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CAPITOLO QUINTO

5.3 Il ruolo e il significato della fede nella vita quotidiana: sguardi all’aldilà e all’al di qua

5.3.3 Lo sguardo degli anzian

Anche fra gli anziani e, ancora una volta, soprattutto fra i militanti, emerge una percezione molto intensa della fede, strettamente collegata alla vita quotidiana e alla credenza in una dimensione altra cui tendere:

La fede è una vita che vivi con Cristo, non vivi se tu non metti la preghiera, non metti il sacrificio, non metti il tuo aiuto per gli altri, non accetti l’altro con i suoi difetti … vedi io non ho figli, non mi sono sposata, forse anche per questo la vita con Cristo è così centrale ma credo che sarebbe stato così in ogni caso, o vivi con Lui o non vivi secondo me, non fai una vita autentica, per me è così.

(Franca, 68 anni, credente militante)

Vivere credendo in Dio diventa sinonimo di vivere in modo “autentico” e la vita stessa è percepita nel suo insieme di gioie, problemi, sacrifici, rapporti, come un cammino da fare alla luce della propria credenza in Gesù Cristo, senza il quale “non si vivrebbe” o meglio, non si potrebbe capire il vero senso dell’esistenza. L’intervistata sottolinea il fatto di non essersi sposata, questo, potrebbe, rendere ancora più centrale il suo rapporto con la fede religiosa che, in presenza di una famiglia, forse, avrebbe potuto “distrarla” da ciò che lei definisce il fondamento della sua esistenza.

Molto intensa anche la testimonianza di Salvatore:

Io con la fede ho cominciato proprio una vita nuova. senza Dio non siamo nulla e non facciamo nulla... puoi pure sapere la Bibbia a memoria ma se non hai Dio dentro che ti trasforma nella vita, nell’esistenza, non hai concluso niente! È nell’esperienza di vita che ti deve trasformare, se no non ne ricavi niente.

(Salvatore, 66 anni, credente militante)

La fede rappresenta una dimensione scoperta nel corso dell’esistenza e definita come qualcosa che ha dato inizio ad una vita “nuova”, diventando consapevole che credere in Dio trasforma radicalmente la propria esperienza di vita, al punto da convincersi che senza Dio non si può niente. Per ribadire questa sua convinzione Salvatore afferma ancora:

Guarda, quando io sentivo dire: “La fede è una ricchezza” dicevo: “Ma chissi fissianu? Na casa, n’appartamento sì, ma a fede è na ricchezza?” (ride), eppure, adesso l’ho capito, è davvero una grande ricchezza... l’altra volta leggevo un libro dove c’era scritto che chi è religioso non capisce, è come se fosse addormentato, drogato... si forse è così, ma io dico che chi non ce l’ha la religione, non è addormentato, è morto!

(Salvatore, 66 anni, credente militante)

L’intervistato rimanda spesso a quella fase della vita in cui era lontano dalla dimensione religiosa, quando la percepiva come qualcosa di evanescente al punto da ritenere ridicola l’espressione che di tanto in tanto sentiva pronunciare rispetto alla “ricchezza” della fede. Oggi, la sua posizione è cambiata, Salvatore ha fatto un’esperienza di conversione che gli

167 fa affermare di essere rinato nel momento in cui ha sperimentato la dimensione religiosa, al punto da “confutare” le tesi materialiste che indicano nella religione un elemento di assuefazione delle facoltà individuali. L’idea di Salvatore è che chi crede, forse, dorme come sotto l’effetto di oppiacei, ma chi non crede non dorme non nel senso che è sveglio ma nel senso che è morto.

Si tratta di una fede posseduta e orientata all’aldilà ma che detiene una forte importanza anche nella sfera ordinaria della vita quotidiana:

Dio ha mandato Gesù Cristo su questa terra per portare il perdono, senza questo non c’è niente, questo è tutto. Perché il perdono ti rivoluziona dentro l’anima. Lo so che è molto difficile, va al di là delle forze umane, ma lo stesso fatto di credere, dall’ebraico, significa andare oltre, mandare il cuore oltre... allora se tu ti fai coinvolgere nel tuo io, togli il tuo io e metti Dio, solo così riesci a perdonare, altrimenti è impossibile... Se tu non perdoni, in quel momento ti sembra di aver soddisfatto i tuoi istinti momentanei, no? in realtà tu non hai vinto, tu in quel momento avevi un’arma molto potente di poter soddisfare Dio... e tu ne uscivi vincitore, senza distruggere... invece, se non perdoniamo, distruggiamo noi stessi, hai distrutto l’altra persona... hai ottenuto una distruzione totale! Se la tua esistenza la fai incamminare in questa dinamica tu gusti la vita, rendi la tua vita piena di gioia, perché Cristo punta alla gioia. Scusa se mi lascio trasportare ma questa è... la mia esperienza... io ho conosciuto Dio come il ladrone che era in croce vicino a Gesù, praticamente mi sentivo in croce, nella disperazione e lì l’ho conosciuto e mi ha cambiato la vita.

