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La ricerca di una definizione di Terzo settore

Il mutamento del Terzo settore

3.1 Definire il Terzo settore

3.1.2 La ricerca di una definizione di Terzo settore

Ora, sebbene le riflessioni sulla società civile esistano da lungo tempo, è invece solo a partire dalla fine degli anni Settanta che emerge la necessità di definire cosa sia quel settore “terzo” rispetto a Stato e Mercato. L’emersione del Terzo settore pone le basi per il superamento del concetto di società civile come corpo intermedio, di mediazione fra popolo e istituzione, e rivendica una natura non residuale o di mediazione, ma propria a tutto tondo.

Rispetto al dibattito sulla ricerca di una definizione di Terzo settore Zamagni (2011b) evidenzia come dall’attenzione agli attori e alle attività sia anche necessario considerare i processi:

È noto che le tante definizioni di Terzo settore riscontrabili nella letteratura dell’ultimo quarto di secolo fanno quasi tutte esclusivo riferimento a tre termini, che costituiscono altrettanti elementi di distinzione: chi; cosa; perché. Quanto a dire che i vari enti non profit si differenziano tra loro o per l’elemento soggettivo (chi sono gli attori) o per l’elemento oggettivo (la specifica attività svolta o il settore di intervento) o per l’elemento teleologico (il fine particolare che l’ente si propone di conseguire) oppure ancora per una combinazione di tutti e tre gli elementi. Ciò che questa prassi classificatoria lascia in ombra è un quarto termine: come; vale a dire il modo in cui il soggetto di cui trattasi cerca di conseguire il fine che dà senso alla sua mission nel particolare settore di intervento in cui ha deciso di operare. Eppure, in un mondo come quello del Terzo settore, il come si produce (o si opera) è altrettanto importante del cosa e del perchè si produce (Zamagni 2011, 16).

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Non è infatti la sola qualifica di ente di Terzo settore, il compiere determinate attività o la motivazione dichiarata, ad esaurire gli elementi necessari per comprendere la natura sociale di un attore e le sue pratiche, ma è fondamentale capire come queste pratiche e questa identità sono espresse. In questo senso Terzo settore può essere inteso non tanto come attore quanto come processo. Significativamente questo elemento diventa fondamentale oggi da tenere in considerazione per via della nascita di ibridi quali l’impresa sociale: non è solo il fine o il modello organizzativo a rendere l’impresa sociale, ma come essa persegue questi obiettivi.

Qui di seguito voglio analizzare le principali linee argomentative che hanno contribuito alla definizione del concetto di Terzo settore. Le suddivido come segue: (i) le definizioni degli economisti classici, (ii) le definizioni a partire dal capitale sociale, (iii) la definizione strutturale-operazionale, (iv) la definizione della sociologia relazionale, (v) le definizioni a partire dal concetto di sussidiarietà orizzontale. Dividere la letteratura in questo modo permette di distinguere la differenza tra gli approcci disciplinari nel definire il Terzo settore e offre una prospettiva storica sull’emersione del concetto: per questa ragione affronto prima le definizioni dei primi economisti negli anni Settanta e le definizioni legate al concetto di capitale sociale, il che permette di analizzare il Terzo settore dalla prospettiva degli economisti e dei politologi. Dedico in seguito uno spazio specifico alla definizione strutturale-operazionale della Johns Hopkins University in virtù della rilevanza che questa ha avuto nella costruzione di una mappa statistica del settore a livello globale a partire dagli anni Novanta. La sociologia relazione permette di porre in luce il processo di differenziazione sociale che ha condotto alla definizione del Terzo settore. Infine, dalla prospettiva delle politiche sociali è utile analizzare la relazione del Terzo settore con le amministrazioni e servizi pubblici. L’insieme delle letterature che descrivo qui di seguito è finalizzata a porre in evidenza, tramite gli sforzi compiuti da parte di studiosi di differenti discipline e ambiti di ricerca, l’uscita del Terzo settore dal collateralismo alla politica e dalla subordinazione al mercato contemporaneamente all’affermazione di una sua definizione, sempre più condivisa.

