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L’appartenenza e la socializzazione religiosa: “i giovani d’oggi”.

CAPITOLO QUINTO

5.1 L’appartenenza e la socializzazione religiosa

5.1.1 L’appartenenza e la socializzazione religiosa: “i giovani d’oggi”.

La famiglia d’origine.

Alla domanda: “Potresti raccontarmi la tua esperienza religiosa?” Il riferimento al cattolicesimo, alla famiglia, alla chiesa, al catechismo rappresenta il punto di partenza del proprio racconto e, rispetto a questo elemento, sfumano quasi completamente le differenze fra credenti praticanti e non praticanti, fra giovani e meno giovani, uomini e donne.

Così esordisce Elisa, una giovane di 25 anni:

...la mia esperienza religiosa? Vuoi sapere dalla genesi? Dalla nascita?

(Elisa, 25 anni, credente militante)

Da questa battuta iniziale, la dimensione religiosa è introdotta come una costante, un elemento presente da sempre:

Allora… dalla nascita… diciamo che il mio ambiente, è un ambiente religioso, la mia famiglia è religiosa… diciamo che io crescevo con mia nonna e lei ci faceva dire il rosario faceva l’altarino e noi stavamo lì a dire le preghiere, per noi era tipo un gioco… lei diceva delle preghiere in dialetto e noi le ripetevamo… infatti, adesso me le devo scrivere se no poi non me le ricorderò più… (sorride)… poi… vabbè, mia mamma è stata sempre religiosa… poi niente, io abitavo in una strada fra due chiese e, allora, era proprio difficile essere atei!

(Elisa, 25 anni, credente militante)

242 Cfr. Federico D’Agostino, op. cit.; cfr. D. Hervieu Léger, Religione e Memoria, Il Mulino, 1996.

91 L’influenza dell’ambiente in cui si nasce e si cresce, è riconosciuta molto consapevolmente. Dall’inciso di dover scrivere le preghiere apprese dalla nonna, si evince la volontà, che poi magari non troverà mai attuazione, di conservare quelle memorie, come a costruire un album di foto del passato, sapendo che quei momenti non potranno più esserci, né esser proposti a figli e nipoti. È emblematico, inoltre, il fatto di sottolineare di essere cresciuta fra due chiese: la collocazione specifica in un dato luogo, dove la religiosità è un fattore sempre presente, sia fra le mura domestiche che fuori, fa sì che il fatto di essere atei sia “impossibile”. È implicito il riconoscimento dell’influenza che un dato contesto e una data cultura predominante, hanno sulla propria formazione sociale, a prescindere dalla scelta di mantenere o rifiutare, in seguito, i valori religiosi ai quali è stata socializzata sin dalla prima infanzia. È messo in luce il peso culturale della religione che, come abbiamo avuto modo di vedere, nella visione di Troeltsch. Questo autore, infatti, evidenziava proprio che ogni individuo e ogni società può riformulare le forme e i modi della propria credenza religiosa ma che la religione in sé non si possa cancellare o sradicare rappresentando la base culturale della società stessa.244

Nell’educazione primaria, il riferimento alla religione è presente anche nell’esperienza di Marco, 28 anni, nonostante i suoi genitori non fossero praticanti:

Allora… cominciamo dall’infanzia... Sono cresciuto in una famiglia credente, mio padre non è mai stato un praticante, anche se si diletta a studiare un po’ di teologia e mia madre, solo di recente, è diventata praticante nel senso stretto della parola. Da un paio di anni è diventata anche educatrice di un gruppo di bambini delle elementari, però per molto tempo è stata semplicemente credente… ehm… nonostante questo, comunque, nella vita quotidiana, la dimensione religiosa è sempre stata presente, sono stato ovviamente battezzato, ho fatto la Comunione, la Cresima, tutto...

(Marco, 28 anni, Credente Praticante)

Marco sottolinea che quando era bambino i suoi genitori non erano praticanti ma che, nonostante questo, lo hanno educato al cattolicesimo e “nella vita quotidiana, la dimensione religiosa è sempre stata presente.” L’essere cattolico fa parte della sua formazione familiare ed è descritto come costante “presenza” nella vita di tutti i giorni. Anche il fatto di aver ricevuto tutti i sacramenti è raccontato come un fatto “ovvio”.