(Salvatore, 66 anni credente militante)

Dalle parole di Salvatore emergono, immediatamente, due elementi: la conoscenza religiosa, da un lato, l’esperienza personalmente vissuta e sentita dall’altro. Ciò ha letto, studiato e approfondito consegue della sua ricerca interiore, durante la quale faceva esperienza di quella fede che stava cercando di conoscere.

È l’esperienza della conversione “interna”287 alla stessa religione di “nascita” che ad un certo punto viene riscoperta e in base ad essa viene rivalutata tutta la propria vita.

Scoperta la dimensione di fede, cresce anche la volontà di capire, di sapere. Nel concetto di perdono Salvatore trova il senso della vita e delle sue azioni che lo spingono a vivere in modo diverso rispetto a prima la sua quotidianità, orientandola alla comprensione e al perdono ma sempre nell’affidamento a Dio nel quale viene raffigurata la forza operatrice che consente di agire bene, riuscendo ad andare oltre ai propri limiti umani. Salvatore è proiettato nella dimensione dell’aldilà e più che viverla come una speranza, la vive come certezza data dal significato stesso del termine

credere, inteso come “andare oltre” a ciò che si vede e si comprende

razionalmente, per fare spazio a ciò che si sente e che, nel suo caso, ha trasformato, l’approccio al mondo, agli altri e alla vita.

Dall’esperienza di Franca e di Salvatore è emersa chiaramente una prospettiva trascendente che offre senso e capacità di interpretare gli eventi della propria esistenza, allo stesso tempo, essa rappresenta un corpo di valori e di riferimenti ritenuti validi e convincenti per vivere la quotidianità tenendo

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lontane ansie e paure che potrebbero prendere il sopravvento se non si avesse un riferimento altro in cui cercare risposta. Lo sguardo all’aldilà non è vissuto come meta ma come credenza intrinsecamente “necessaria” per avere protezione e rassicurazione rispetto a quello che accade durante la vita:

E sapessi tu, quante cose si superano con la fede... ma bisogna credere veramente... ed è molto difficile... infatti, la croce è piena di sangue, questo che significa? Che non è una pacchia! È difficile ma se ci riesci ti dà una forza che tu non hai idea e io questo l’ho vissuto sulla mia pelle...

(Francesco 66 anni, credente militante)

La credenza, se sincera, dice Francesco, diventa forza e accettazione anche della sofferenza che viene letta, a sua volta, in una chiave trascendente, ad essa si trova un senso e così diventa possibile accettarla.

È proprio nell’attribuzione di senso che torna la razionalità dell’agire religioso ed è proprio tale razionalità a rafforzarlo e a renderlo più convincente e stabile nell’esperienza quotidiana.

È quanto emerge anche dalle parole di Eugenio, 78 anni:

Senza fede tante cose nella vita come le avrei affrontate non lo so, è un aiuto grande ma uno lo deve avere sempre, non solo nel bisogno... solo una cosa gli chiedo a Dio di farci stare bene, a me, a chi mi vuole bene e a chi mi vuole male, non è che io posso augurare al male a qualcuno perché io non ci vado d’accordo, che io chi sono? Io non merito niente, io glielo dico sempre: “Dio mio, perdonami, io non merito niente”.

(Eugenio, 78 anni credente praticante)

In questo caso emerge uno sguardo utilitaristico alla credenza, si confida in Dio per stare bene, qui e ora, consapevole che non si dovrebbe interpellare Dio solo nel momento di bisogno, l’unica cosa che gli si chiede è di stare bene tutti, amici e nemici, ma il riferimento è sempre alla vita “terrena”, la richiesta è quella di allontanare i rischi della malattia, della sofferenza e della morte. È la credenza in un Dio Padre che accudisce e protegge. Quando la sofferenza arriva, tuttavia, ciò di cui si ha bisogno è capirne il perché, avere la speranza che quella non sia la fine, è in questi casi che la credenza assume un ruolo di spiegazione-rassicurazione rispetto alla vita nel mondo:

Guarda la fede è come una colonna cui appigliarsi... io non avrei potuto affrontare tante cose se non avessi avuto la fede. Ricordo quando è morto mio fratello... ma poi mi sono ripresa, anzi proprio la fede, la preghiera mi hanno aiutato... poi proprio nella sofferenza la fede aumenta perché si può cogliere l’aiuto di Dio che ci sta vicino e che ci dà la forza... anche se non sempre è facile...