Per quello che riguarda l’Italia, rispetto alle principali linee argomentative, le riflessioni negli anni Novanta sono stati «spesso caratterizzate da toni prescrittivi» (Busso e Gargiulo 2017, 107). Le visioni sul Terzo settore così, evidenziano Busso e Gargiulo, si erano divise sostanzialmente in due: una visione di matrice “cattolica e comunitaria” da un lato, che si richiamava al concetto di dono e al ruolo della famiglia e del volontariato nel welfare, e una di “orientamento progressista e solidaristico”, che si richiamava invece all’associazionismo e al ruolo della cooperazione sociale (ivi). Qui, terrò in considerazione anche il panorama internazionale, per via della forte spinta alla quantificazione

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economica e statistica del Terzo settore. L’excursus che segue sarà quindi utile all’analisi dello sviluppo di una disciplina a sé, che ha condotto alla fuoriuscita dalla logica residuale il Terzo settore e la società civile.

3.1.2.1 L’emersione del Terzo settore negli studi economici

Le prime analisi sull’emersione del Terzo settore sono avvenute in ambito economico. Le teorie economiche ne analizzavano lo sviluppo raffrontando la sua crescita con la retrocessione dello Stato o del mercato, per questo sono classificate da Salamon, Sokolowski e Haddock (2017) come preference theories. Gli economisti sono i primi ad interessarsene in quanto il non profit stava diventando un forte concorrente, sul piano economico e dei servizi sociali, di Stato e mercato. Le teorie economiche fondate su assunti classici basano le loro analisi sul concetto di homo

oeconomicus, di utilità e interesse, con un approccio essenzialmente

individualista. Le definizioni elaborate in questo ambito si incentrano essenzialmente sulla caratteristica distintiva della non profitness e adottano un paradigma individualistico-razionale.

Il primo ad occuparsi dell’emersione del Terzo settore negli anni Settanta, Weisbrod, lo definisce sulla base di tre requisiti (1988): (i) il non distribution

constraints, cioè il divieto di distribuzione di utili e profitti, (ii) l’esenzione dalle

imposte e (iii) gli ulteriori vantaggi economici (ad esempio le detrazioni fiscali per i donatori).

Le teorie economiche sono divise in tre tipi: dal punto di vista della domanda si individuano (i) le teorie del fallimento dello Stato e (ii) le teorie del fallimento del mercato, dal punto di vista dell’offerta (iii) le teorie che si soffermano sulla

performance della organizzazione di Terzo settore.

L’approccio teorico del fallimento dello Stato è stato sviluppato da Weisbrod (1975, 1991, 1998), il quale ha realizzato uno studio sistematico sullo sviluppo del Terzo settore negli anni Settanta. Nel 1975 Weisbrod ha scritto il suo primo saggio sulle organizzazioni non profit nel contesto statunitense e successivamente vi ha dedicato il resto della carriera. Il nucleo teorico dell’Autore è la tesi per la quale le organizzazioni non profit (ONP)54 si siano sviluppate in ragione di un fallimento dello Stato (government failure), non più in grado di fornire i beni necessari alla

cittadinanza, ciò condurrebbe a una maggior propensione dei singoli cittadini a donare. La teoria di Weisbrod è stata sottoposta a differenti test empirici, da ultimo l’analisi di Salamon, Sokolowski e Haddock (2017) che la ritiene fallace,

54 Weisbrod, e gli altri esponenti delle preference theories definiscono il Terzo settore come “settore non profit” e gli attori “organizzazioni non profit” (ONP), definizione che mette in risalto la mancanza di profitto, che è fondamentale in quanto è l’elemento che rende più difficilmente utilizzabile il concetto di homo oeconomicus in questo tipo di analisi.

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sulla base della correlazione positiva fra propensione del governo nella spesa sociale e la dimensione della società civile e la correlazione non significativa fra aumento della filantropia e una diminuzione del contributo del governo al settore della società civile. Ulteriori critiche (Zamagni 1998, 18-19) rivolte alla teoria di Weisbrod sono la mancata considerazione dell’esistenza di comportamenti di free-riding, l’esistenza di teorie che riescono a dimostrare la soddisfazione delle richieste di beni pubblici da parte dei cittadini e la mancata efficace spiegazione del perché a parità di condizioni, in caso di government

failure, le organizzazioni non profit dovrebbero avere una posizione sul mercato

privilegiata rispetto alle organizzazioni for profit.