L’ovvietà della propria educazione religiosa è un dato comunemente condiviso anche da chi, oggi, si dichiara non praticante, ribadendo la valenza culturale dell’educazione cattolica:

Ho ricevuto un’educazione religiosa, certo, è normale... si, si, tranquillamente! Fino alla cresima… manca il matrimonio adesso! Mia madre sempre praticante, pure le processioni, le messe, se le fa tutte! Mio padre è credente ma normale, non pratica quasi mai, giusto nelle occasioni.

(Arianna, 29 anni, credente non praticante)

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Anche in questo caso la fede è di discendenza prevalentemente materna, mentre la figura del padre è quella di un cattolico “normale”, dove la normalità consiste nell’essere un semplice credente non particolarmente “fissato” con la pratica di riti e funzioni religiose, l’anomalia sembra essere una pratica regolare, mentre la normalità è data dal fatto che naturalmente si crede ma a modo proprio, senza seguire rigidamente norme e riti religiosi ai quali viene lasciato spazio nelle grandi occasioni ma non nella vita ordinaria.

“La trasmissione matrilineare” emerge anche da quanto raccontato da Antonio, 22 anni che nell’esporre la sua esperienza religiosa fa spesso riferimento al ruolo della madre e della nonna:

Devo iniziare? Vabbè… il battesimo non me lo ricordo!! (ride)

Vabbè, scherzi a parte, quando ero più piccolo, causa mamma… perché, comunque, nasci in un ambiente cattolico e diventi cattolico, … prima confessione, comunione, cresima... andavo sempre in chiesa la mattina, la domenica mattina, erano anche nonna, mamma che mi mandavano ma ci andavo anche di coscienza mia...

(Antonio, 22 anni, credente non praticante)

Nascere in un ambiente cattolico, per Antonio, almeno fino ad un certo punto, equivale a diventare cattolico, a frequentare la chiesa, a maggior ragione quando almeno uno dei due genitori è praticante. In questa fase della sua vita, la trasmissione religiosa non è vissuta come imposizione. Il giovane, infatti, sottolinea che la madre e la nonna lo “mandavano” a messa ma dice anche che era lui stesso ad andarci, “di coscienza” sua, evidenziando così che non era qualcosa che viveva come comando o costrizione.

Si tratta di una questione innanzitutto educativa, che passa attraverso l’indirizzo dei genitori, anche secondo Marina, 26 anni, che inizia a raccontare la propria esperienza, riaffermando molti degli elementi che abbiamo già incontrato:

Si… allora, io ho cominciato a praticare la chiesa praticamente da sempre perché mamma già da piccola mi portava in chiesa, quindi, è stata una cosa pure, diciamo… di educazione familiare...

(Marina, 26 anni, Credente Praticante)

Nell’esperienza di Rosanna, 24 anni, invece, è il padre la figura di riferimento principale:

Allora… la mia esperienza religiosa… ehm… i miei genitori sono molto legati alla religione…mio padre soprattutto ci tiene moltissimo, va sempre in chiesa e portava sempre me e mia sorella con lui quando eravamo piccole, così ci ha abituato a quell’ambiente e a quei comportamenti che per noi erano praticamente naturali...poi... ho tutti i… sacramenti: battesimo, comunione, cresima… tutto… in famiglia ci hanno indirizzato a queste cose.. (Rosanna, 24 anni, credente non praticante)

Una fede ricevuta e interiorizzata “naturalmente” in casa che, in una fase successiva trova il suo approfondimento nel contesto sociale più ampio, incontrando la parrocchia, dove si fa esperienza della propria religiosità insieme agli altri, dando origine alla socializzazione religiosa “secondaria”.

93 Vedremo di seguito in che modo si arriva fra le mura parrocchiali e che cosa significa questo “incontro” nelle esperienze individuali dei soggetti intervistati.

La parrocchia

Il riferimento alla parrocchia è, spesso, descritto come un passaggio anch’esso ineludibile in un ambiente dove, almeno fino all’età dell’adolescenza, ci si trova a proprio agio, rappresentando un luogo frequentato da coetanei che dopo la scuola si danno appuntamento nelle sale parrocchiali per il catechismo o semplicemente per trascorrere il tempo libero.

