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Socializzazione e appartenenza religiosa nei “giovani di una volta”.

CAPITOLO QUINTO

5.1 L’appartenenza e la socializzazione religiosa

5.1.3 Socializzazione e appartenenza religiosa nei “giovani di una volta”.

La famiglia

Dai giovani della società odierna siamo arrivati, ai “giovani di una votla”, ovvero agli anziani di oggi i quali, con il frequente intercalare “una volta” ci hanno descritto molte caratteristiche del contesto sociale nel quale hanno vissuto la loro fanciullezza e la loro adolescenza. Rispetto ai processi

253 M. Ghisleni, R. Moscati, Che cos’è la socializzazione, Carocci, Roma, 2001. 254 P. Berger, L’imperativo eretico, op. cit.

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di socializzazione primaria, anche in questo caso, potremmo definire quasi una costante il riferimento culturale agli insegnamenti cristiani ricevuti nella famiglia d’origine. La fase iniziale delle interviste, infatti, è, anche qui, scandita da un “quando ero piccolo”, seguito poi da spunti di riflessione specifici, legati alla rappresentazione della propria esperienza.

Possiamo iniziare la nostra riflessione partendo dalle parole di Sara, 70 anni che, introducendo il racconto della sua esperienza religiosa, dice:

Beh, quando ero piccola frequentavo la Messa, il catechismo… mia mamma ci aveva abituati così, giustamente...

(Sara, 70 anni, credente non praticante)

Emerge l’ormai ricorrente riferimento alla famiglia d’origine e, in particolare alla mamma che “giustamente” ha abituato i suoi figli a frequentare la messa e il catechismo. Il fatto di dire “giustamente” è emblematico, indice dell’accettazione e del riconoscimento delle indicazioni genitoriali come delle uniche effettivamente trasmissibili.

Negli stessi termini si è espressa Antonietta, 75 anni:

Io sono sempre stata, da ragazza, molto attaccata a…, andavo sempre a messa con mia mamma e poi noi siamo state cresciute con uno zio prete, fratello di mia mamma che veramente era… un prete … aveva un uso povero, non aveva nemmeno una camicia, gliel’avevamo comprata noi… lui pensava solo a far lavorare gli operai, ha edificato una casa canonica, ha edificato una chiesa e ne ha fatto ristrutturare un’altra, sempre nel paese dove era parroco...

(Antonietta, 75 anni, credente militante)

Nonostante siamo passati dai ventenni ai settantenni la figura materna nella trasmissione del “sentimento religioso” resta presente. In questo caso, inoltre, c’è il rafforzativo di uno “zio prete” che, è descritto dall’intervistata come un “vero” prete che le permette di crescere con un’immagine “positiva” dell’apparato istituzionale.

Nell’esperienza di Lucia, invece, l’educazione ricevuta si è acquisita, essenzialmente, come un’abitudine del pensiero e delle azioni:

Allora la mia esperienza… io sono cresciuta e, ovviamente, mi è stata inculcata la religione cattolica, cristiana e compagnia bella, in più sono stata cresciuta dalle suore perché abitavo vicino ad un istituto di suore canossiane e il mio percorso l’ho fatto lì… e niente, cresima, comunione e tutto il resto come tutti gli altri... però sempre delle abitudini, non è che sentissi un particolare trasporto spirituale, quello che facevo lo facevo naturalmente senza pensarci troppo...

(Lucia, 69 anni, credente non praticante)

L’automatismo descritto da Lucia ci riconduce ancora al concetto di abitudine teorizzato da Cavalli, che sembra essere centrale nell’esperienza religiosa dell’intervistata o, quantomeno, nella sua esperienza con il cattolicesimo, religione a cui è stata abituata fin da bambina. Il fatto di non avvertire nessun “trasporto spirituale” negli insegnamenti ricevuti, non significa, infatti, che Lucia non avesse una spiritualità da comprendere e approfondire, infatti, nel corso della sua vita fa esperienza di altre realtà ma

107 ad esse non riesce a legarsi, rimanendo vincolata a quanto le era stato consegnato da piccola, mostrando così che quell’abitudine è oggi diventata

tradizione:

Ho letto molto in questi anni e sono rimasta molto affascinata dal buddismo, ci sono andata qui a Cosenza c’è un gruppo che sta crescendo e fa cose molto belle e interessanti... quello che più mi ha colpito è il fatto della meditazione e di credere in se stessi: se tu ci credi puoi raggiungere i tuoi traguardi ma ci devi credere... io ci ho provato e, veramente, sono riuscita a raggiungere questo traguardo che mi ero prefissa però poi… dopo due o tre anni, mi sono allontanata perché alla fin fine quello che mi è stato inculcato da bambina è emerso nuovamente perché, in effetti, anche se è un modo di dire: “Gesù Cristo mio, Madonna mia, San Francesco mio…” ce l’abbiamo dentro… è radicato dentro di noi… ti viene quella voglia di rivolgerti a Dio… è qualcosa di radicato in te e se è radicato, allora significa che è un credere, altrimenti non esisterebbe niente, però la filosofia buddista continua a piacermi!