La teoria del fallimento dei contratti è sviluppata da Hansmann (1980). Quest’ultimo risponde all’ultima domanda che ci siamo posti in rifermento alla teoria di Weisbord, ossia la ragione della prevalenza sul mercato di un’organizzazione non profit rispetto a una for profit. La soluzione risiederebbe nella asimmetria informativa fra consumatore e imprenditore, ineliminabile per quanto riguarda il mercato “tradizionale”, mentre non esistente nel caso di un rapporto fra individuo e impresa non profit. In quest’ultimo caso infatti i cittadini sono molto più fiduciosi nei confronti della organizzazione fornitrice dei servizi, perché in quanto non profit avrebbe meno ragioni di non essere trasparente, non avendo di fatto nessun “utile” da ottenere dal cittadino. Ortmann e Schlesinger (1997) descrivono tre sfide che l’ipotesi – che essi definiscono della “fiducia” – incontra per potere essere verificata, ossia (i) la reputational ubiquity, (ii) l’incentive

compatibility e (iii) l’adulteration. La prima considerazione riguarda appunto

l’importanza della reputazione per qualsiasi tipo di organizzazione. Anche un’organizzazione for profit tenderà a ridurre i propri comportamenti opportunistici, proprio per conservare la propria platea di clienti. In secondo luogo, anche i lavoratori e managers di un’associazione non profit possono comunque trarre vantaggi da comportamenti opportunistici e non trasparenti, il vincolo della non profitness non garantisce di per sé un comportamento “affidabile”. In terzo luogo, infine, si osserva come l’espansione del Terzo settore, oltre a comportare benefici, possa anche attirare imprenditori poco etici che con l’obiettivo di concorrere in situazioni economicamente vantaggiose decidono di investire in un’impresa non profit piuttosto che in una for profit, più gravata da tasse e vincoli normativi. Anche Salamon, Sokolowski e Haddock (2017, 66-67) testano questo tipo di teoria per verificarne la funzionalità. La decisione è di testare l’ipotesi non in generale, ma in particolari fette di mercato dove si trova in competizione il settore non profit con quello for profit, per controllare l’ipotesi della fiducia. Sostengono che i due ambiti in cui sono più facilmente ravvisabili le ipotesi prospettate dalla teoria del contract failure sono l’ambito dei servizi all’infanzia e dei servizi agli anziani, nei quali, per via del tipo di utente del servizio è più difficile che operino i classici meccanismi del mercato. Ma in questi

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ambiti negli USA continua a essere ravvisata una prevalenza del settore for profit – che occupa due terzi del mercato – ed è per altro in costante crescita.

Come rileva Zamagni (1998, 21) sia la teoria di Weisbord sia quella di Hansmann si basano sul presupposto che in un contesto di mercato funzionante o Stato funzionante il Terzo settore non avrebbe ragione di esistere, continuando quindi a considerare l’emersione del Terzo settore come un fenomeno di carattere residuale, espressione di una patologia dei “veri” settori.

Infine, considerando il lato dell’offerta la proposta teorica è quella di Young (1983) e James (1983). Queste teorie non partono dal punto di vista della domanda, in quanto ritengono che Hansmann e Weisbord non si siano sufficientemente interrogati sulle motivazioni che inducono un imprenditore a intraprendere un progetto nel campo non profit piuttosto che in quello for profit. L’imprenditore non profit, sarebbe un soggetto che ricava utilità diverse da quelle monetaria nel gestire la sua impresa, ossia una persona motivata da particolari ragioni ideali o religiose, non interessata tanto nella produzione del servizio in sé, e dal guadagnarne un vantaggio economico, quanto nella diffusione della sua causa. Questa teoria può essere letta assieme alle teorie precedenti, come risposta, oltre che dalla prospettiva della domanda, anche di quella dell’offerta, per comprendere lo sviluppo del settore non profit. Salamon, Sokolowski e Haddock (2017, 59) ritengono che la compatibilità di questa tesi con le precedenti teorie sia la sua stessa debolezza, dal momento che anche quest’ultima per poter essere verificata necessiterebbe della prova empirica, sino a oggi non verificata, che a un maggiore investimento del governo nelle spese sociali, minore dovrebbe essere lo spazio nel mercato del settore non profit.