Cerchiamo di cogliere meglio quanto accennato analizzando le parole dei nostri intervistati. Significativa la testimonianza di Giuseppe che, raccontando la sua esperienza religiosa, parla di famiglia e parrocchia, quasi come se fossero un tutt’uno nei suoi ricordi infantili, trascorsi in una piccola comunità della provincia cosentina:

Allora…, comincio dal fatto che sono cresciuto in un piccolo paesino, innanzitutto, dove, magari… queste credenze sono più sentite, dove la religione e la chiesa è un luogo di raccolta per tutti i ragazzi… poi, i miei hanno sempre frequentato, c’è stato anche un periodo che hanno fatto parte dell’ACR e… e, quindi, diciamo che sono sempre stati argomenti toccati in famiglia e… e nessuno ha avuto crisi mistiche nel suo percorso! (sorride)

Giuseppe 22 anni, Credente Praticante

“La vita nel paesino, dove la chiesa è il luogo di raccolta per tutti i ragazzi” è un’espressione significativa che rimarca la funzione sociale della religione, in contesti “comunitari”. Dall’inciso fatto da Giuseppe risulta implicita una distinzione fra il piccolo paese e la città e tale distinzione, rievoca le distinzioni teorizzate dai classici della sociologia in merito a comunità e società, per dirla con Tönnies, comunità e associazione per ricordare gli idealtipi weberiani, oltre che fra società a solidarietà meccanica e organica in riferimento a quanto teorizzato da Durkheim.

In ognuna di tali dicotomie concettuali il punto fermo è che in luoghi a bassa differenziazione sociale, la dimensione religiosa e, in questo caso, la chiesa parrocchiale, conservi il suo tradizionale ruolo d’integrazione sociale, il suo essere punto di ritrovo dove condividere esperienze collettive che accomunavano gli individui, spingendoli a ragionare nei termini di un “noi”, rafforzando, quindi, la coesione sociale.

Associando al contesto comunitario di riferimento, l’educazione familiare, l’esperienza di Giuseppe rappresenta le dinamiche più classiche della socializzazione cattolica, accentuata dalla presenza di persone religiose in famiglia. È posto l’accento, inoltre, su un percorso familiare che non ha conosciuto “crisi mistiche”, quasi a voler rimarcare la stabilità e la normalità della propria appartenenza religiosa.

L’esperienza religiosa parrocchiale di Elisa ha inizio prima ancora di raggiungere l’età scolastica:

...l’asilo l’ho fatto dalle suore, quindi ho iniziato l’ACR da piccola, poi il catechismo, andare in chiesa o alle riunioni in parrocchia era normale, mi ci hanno mandato e ci sono andata...

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L’ambiente parrocchiale entra, “naturalmente” a far parte della vita quotidiana anche per Mario:

...sono arrivato in parrocchia come tutti… per opera dei miei genitori che mi hanno un po’ trainato in parrocchia, poi… diciamo che il passo successivo l’ho fatto da solo, ovvero si trattava di un ambiente confacente che mi piaceva e che ho scelto come… habitat quasi naturale.

(Mario, 28 anni, Credente Praticante)

Dall’espressione “come tutti”, emerge chiaramente il fatto di dare per scontato non solo che, generalmente, in famiglia venga offerta un’educazione religiosa cattolica ma che la stessa famiglia indirizzi alla parrocchia, luogo dove Mario dice di essere stato “un po’ trainato” e che lui stesso ha ritenuto “confacente” alle proprie esigenze individuali, al punto da farne il suo “habitat quasi naturale”. Il passaggio dalla famiglia alla parrocchia, è presentato come elemento “naturale”, a prescindere da quella che sarà la scelta successiva di continuare o di allontanarsi da uno dei primissimi ambienti di socializzazione frequentati da molti bambini che, come nel caso di Elisa, vi si inseriscono prima ancora di andare a scuola.

La parrocchia rappresenta un punto di integrazione e di socialità importante, dove si sta insieme ad altre persone e s’impara a conoscere se stessi, rapportandosi ai propri coetanei, si fa amicizia, in una parola, si impara a diventare “attori sociali”. È soprattutto questo l’elemento che emerge dall’esperienza di Arianna, 29 anni:

...mi sono divertita al catechismo quando ero giù al paese, ma ero piccolina, ricordi non è che ne ho tantissimi, però ho avuto delle buone insegnanti di catechismo, questo sì, qua a Cosenza, invece, un po’ di meno, poi ho cominciato a crescere a conoscere altra gente, ad avere altri svaghi... non c’era più quella abitudine di andare a giocare in parrocchia... poi, al paese, le mie catechiste erano proprio buone, quando ero piccolina, prima della Comunione, cioè... te la impostavano come gioco e, quindi, mi sentivo più vicina... qui a Cosenza, invece no, mi facevano imparare le preghiere a memoria e mi chiedevano il significato... insomma era una palla, non mi divertivo più.