(Lucia, 69 anni, credente non praticante)

Il fatto di ricevere il cattolicesimo come dato naturale del proprio essere fa sì che ad esso si resti “legati” a vita, si sente come imprescindibilmente radicato. Proprio questo “sentire dentro”, che viene da quanto le è stato “inculcato”, dà legittimità alla sua appartenenza religiosa. È significativa l’affermazione: “se è radicato allora significa che è un credere”, la credenza trova il suo fondamento nelle forme in cui essa è stata tramandata e recepita. Essa fa parte del senso comune e dell’ovvietà che pervade la propria vita, è recepita come qualcosa su cui, forse, non è il caso di interrogarsi troppo.

Proprio questo però, nell’esperienza di alcune persone come, appunto, quella di Lucia, si tramuta nel bisogno di cercare qualcos’altro, qualcosa da apprendere e capire, nella quasi “frustrazione” di non riuscire a liberarsi di quel qualcosa che si ha dentro e che non si può rinnegare.

Abbiamo visto diversi casi in cui viene riconosciuta la validità della tradizione, in questo frangente, invece,si percepisce fra le righe, il peso che da essa proviene e i vincoli che, talvolta, può determinare, nelle scelte individuali.

Nell’esperienza di Giancarlo la tradizione cattolica e l’impronta familiare ricevuta, invece, è assimilata in modo ben diverso e l’adesione al cristianesimo è legata ancora una volta alla “bontà civile” del messaggio evangelico:

Certo che è una domanda difficile, eh, eh! Va bene... intanto noi siamo, anzi eravamo, perché ora non c’è rimasto nessuno, ci sono io solo… comunque... sempre attaccati molto alla religione cattolica… io, per esempio, il mio cinque per mille l’ho sempre dato alla chiesa, pur non essendo praticante in senso stretto… io penso una cosa: che la religione cristiana è la religione più bella! è l’unica religione che ha il perdono in questo senso, è la più bella...

(Giancarlo, 72 anni, credente non praticante)

Quello che gli è stato trasmesso non è un attaccamento forte alla chiesa in se stessa, quanto al cristianesimo, quasi come filosofia di vita, come

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modello comportamentale per saper vivere nella società. Emerge, nuovamente, una concezione “sociale” del cristianesimo, sposato per l’utilità in ambito civile dei suoi dettami che, secondo Giancarlo servirebbero per vivere meglio. Basta questa convinzione nella sua esperienza per non sentire la necessità di cercare altre verità religiose o per mettere in discussione l’esperienza religiosa da lui incontrata.

Anche la posizione della signora Angela, 79 anni fa trasparire un’adesione personale a quanto appreso in famiglia, ma in questo caso è più forte anche il riferimento alla dimensione spirituale e dogmatica, oltre che a quella “mondana”:

Allora, l’educazione religiosa che ho ricevuto, è cattolica... sono stata battezzata a otto anni... a otto anni perché siccome padrino e madrina erano fuori Cosenza e mia madre e mio padre non volevano persone che non fossero davvero religiose, hanno preferito aspettare, quindi... io avevo sette anni, io ho fatto Battesimo, Comunione e Cresima tutti insieme e me li ha fatti il Vescovo, ci siamo preparati qui a Cosenza, dalle canossiane e ricordo che il vescovo aveva voluto una lunga preparazione...

(Angela, 79 anni, credente praticante)

Ciò che emerge è innanzitutto una concezione diversa dei sacramenti: rispetto a quelle analizzate finora, vediamo un riferimento al padrino e alla madrina che, per volontà dei genitori, dovevano essere persone religiose... non è quindi la figura classica del “compare”, ma proprio la figura di guida spirituale che, normalmente, dovrebbe essere incarnata dai padrini di battesimo e cresima. Allo stesso tempo è sottolineata la presenza del Vescovo e la “lunga” preparazione... c’è quindi un’impostazione diversa, volta proprio alla sfera sacramentale oltre che a quella sociale. Il battesimo è stato rinviato per anni pur di essere celebrato nella maniera migliore possibile, dal punto di vista religioso.