Non solo gli economisti si sono interrogati sulle ragioni macro dello sviluppo del settore, ma altresì a livello micro. Hanno provato, sulla base degli innegabili mutamenti del mercato, a mettere in discussione l'ortodossia dell’assioma dell’homo oeconomicus. Quest’ultimo, individuo astratto, definito per la prima volta da J.S. Mills, è il soggetto agente sul mercato che cerca sempre di ottenere il massimo vantaggio per sé stesso, sulla base delle informazioni che ha a disposizione e sulla base delle sue personali capacità di raggiungere un determinato obiettivo. Questo soggetto astratto è razionale ed egoista, cioè si comporta secondo criteri di coerenza interna che lo inducono a raggiungere razionalmente il proprio obiettivo. Ora, la crescita di imprenditori o di donatori e volontari nelle organizzazioni non profit necessitava l’elaborazione di una nuova interpretazione di homo oeconomicus. James Andreoni (1990) con il suo articolo Impure Altruism and Donations to Public Goods: A Theory of Warm-Glow

Giving elaborò la teoria del warm glow per giustificare la filantropia. Infatti,

seppure sia vero che alcuni donatori, i cd big donors, traggono diretti vantaggi di influenza e di prestigio – se non propriamente fiscali ed economici – dall’atto del

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donare, il donatore medio, quello che dona pochi euro, non vede, rimanendo nell’ambito della teoria economica classica, alcun tipo di vantaggio diretto dall’azione compiuta.

L᾽effetto warm glow consiste in un’aumentata utilità risultante dell’atto del donare addizionata al generale miglioramento del bene pubblico. Coloro che donano per questa ragione sentono di avere “fatto quello che devono” e sperimentano appunto la sensazione di warm glow. Andreoni definisce questi atti altruistici come comportamenti determinati da altruismo “spurio”, guidati ad esempio da incentivi economici, pressioni sociali, senso di colpa, desiderio di acquistare prestigio o dal cd warm glow. Rose-Ackerman (1997) analizza oltre alla motivazione a donare, quelli che definisce gli “ideological entrepreneur”, gli imprenditori non profit di James (1983) e Young (1983).

Un paio di critiche conclusive si possono rivolgere a questo tipo di teorie, che pure sono le prime ad aver dato un impulso ad attuare un’analisi scientifica e complessiva dello sviluppo del Terzo settore, in particolare in America. Pur criticando il paradigma individualista dell’homo oeconomicus, questo rimane il punto di partenza delle loro analisi e non tengono in sufficiente considerazione il contesto macro-economico e le relative relazioni di potere che ne derivano. Differenti studiosi in campo economico hanno elaborato, come visto (§2.3.1), nuove teorie economiche non più basate sui paradigmi dell’economia classica. Ricercano nuove vie allo sviluppo (MAUSS), alla decrescita felice, e in generale cercano un nuovo paradigma su cui fondare le proprie teorie come l’economia civile o solidale.

3.1.2.2 Il Terzo settore e il capitale sociale

Il secondo gruppo di teorie che si sono occupate dello sviluppo del Terzo settore e della società civile, sono quelle legate al concetto di capitale sociale.

La maggioranza della letteratura identifica in Tocqueville [1835-40] (2017) il “capostipite” del concetto di capitale sociale, grazie anche la sua famosa concettualizzazione delle associazioni come “scuole di democrazia” (in particolare Putnam 1993). Salamon, Sokolowski e Haddock (2017, 49) inseriscono le teorie del capitale sociale nelle sentiment theories, considerando la loro origine nella Theory of Moral Sentiments [1759] (2004) di Smith. A partire da Adam Smith, rappresentante dell’illuminismo scozzese, si elaborano teorie che si soffermano sul sentimento che spinge le persone a prendere parte alla società civile organizzata. Come visto in precedenza, l’analisi di Smith, elaborata ne La Teoria

dei Sentimenti Morali, si basa sul concetto del fellow-feeling, ossia il sentimento che

ognuno di noi possiede e ci porta ad apprezzare e compiere atti altruistici gli uni nei confronti degli altri.

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Quindi, il concetto “grossomodo” del capitale sociale è che “le relazioni contano” (Field 2003, 7), che venga analizzato dalla prospettiva del soggetto (da Smith a Coleman) come sentimento di empatia o reciprocità nei confronti dell’altro o in prospettiva dell’associazione (da Tocqueville a Putnam) come luogo di risorse sociali, o ancora in prospettiva relazionale (Donati) come scambio sociale. Le teorie di capitale sociale sono un tassello importante nello sviluppo dell’idea di solidarietà. Infatti, il legame sociale, concetto già in uso dai primi teorici della solidarietà, crea coesione sociale e può essere sia un sentimento che il cemento di una democrazia funzionante. Oggi il concetto di capitale sociale è largamente utilizzato per interpretare i legami di fiducia e reciprocità che ci sono fra le persone e le sue implicazioni (Son e Feng 2018).