(Angela, 79 anni, credente praticante) Nell’affidarsi a Dio riesci a superare tante paure, tante delusioni… tante domande… sul male e la sofferenza che c’è al mondo… tutto si vede in un’ottica diversa, si cerca di uscire dall’ottica prettamente umana e ci si chiede piuttosto come Dio vorrebbe che noi ci comportassimo di fronte a diverse situazioni che quotidianamente ci capitano...

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Se si ha fede … si superano le difficoltà e si soffre anche con più … certo non come i santi, come i martiri però penso che bisogna seguire la via di Cristo e pregare anche che ci allontani dai pericoli che ci sono oggi, la fede, quindi, è molto importante per sfuggire a quei pericoli come la droga, allora, io dico, se avessero capito davvero il senso della vita forse non si comporterebbero così.

(Antonietta 75 anni,credente militante)

Nei casi sopracitati lo sguardo è rivolto all’aldilà per vivere meglio l’al

di qua, per non avere paura e diventare più forti. Chiaramente si fa

riferimento, spesso, a situazioni particolarmente critiche, di fronte alle quali sarebbe più facile cadere in disperazione. Non mancano però, i riferimenti alla dimensione religiosa, anche in merito alla vita di tutti i giorni, come abbiamo visto anche dalle esperienze di giovani e adulti. In questi casi la fede rappresenta un corpo di valori ritenuti giusti e ai quali ci si conforma ritenendoli adatti alla costruzione del benessere sociale, a prescindere dal credere o meno in una dimensione altra:

La fede è seguire Cristo, cioè averlo come esempio, seguire la sua via credo che non faccia male a nessuno... basta che facciamo una cosa sola: amare gli altri come noi stessi, ogni giorno. Questo significa essere cattolici in tutti i sensi.

(Eugenio 78 anni, credente praticante) É chiaro che nella vita individuale c’è bisogno di qualcosa... c’è bisogno di alcuni valori e senza questi valori ci si sente spaesati, ecco perché si arriva al semiabbandono o anche al suicidio... anche di giovani che forse questi valori non li hanno trovati o non li hanno nemmeno cercati... questo è il mio parere... la fede è uno stile di vita orientato all’amore e al perdono... non è una cosa a cui aggrapparsi quando si ha paura, avere fede... essere cristiani, cioè seguire Cristo è una responsabilità, è una scelta coraggiosa ma, certamente, quella giusta.

(Filippo, 80 anni, credente praticante)

“La fede è uno stile di vita”, in questa frase è racchiuso il significato e il ruolo della fede nell’esperienza di Filippo, che parla soprattutto di valori necessari, senza i quali ci si sentirebbe spaesati, abbandonati e soli. Valori di cui avrebbero bisogno soprattutto le nuove generazioni, immerse in una società sempre più incerta e disgregata. La funzione attribuita alla religione è tipicamente durkheimiana: condividere e vivere determinati valori e norme, allontanerebbe il rischio dell’anomia e della solitudine che, in alcuni casi, potrebbe sfociare con il rifiuto stesso della vita.

In questo senso si tratta di una dimensione che pervade ogni sfera della quotidianità, emblematica l’affermazione di Angela che descrive con molta efficacia questo aspetto:

La fede è la bussola della mia vita, io non faccio l’avvocato? Anche se io vinco, cerco sempre un accordo con l’altra parte... agisco secondo i miei principi e cerco di farli capire anche ai miei clienti peggiori!

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Anche Giancarlo, 72 anni, si riferisce principalmente al valore “sociale” e “civile” della religione:

Essendo credente è chiaro che ciò che faccio lo faccio pensando all’amore come valore assoluto, senza prevaricare nessuno, questa componente libertaria me la sento addosso, è imprescindibile proprio… sono accondiscendente però l’atto risolutivo finale scaturisce sempre da una mia convinzione in base alle circostanze in cui mi trovo e poi, al di là della fede, è proprio con una responsabilità civile che questo sentimento universale dell’amore si va a conciliare... nella vita civile trova il suo compimento, poi se nel rapportarmi con gli altri si entra nel discorso io parlo del cristianesimo, difendo la bontà dei suoi valori in ambito sociale proprio...