Nell’esperienza di Franca, poi, l’educazione religiosa è equivalsa ad un abituarsi a delle attività a tutto tondo che prendevano forma in una sinergia perfetta fra famiglia, parrocchia e contesto sociale di riferimento. è testimoniata così la più contenuta differenziazione sociale di un tempo, quando i rischi di imbattersi in messaggi e informazioni discordanti e ambigue fra esse era più basso, rispetto ad oggi:

Noi già da quando eravamo piccoli, i nostri genitori ci hanno insegnato a pregare, ci hanno abituato ad andare in chiesa quindi … poi loro vivevano il cattolicesimo in un modo veramente singolare … poi loro partecipavano ai pellegrinaggi, che so, facevano a piedi ai vari santuari e poi ci facevano aiutare anche dagli anziani che ci raccontavano tutte le storielle sulla vita dei santi,di San Francesco... tutte cose che loro avevano vissuto...

(Franca, 68 anni, credente militante)

Non è, forse, un caso che, laddove la fede è stata trasmessa e comunicata anche con atteggiamenti e azioni concrete abbia “generato” due credenti praticanti, fortemente convinte della validità degli insegnamenti ricevuti.

Ciò che resta fermo, comunque, è che anche per gli anziani intervistati, il ruolo della famiglia e, soprattutto delle madri, è considerato essenziale nei

109 processi di formazione, per alcuni a livello spirituale, per altri, a livello “sociale”. La trasmissione di valori e norme religiose-cattoliche rappresenta, quindi, un elemento culturale che trova le sue radici nell’esperienza delle generazioni passate e caratterizza, per molti versi, quelle delle generazioni presenti.

La parrocchia

Il ruolo della parrocchia e dei parroci, nell’esperienza degli anziani è descritto come un ruolo fortemente presente del loro percorso formativo.

L’elemento prettamente educativo emerge anche dall’esperienza di Salvatore, cresciuto in una famiglia non particolarmente attaccata alla vita di chiesa ma che, a fini educativi, mandava i propri figli in un istituto religioso:

Da piccoli noi non siamo stati educati alla fede perché, all’epoca, i genitori nostri non erano praticanti, erano indaffarati in altre cose, mia mamma stava a casa, non seguiva, quindi,comunque mia mamma mi ha fatto tutto battesimo, comunione, cresima... sono stato anche due anni all’arcivescovile perché... io e mio fratello eravamo la disperazione della famiglia e per farla stare un po’ tranquilla in casa, mio padre ci ha chiuso all’arcivescovile a corso Telesio... ma solo per questo ci hanno mandato lì per fare stare tranquilla a mamma mezza giornata e perché pensavano che lì ci potevano mettere la testa a posto.

(Salvatore, 66 anni, Credente Militante)

Sullo sfondo di questo racconto si intravede, esclusivamente, l’elemento della tradizione culturale legata al cattolicesimo e non un riferimento alla fede in senso stretto. È un elemento che possiamo rilevare nella puntualizzazione dell’intervistato sul fatto che sua madre lo avesse fatto battezzare, comunicare e cresimare, quasi a voler sottolineare che, nonostante i molti impegni, aveva assolto a tutti i doveri di una “buona madre”.

Emerge, poi, l’idea dell’istituto religioso come istituto educativo di una certa rigidità, un posto dov’è stato portato per fargli “mettere la testa a posto”, una questione legata a tutt’altre ragioni che a quelle religiose. Una famiglia di non praticanti, dove si avevano “altri pensieri” ma dove, sacramenti come Battesimo, Cresima erano stati rispettati, com’era “doveroso”.

In altri casi il passaggio dalla famiglia alla parrocchia continua ad essere descritto come “naturale” e, nel caso di Franca, molto importante ed educativo:

…poi abbiamo frequentato la parrocchia che era una parrocchia molto attiva, c’era un parroco ed avevamo delle catechiste che erano veramente … brave, poi era lo stare insieme che ci aiutava a crescere e comunque la parrocchia era molto, molto viva. Ricordo che al mattino si celebrava la messa, nel pomeriggio si diceva il Rosario e si faceva la benedizione eucaristica … poi il catechismo si faceva con una certa assiduità, ricordo che si faceva ogni giovedì e poi nel periodo estivo si facevano delle colonie, c’erano degli animatori e … insomma ci insegnavano a ricamare, a cucire, a fare ai ferri … insomma tutte queste cose qui, avevamo degli educatori e delle educatrici davvero bravi che ci aiutavano a crescere … questo quando ero più piccola, nell’ambito della famiglia …

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(Franca, 68 anni, credente militante)

È forte l’impronta familiare, data dall’esempio comportamentale dei genitori che frequentavano assiduamente, la partecipazione alle attività parrocchiali, quasi naturale è stata l’input per rafforzare quanto appreso fra le mura domestiche o ascoltando le storielle degli anziani che raccontavano la vita dei santi, quasi come raccontare una favola.