Donati (Donati 2011, 142-152) compie una classificazione delle principali definizioni di capitale sociale per poi elaborare la sua l’interpretazione relazionale di capitale sociale. Il sociologo (ibidem) classifica le teorie del capitale sociale in tre grandi paradigmi: il capitale sociale del paradigma individualista- strumentale, il capitale sociale del paradigma olista-comunitario-espressivo e infine il capitale sociale del paradigma relazionale. Bourdieu [1980] (2015) appartiene al primo tipo, ad avviso di Donati, perché secondo quest’ultimo è il singolo individuo a investire nel rapporto relazionale per trarne un profitto individuale. Forse questo significato può essere più facilmente attribuito a Coleman, che viene collocato da Donati fra coloro che oscillano dallo strutturalismo, all’attenzione sul soggetto per individuare il capitale sociale, e coloro che partendo da una prospettiva individualista (Coleman 1988, 1990) finiscono per attribuire al capitale sociale una qualità strutturale.

Nel paradigma olista-comunitario-espressivo ritroviamo ad esempio Fukuyama (1996) e Putnam (1993, [1995] 2000), i quali adottano un approccio “reticolare” al capitale sociale, dove l’individuo “comunitario” fa proprie le norme e l’etica della società. Fukuyama argomenta che in società con alti valori di “fiducia” si creano reti associative, mentre società meno fiduciarie si chiudono di più nei vincoli familiari così che le questioni sociali sono affidate allo Stato. Putnam compie due fondamentali studi uno sull’Italia (1993) e altri sugli USA [1995] (2000) per analizzare il legame fra capitale sociale e civicness. L’Autore ha dedicato particolare attenzione alle associazioni, dichiarando esplicitamente di inserirsi nell’interpretazione tocquevilliana della società civile. Per Putnam le associazioni «contribuiscono alla efficacia e stabilità dei governi democratici» e «trasmettono ai loro membri comportamenti cooperativi, di solidarietà e spirito pubblico» (1993, 89-90). Le associazioni inoltre compongono un network associativo che «incorpora e contribuisce a un’effettiva collaborazione sociale» (ivi). Sono quindi scuole di democrazia, che producono capitale sociale utile alla creazione di una società più democratica e coinvolta negli affari pubblici. La partecipazione civica e la solidarietà sociale sono legate e analizzate per quanto

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riguarda il contesto italiano sulla base di quattro indicatori di civicness: 1) l’effervescenza della vita associativa, 2) la lettura dei giornali, 3) la partecipazione alle elezioni politiche e 4) la partecipazione ai referendum.

Salamon, Sokolowski e Haddock (2017) criticano le sentiment theories a due livelli: da un lato il modello causale utilizzato viene considerato incompleto, in quanto sposta il problema ma non lo risolve: se sono i sentiments (à la Salamon) a creare capitale sociale, cos’è che crea questa propensione individuale? Gli autori (ivi) sembrano considerare le teorie del capitale sociale da una prospettiva individuale - soggettiva, più che comunitaria - olistica, anche nel caso delle teorie di Putnam e Fukuyama. Essi ritengono inoltre che le spiegazioni avanzate da Putnam sulle differenze di capitale sociale nelle diverse regioni d’Italia, basate sulla ricerca storica dei rapporti di potere dal tredicesimo secolo, renda sostanzialmente ridondante la nozione di fiducia o di reciprocità, rilevando più che altro il concetto di path dependency. La critica che viene mossa a queste teorie anche da parte di Donati (Donati 2011) secondo il quale se il capitale sociale non viene inteso in senso relazionale, bensì in senso “categoriale” come stock o asset, è una nozione sostanzialmente superflua, in quanto il concetto di relazione come risorsa è precedente alla nozione di capitale sociale: è evidente che qualsiasi relazione consente all’individuo di avere qualcosa in più (in senso materiale o come vantaggio competitivo) per raggiungere un proprio obiettivo. Ora, la critica di Donati, esaspera forse l’ambiguità concettuale del concetto di capitale sociale usata dai suoi predecessori, che hanno oscillato fra capitale sociale concetto materiale o astratto, appartenente al soggetto o comunitario; non tutti però hanno elaborato teorie che concettualizzavano il capitale sociale unicamente come dotazione strumentale. Comunque, se Salamon rigetta completamente il concetto di capitale sociale, Donati lo considera utile se interpretato in chiave relazionale. Infatti, il capitale sociale secondo il paradigma relazionale è «una qualità delle relazioni sociali». Il capitale sociale non è una cosa, ma una relazione sociale. Capitale sociale «è quella forma relazionale che opera la valorizzazione di beni o