; ebbene: un effetto analogo, anche se meno accentuato, può prodursi anche per i mercati contigui, nei quali la domanda si esercita spesso in modo complementare. In altre parole, una crisi di domanda ad esempio nel settore delle calzature, si accompagna sovente ad una riduzione delle vendite nel campo della pelletteria e viceversa. In taluni casi pertanto, le aziende reputano opportuno operare per “diversificazioni molto ampie”, cercando, attraverso un frazionamento dei rischi, di porsi al riparo da crisi di tipo generalizzato. Si parla in questi casi di un portafoglio prodotti e di
Il motivo che sta alla base di un processo di diversificazione consiste nel fatto che la gestione di impresa è in grado di generare risorse che non è conveniente reinvestire nel settore originario. Queste risorse possono essere:
Specifiche: incorporate in particolari know-how tecnologici, commerciali, organizzativi;
Generiche: rappresentate da disponibilità finanziarie (essenzialmente profitti).
Più in dettaglio possiamo dire che le “risorse specifiche” derivano da un processo di apprendimento realizzato dall’impresa nel tempo; per capire meglio, prendiamo ad esempio il caso in cui l’azienda produce un prodotto che richiede un elevato numero di saldature, allora lo sforzo di migliorare la qualità delle saldature e di ridurre i tempi e i costi di questo genere di operazioni può portare, attraverso prove ed errori, allo sviluppo di macchine o tecniche di saldatura nuove ed efficienti. Questo risultato rappresenta un valore non solo per l’impresa, ma anche per il mercato. L’impresa ha dunque interesse a capitalizzare questa risorsa, creata internamente, il cui costo è già stato caricato sul prezzo di vendita del prodotto originario. Ritornando all’esempio fatto, il know-how da vendere (e quindi la diversificazione possibile) potrebbe essere costituito dalla produzione di una nuova macchina saldatrice. Nel caso della disponibilità di “risorse generiche” (profitti), esse per loro natura possono essere investite in qualunque genere di attività economica. La soluzione più semplice è rappresentata dal re-investimento dei profitti nello stesso settore in cui essi sono stati generati; d’altronde il fatto stesso che il settore generi profitti giustifica tale soluzione. Tuttavia alcune circostanze consigliano una strategia di diversificazione.
Un re-investimento dei profitti nel settore originario può essere di tipo:
a) Estensivo: orientato a dilatare la potenzialità produttiva. E’ giustificato attuarlo solo se esistono buone prospettive di accrescere la quota di mercato dell’impresa di un ammontare analogo alla maggior potenzialità che si verrebbe ad acquisire.
b) Intensivo: diretto a consentire una maggior produttività senza aumento di potenzialità. Non soffre di limitazioni da parte della domanda, ed è anzi una delle cause più importanti di miglioramento della penetrazione nel mercato dell’impresa, ma può prodursi solo in presenza di una innovazione. In questo caso una quota dei profitti realizzati dall’impresa è generalmente investita in attività di ricerca e sviluppo proprio allo scopo di produrre innovazioni capaci di favorire incrementi di produttività.
Qualora non sia soddisfatta almeno una di queste due condizioni, in re-investimento dei profitti avrebbe l’effetto di andare ad erodere proprio le vantaggiose condizioni
economiche di partenza. Diventa quindi opportuno dirottare le risorse disponibili verso settori alternativi.