(Giancarlo, 72 anni, credente non praticante)

Il fatto di essere credente-cristiano è rappresentato come precondizione naturale a vivere basandosi sul principio dell’amore, inteso come rispetto della libertà altrui e come valore cardine della società civile. “Aldilà della fede”, è messa in evidenza la validità sociale dei valori cristiani, l’utilità che essi detengono nella vita concreta fatta di relazioni, confronti, divergenze. Il cristianesimo, è difeso non da un punto di vista teologico ma da un punto di vista sociale. Torna qui il parallelo con la religione civile.288

Si tratta di un elemento che trova conferma anche nelle parole di Angela, praticante di 79 anni che afferma:

La fede dovrebbe avere un ruolo centrale nella società, proprio per i valori che ha... che sono anche i valori laici di non... “lascia agli altri ciò che non è tuo”, ci sono dei valori laici che sono uguali a quelli della tradizione cattolica, cioè quello di non fare male a nessuno, di non prendersi la roba gli altri, insomma come se fosse il decalogo... allora se un laico sta dietro questi valori e ne fa dei principi propri sicuramente vive meglio e fa vivere meglio anche gli altri, io la vedo così.

(Angela, 79 anni, credente praticante)

“Vivere meglio e far vivere meglio gli altri”, anche in questo caso essere credenti è descritto con questa duplice utilità e, soprattutto, accostando i valori cattolici ai valori del “buon cittadino”.

Le affermazioni di Sara, invece, riportano più strettamente alla dimensione quotidiana e domestica dove l’essere credente si manifesta in tante piccole accortezze comportamentali:

Tante cose che vedi le interpreti e le fai andare diversamente essendo credente… come se per esempio uno dice una parolaccia o una bestemmia tu non la dici, in casa si cerca di mantenere la calma... di non arrabbiarsi... ci sono anche delle regole da seguire... Si deve vivere bene, se no non stai bene con te stesso se ci sono liti, bestemmie... no, no... ci deve essere l’armonia, l’allegria... se no... io lo sai quante ne sento? Se volessi sempre fare guerra... invece io sono sorda e così si vive meglio e fai vivere meglio le persone che ti stanno accanto... e questo fa parte sempre… di un gene che poi va sempre avanti con l’età e con l’esperienza.

(Sara, 70 anni, credente non praticante)

171 Il fatto di credere prende forma in una serie di comportamenti indirizzati, essenzialmente, a mediare i conflitti, a promuovere l’armonia in famiglia, a lasciar passare tante cose che normalmente infastidirebbero.

Dall’analisi delle testimonianze raccolte, è emersa, spesso, una funzione educativa della religiosità, presente sia fra i praticanti, sia fra i non praticanti. Questi ultimi, in particolare, anche se spesso lontani e critici nei confronti dell’istituzione, riconoscono l’utilità sociale della dimensione religiosa, strettamente legata a quello che abbiamo definito “al di qua”.

Diametralmente opposta la posizione di Lucia che a tal proposito afferma:

Dipende da come la vivi la religione, il credere è sempre un credere in Dio, però se io se io, per esempio, faccio cose che non hanno niente a che fare con la religione, la religione che centra? Non lo vedo un nesso … poi nel rapporto con gli altri, si … io non è che dico che debba esserci un disaccordo fra un ambito e l’altro, però … anche se si deve mandare al paese una persona ci penso cento volte però non centra la religione, credo che è proprio una cosa mia, di carattere … pure se devo mandare a quel paese qualcuno e sono convinta della mie ragioni ce lo mando per direttissima e non mi interessa niente, però devo essere convinta che è giusto quello che gli devo dire ma … non ha a che vedere con la fede, per me no…

(Lucia, 69 anni, credente non praticante)

La fede, in questo caso, non entra nella vita quotidiana, è qualcosa a sé stante che ha a che fare con l’esperienza interiore del soggetto e che non centra con le proprie azioni quotidiane, influenzate, più che altro dalla propria educazione e dal proprio modo di essere.

Riassumendo emergono diverse funzioni attribuite alla credenza religiosa, in riferimento sia alla dimensione individuale sia a quella sociale. Da un lato, infatti, essa “serve”all’individuo come sostegno di fronte alle incertezze della vita, dall’altro “monitorando” i comportamenti individuali e offrendo valori morali collettivamente condivisi, serve alla società contribuendo a mantenerne l’ordine e la coesione.

Da ogni esperienza sono emersi elementi caratteristici, indubbiamente intrecciati ai percorsi di vita ma ciò che qui sembra interessante rilevare è la razionalità del credere, a prescindere dalla direzione dello sguardo, rivolto all’al di qua o all’al di là, la credenza espressa è sempre motivata e dotata di senso, rispecchiando pienamente quello che con Max Weber abbiamo imparato a chiamare agire razionale.