La signora Franca, ricordando i modi in cui a lei e ai suoi fratelli era stata trasmessa la dimensione religiosa, non tarda a fare un paragone con la società contemporanea:

Prima tutto ruotava intorno alla religione: a casa era centrale, in parrocchia si frequentava assiduamente e anche a scuola c’era un certo rispetto... non era un accessorio della vita, era il fulcro della vita... adesso no...

(Franca, 68 anni, credente praticante)

Troviamo, ancora, la descrizione esatta di una società che si è trasformata diventando policentrica, per ricordare quanto insegnatoci dal funzionalismo sistemico di Luhmann: la società muta, si frammenta e la religione perde il suo ruolo di centralità, essa non è più il fulcro del sistema sociale, diventa un sub-sistema fra gli altri smarrendo la sua funzione integratrice, la società diventa policentrica: non c’è più quell’asse di equilibrio che nelle società tradizionali era caratterizzato dalla dimensione religiosa che a tutto era intrecciata e tutto regolava. In famiglia parlare di religione non è più scontato, così come a scuola, mentre dall’esperienza qui riportata emerge un contesto che ruotava intorno alla parrocchia, alla chiesa locale.

Nell’esperienza di Eugenio è messa in risalto non solo la centralità della dimensione religiosa nella vita di tutti i giorni ma proprio il ruolo del parroco, estremamente presente in quanto figura educativa affiancata ai genitori:

Allora io... come paolano, a Paola che cosa c’è? Lo sai, no? C’è San Francesco, noi... quando eravamo ragazzini, ci riunivamo con i genitori e andavamo a finire al Santuario e distava da dove abitavo io 7 chilometri, e facevamo 7 chilometri ad andare e 7 chilometri a tornare! Poi... andavamo alle scuole medie, certe volte ci giocavamo la scuola e dove andavamo? Al Santuario di San Francesco... immancabilmente eravamo lì. Questa era la vita che si faceva quando noi eravamo ragazzi... poi ognuno di noi aveva la sua parrocchia... e io dico sempre che, una volta, i preti basta che... si andava a confessare, basta che gli dicevamo che avevamo, per esempio: “Sai Don Benedè, ho bestiemmato...” e lui PAM! Certi schiaffi! Mamma mia! (sorride)

(Eugenio, 78 anni, credente praticante)

Emerge, un elemento nuovo, l’essere “Paolano”: essere italiani è, spesso, presupposto dell’essere cattolici, essere calabresi e, nello specifico, “paolani” presume non solo il cattolicesimo ma anche la devozione a San Francesco di Paola, santo molto venerato in Calabria e baluardo di orgoglio per gli abitanti della tirrenica cittadina natale del patrono.

111 Nei brani dell’intervista di Eugenio si colgono i tratti di quella religiosità tipicamente meridionale, ancorata alle tradizioni e protesa alla difesa e alla custodia di quella memoria collettiva. Nelle sue parole si scorgono tracce di quel “basso continuo religioso” 255, tratto specifico della società meridionale che rimane sullo sfondo, nonostante i grandi mutamenti storico-sociali, nonostante le variegate esperienze della propria vita; esso rimane presente, caratterizzando il modo di pensare e di agire, definendo la propria visione del mondo.

La vita dei ragazzini, dice Eugenio, ruotava intorno al santuario di Paola che rappresentava la meta preferita da raggiungere in famiglia ma anche nei giorni in cui si marinava la scuola. Tratti della religiosità meridionale, intrisa di devozione e venerazione ai santi percepiti come mediatori ma, tante volte, come divinità stesse.256

Rispetto alla figura del prete è messo in evidenza un ruolo diverso rispetto a quello che ha oggi: si trattava di una vera e propria figura educativa, autorizzata a dare degli “scappellotti” quando lo riteneva opportuno, un atteggiamento assolutamente normale a “quei tempi”.