(Arianna, 29 anni, Credente Non Praticante)

La distinzione tra il paese e la città, è associata anche al diverso modo di vivere la parrocchia e ai diversi interessi legati all’età: andare in parrocchia da bambina era un modo per divertirsi, per stare in compagnia, tant’è che il catechismo è apprezzato in quella fase in cui è presentato come “gioco”. La parrocchia è un ambiente che la soddisfa fino a quando ha voglia di “andare a giocare”. Non stupisce che crescendo, trasferendosi dal paese in città, Arianna sia interessata ad altro, fa, infatti, riferimento ad “altre conoscenze e altri svaghi”, dicendo, implicitamente, che la parrocchia era uno “svago” sufficiente alle proprie esigenze solo fino ad un certo punto della sua vita fino a quando altri luoghi, altre compagnie, altre proposte non sono entrati in competizione con l’unica che fino a quel momento le era stata offerta e aveva conosciuto.

Dalle parole dei nostri intervistati emerge un’educazione religiosa, acquisita in famiglia, della quale si parla come cosa scontata. All’educazione familiare si affianca la parrocchia che è ritenuta dai genitori stessi come

95 “coadiuvante” all’educazione dei propri figli che vengono inseriti nel contesto religioso extra-familiare, prima ancora di raggiungere l’età scolastica.

Si tratta di un percorso che viene poi approfondito personalmente nelle varie fasi di crescita, durante le quali, come vedremo meglio più avanti, l’adesione al cattolicesimo è messa in crisi o confermata per poi ricomporsi e definirsi nel passaggio post-adolescenziale, sulla base della propria esperienza e dell’influenza che il contesto familiare e sociale hanno avuto nel proprio percorso di formazione. Dai percorsi esperienziali individuali e sociali, “chiamato a costruire autonomamente il senso della propria esperienza l’attore diventa soggetto, in quanto può davvero essere, finalmente, l’unico responsabile nella determinazione della propria identità”245.

Crescendo e, a maggior ragione, crescendo nella società della globalizzazione, ci si libera da un lato, dai propri vincoli sociali, culturali e relazionali, affermando un’autonomia maggiore rispetto a chi e come essere, rispetto a che cosa e in che modo credere.

Il riferimento è chiaramente all’individualismo e alla frammentazione sociale odierna in cui la coesione sociale, un tempo assicurata dalla sfera religiosa, è continuamente messa a rischio.

Si tratta di un dato su cui ci si interroga, chiedendosi quali possano essere, oggi, i valori in cui potersi riconoscere per garantire un’identità sociale comune che si opponga ai rischi della disgregazione e del relativismo.

Insieme ai nostri intervistati, abbiamo riflettuto sul posto del sacro nella società in cui essi vivono, partendo dal loro percorso biografico ci siamo soffermati a riflettere sul ruolo sociale attribuito alla religiosità nelle dinamiche di formazione individuale e collettiva.

“Discendenza e trasmissione credente”

Come si può notare, in questo frangente non stiamo tenendo conto del fatto che gli intervistati siano o no praticanti, proprio perché per tutti, anche per quanti oggi sono lontani dall’ambiente ecclesiastico, pensare ai percorsi educativi ricevuti, significa pensare a dei valori religiosi che, spesso, rappresentano dei riferimenti comportamentali condivisi, più che degli indirizzi di fede.

Questo dato emerge, soprattutto, quando i giovani intervistati si sono soffermati a riflettere, proiettandosi nel futuro, a come educare i loro figli o, comunque, a quale sia la “giusta” educazione da dare alle nuove generazioni.

A tal proposito, Rosanna dice:

Io, se avessi un figlio, non so come mi comporterei in questo senso però, forse… è buono perché far capire a un bambino da piccolo come ci si deve comportare, senza un modello che è comunemente riconosciuto è difficile... quindi, dargli un’educazione che si discosti da questo, come per una famiglia che, diciamo, può essere atea, è difficilissimo. Invece, secondo me, è bene fargliele conoscere queste cose… fargliele capire… magari, farlo anche partecipare e poi deve essere lui a decidere se le sente sue e continuare a seguirle o fare altre scelte.

(Rosanna, 24 anni, credente non praticante)

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Si evince la mentalità tipicamente moderna caratterizzata dalla dinamica della scelta: ciò che un tempo era ovvio e naturale oggi c’è nella misura in cui lo si vuole, lo si sceglie liberamente e individualmente. L’assunto predominante è di trovarsi inevitabilmente di fronte a diverse opzioni possibili in ogni ambito sociale, non ultimo quello religioso che offre la possibilità di optare per diverse religioni o diversi modi di vivere la propria fede nell’ambito della stessa religione.