La “discendenza e la trasmissione credente”

Emerge dal racconto di Franca e di Eugenio la distinzione fra due tipi di società che, sociologicamente, abbiamo imparato a chiamare società “tradizionale” e società “moderna”. Vivendo entrambi i contesti è stato pressoché spontaneo per la generazione più adulta fare un paragone fra “ieri e oggi”.

Il cambiamento sociale che ha interessato la religiosità spostandola dal centro alla “periferia” della società, secondo la signora Franca non ha avuto effetti negativi, il suo riferimento è ai giovani, formati in modo diverso rispetto alla sua generazione ma, a suo avviso, più preparati e consapevoli:

Credo che allora era più una fede… trasmessa, magari, da persone che non avevano studiato insomma… c’era anche chi era preparato, anche a scuola… ma, forse, oggi, c’è più sincerità, penso che i giovani che sono praticanti siano anche più preparati di noi perché leggono di più, c’è internet, la televisione, sono più informati, sanno più cose, noi che cosa sapevamo? il ragazzo ha la possibilità di formarsi una coscienza più… ha i mezzi a disposizione per farlo se vuole approfondire può farlo più oggi… io, quando li guardo i giovani di oggi li vedo molto preparati... oggi, secondo me, lo sono per convinzione, magari una volta si andava in chiesa anche perché non c’era altro, si andava per incontrare qualcuno, anche la ragazza, erano delle uscite che si facevano perché non c’era altro… oggi invece no, penso di no.

(Franca, 68 anni, credente militante)

Se è vero che l’ambito religioso non ha più l’importanza sociale di un tempo, è anche vero che l’informazione, le esperienze che i giovani fanno nella frammentarietà odierna, potrebbero renderli più consapevoli, più preparati e più coscienti delle loro scelte riguardo alla dimensione della fede.

In un ambiente plurale come quello odierno, credere diventa una scelta e, proprio da questo, deriva la maggiore consapevolezza. Le affermazioni di Franca concordano con quanto osservato da Bellah il quale, ricordiamo,

255 Cfr. D’Agostino, op. cit.

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riflettendo sul significato della secolarizzazione, sottolinea che la religiosità odierna, rispetto al passato, sia espressa, forse con meno forza “quantitativa” ma con maggiore libertà e consapevolezza. L’autore descrive in questo senso, la secolarizzazione come processo di emancipazione dell’uomo che, svincolandosi dai vincoli tradizionali, riesce a vivere in modo più convinto e consapevole le proprie credenze257.

Non è della stessa opinione Eugenio che spicca fra quelli che nel corso del nostro lavoro indicheremo come “tradizionalisti”, intendendo per tradizionalismo ciò che Weiner ha definito un “atteggiamento culturale che concepisce la tradizione come essenzialmente statica e considera le credenze e le pratiche ereditate dal passato come immutabili”258. In questo

atteggiamento emerge una sorta di chiusura verso l’innovazione, o comunque, verso prospettive diverse e proprio tale chiusura costituisce, spesso, una rottura nel dialogo fra generazioni diverse, tra anziani e giovani, soprattutto:

Da un punto di vista religioso era meglio prima, perché si credeva a questo, 15 anni, 16 anni noi eravamo ancora nella fanciullezza... adesso già ad otto, nove anni, i ragazzini ti mandano a quel paese come se niente fosse! Non c’è paragone fra sessant’anni fa e adesso... noi eravamo ragazzi che ci accontentavamo di cose semplici, c’era pure il gioco, però la dottrina si doveva seguire! Ma non perché lo dicevano i genitori ma perché noi lo sentivamo! Noi non è che avevamo le discoteche, non avevamo nemmeno la corrente elettrica in casa quando eravamo piccoli... figurati... oggi ci sono troppe distrazioni, non c’è quella genuinità...

(Eugenio, 78 anni, credente praticante)

Essere religiosi “una volta” significava, innanzitutto, essere educati: ritorna la dimensione sociale della religione, strumento che abitua a saper vivere in modo corretto e rispettoso.

Il fatto che oggi si sia persa la dimensione religiosa, secondo Eugenio, è causa di maleducazione e mancanza di rispetto di molti ragazzi, nei confronti degli adulti. Accanto al rispetto per gli altri, è posto l’accento sul rispetto per la “dottrina”: ai sui tempi, si sentiva il dovere di andare a Messa, alle processioni, tutto è raccontato come un intreccio di elementi che costituivano un modo di vivere più “genuino”, fatto di cose semplici, dove si era più religiosi e, quindi, più “educati”.

L’esigenza di educare le nuove generazioni dando loro norme e valori