Scegliere non significa solamente essere liberi ma anche essere più responsabili e, soprattutto, vuol dire rinunciare, selezionare, tagliare, dal momento che, se è vero che le opzioni possibili sono diverse, non è possibile sceglierle tutte e proprio questo rappresenta una delle maggiori difficoltà dell’individuo contemporaneo e uno dei maggiori rischi per la sua libertà. 246 Ad ogni scelta corrisponde una rinuncia.

È quello che osservavamo nella prima parte di questo lavoro, citando gli autori classici e contemporanei che hanno a lungo riflettuto sui “rischi della libertà”, descrivendo in maniera efficace la situazione esistenziale dell’uomo moderno.247 In tale scenario “la piena realizzazione di sé non può

compiersi all’interno di un contesto sociale che si limiti a offrire al soggetto il più ampio numero di opzioni. Occorre che assieme ad esse il soggetto possa contare su un altro tipo di risorsa, che operi a livello di meta rispetto alle singole opzioni, offrendosi, quindi come criterio di ordinamento- radicamento delle medesime”.248 È in quest’ottica che hanno rilevanza i valori, intesi come orizzonti comportamentali condivisi entro i quali dare senso al proprio agire e alle proprie scelte. Questa funzione viene, spesso attribuita ai valori religiosi, considerati non solo nella loro dimensione trascendente ma, piuttosto, nel loro ruolo sociale.

Rosanna non è praticante, ha “preso le distanze” dall’ambiente ecclesiastico, nonostante ciò, definisce il cattolicesimo come un “modello comunemente riconosciuto”. Non dare al bambino tale modello potrebbe, a suo avviso, rappresentare un elemento di disturbo per la sua integrazione sociale.

Nell’esperienza e nei pensieri di questa giovane, trova spazio ciò che abbiamo analizzato in precedenza, riflettendo sui contributi teorici nell’ambito della sociologia delle religioni. Avere un modello di riferimento comune, è necessario ai fini dell’integrazione sociale.249 Finché regge il modello tradizionale, regge la società e gli individui si riconoscono parte di un comune universo valoriale sul quale basare i propri atteggiamenti e le loro relazioni ma, nel momento in cui tale modello crolla, aumenta la frammentazione sociale e lo spaesamento degli individui... aumenta il rischio dell’anomia e s’impone la necessità di costruire un nuovo orizzonte di valori collettivi che possa sopperire a quello tradizionale che ha smesso di “funzionare”. È quanto ci diceva soprattutto Durkheim, fra i classici, ed è quanto stanno cercando molti intellettuali contemporanei, impegnati nella ricerca di un nuovo modello di riferimento, di una religione moderna e razionale che possa far presa sulle coscienze individuali, unendole in un

246 Cfr. P. Berger, L’imperativo Eretico, op. cit; cfr. U. Beck, op. cit.

247 Cfr. E. Durkheim, il Suicidio, op. cit., M. Weber, op. cit., G. Simmel, op. cit.; A. Giddens, op. cit., U. Beck, op. cit., A. Melucci, op. cit., R. Dahrendorf, op. cit., P. Berger,

op. cit.

248 V. Cesareo, Ricomporre la vita, op. cit. p. 15

249 Cfr. E. Durkheim, Educazione Morale, op. cit., A. Tocqueville, op. cit., G.E. Rusconi,

97 senso di appartenenza collettivo, che si opponga, quindi, ai processi di frammentazione sociale. È quella che abbiamo imparato a conoscere come “religione civile”. Si evince il bisogno di “principi” e valori che proponendosi come una sorta di “catena della tradizione” cui ancorare i soggetti che vivono le conseguenze poco piacevoli del processo di frantumazione sociale tipico della nostra società.

A questo rimanda anche quanto affermato da Marco in merito all’educazione dei bambini e al ruolo della famiglia oggi:

...la gente sta perdendo anche il senso del civile.... La famiglia è il fulcro della chiesa ed è il fulcro anche dello sviluppo delle persone e... e detto questo significa che deve fare tutto... i genitori insieme ai figli per costruirsi quel senso del civile, ma anche il senso proprio rispetto alla dimensione della fede, poi, ovviamente i figli sono liberi di decidere per proprio conto… però l’importante è che i genitori, se sono cristiani cattolici, se la loro è una famiglia nell’ottica della famiglia cristiana, dovrebbe svolgere questa funzione, oltre che una normale cura… ma a volte nemmeno