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Il nuovo volontariato e il dialogatore Tra volontariato e lavoro, dono e vendita, individuale e collettivo

1.2 Campo, temi e soggetti della ricerca

1.2.3 Il nuovo volontariato e il dialogatore Tra volontariato e lavoro, dono e vendita, individuale e collettivo

I primi paragrafi mi hanno permesso di introdurre la rilevanza del Terzo settore quale referente per analizzare i mutamenti della solidarietà. Diversi autori hanno osservato differenti processi di cambiamento nella società civile: la sua “professionalizzazione”, la sua “ibridazione”, la sua “NGOizzazione”, così come anche l’indebolimento dei legami e l’individualizzazione della partecipazione nelle associazioni (Edwards 2011, van Deth e Maloney 2011, Lang 2013, vedi più in dettaglio §3.2 e §3.3). Questi processi sono sia identificati come un problema per la costruzione di coinvolgimento, partecipazione e fenomeni di opportunismo (Franzini 1997; Eikenberry e Kluver 2004; Eikenberry 2009; Sandberg 2016), quanto opportunità per la costruzione di un’economia sociale e la rivitalizzazione della politica a partire dalla politica del soggetto; si rivelano quindi cruciali per comprendere più a fondo come si costruisce oggi la solidarietà.

Per confrontarmi con il concetto di ibridazione e comprendere cosa significhi per la solidarietà sociale, dopo avere tracciato il contesto di riferimento, penso sia utile porre l’attenzione su alcune figure per via della loro natura ibrida o in via di ibridazione. I “nuovi” volontari e i dialogatori in particolare mettono in luce la progressiva ibridazione fra dono e scambio, gratuità e reciprocità, volontariato e lavoro, dilettantismo e professionalità nel Terzo settore. Definire non solo i contesti ma anche i soggetti coinvolti dal mutamento mi permetterà di definire con più chiarezza il disegno, l’oggetto e le domande della ricerca nel prossimo paragrafo (§1.3).

64 1.2.3.1 Dal volontario al “nuovo” volontario, sull’ibridazione fra lavoro e volontariato

Il volontario era solitamente inteso come quella persona che dona il suo tempo

per altri (un gruppo, un’associazione o una persona), in maniera personale e spontanea, motivata dalla volontà altruistica di far del bene e, facendo questo, partecipa alla costruzione di solidarietà sociale:

Volunteering means any activity in which time is given freely to benefit another person, group, or organizations. This definition does not preclude volunteers from benefitting from their work. Whether these benefits can include material rewards is open to debate (Wilson 2000, 215).

Assunti questi elementi generali, perché porre particolare attenzione ai volontari nello studiare il mutamento del Terzo settore?

Innanzitutto, il volontariato è uno dei caratteri tradizionalmente e attualmente considerati imprescindibili per poter definire un ente di Terzo settore: questo a partire dalla definizione di Salamon e Anheier (1997) che ha influenzato, se non determinato, l’intero universo definitorio del Terzo settore, fatto che è stato criticato da Moro (2014). Quindi, non solo il volontariato è la caratteristica prima e storica della definizione di Terzo settore, ma incamera in sé quell’attributo “sociale” che dovrebbe rendere lo stesso differente da Stato e mercato. In secondo luogo, i volontari possono rivestire l’importante ruolo di partecipare alla costruzione degli obiettivi dell’associazione sia con la pratica, sia tramite le discussioni nelle assemblee a vari livelli di governo associativo – questo è da tenere in considerazione anche rispetto al bilanciamento del potere fra

stakeholders e leaders delle associazioni –; a seconda del tipo di associazione

(dall’associazione di volontariato all’impresa sociale) possono avere un ruolo più o meno importante nel partecipare alla costruzione dell’identità associativa; la loro stessa partecipazione del resto per buona parte della letteratura assolve un ruolo di socializzazione prepolitica alla vita democratica e alla costruzione di capitale sociale.

Dal momento che oggetto della tesi è il cambiamento, lo spostamento identitario del volontariato verso una rappresentazione più ibrida, così come da una dimensione collettiva a una individuale, lo rende interessante oggetto di studio per osservare il mutamento dell’intero Terzo settore per quello che riguarda la dimensione valoriale e l’azione collettiva.

La crescita dell’attenzione sulla quantificazione del volontariato individuale e anche della dimensione economica del volontariato sono testimoni di un cambio di approccio che era già cominciato dagli anni Settanta con la misurazione del Terzo settore, ma che oggi investe anche le aree che potremmo considerare più lontane dal mercato. Inoltre, la necessità di spostare l’unità di

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analisi, almeno per quanto riguarda i volontari, sui singoli soggetti e non più sulle associazioni è certamente sintomo di un mutamento del Terzo settore e dell’agire collettivo.

Lo spostamento dell’attenzione della letteratura su forme individuali di volontariato si è verificato ormai da tempo (Eckstein 2001; Hustinx 2001). È stato definito dagli studiosi quale fenomeno riflessivo (Hustinx 2001; Hustinx e Lammertyn 2003) o postmoderno (Ambrosini 2016) quando si è posto l’accento sul mutamento delle motivazioni dei volontari individuali rispetto a quelli tradizionali. Queste analisi infatti hanno evidenziato come sempre più persone facciano volontariato sulla base di interessi e motivazioni personali piuttosto che in risposta a un senso di dovere o un’etica di servizio (Hustinx e Lammertyn 2003). Altri autori hanno posto l’accento sulla professionalizzazione del “nuovo” volontariato, caratterizzato per “managerialità e spirito d’impresa” (Psaroudakis 2012), sempre meno radicato nel suo agire da riferimenti valori e ideologici e conseguentemente con “un minore grado di identificazione” con l’organizzazione per cui opera (Corchia e Salvini 2012). Differenti studi rilevano fenomeni di mercatizzazione, professionalizzazione, ibridazione e burocratizzazione delle associazioni di volontariato e del Terzo settore in generale (più in dettaglio al §3.3). Queste spinte pongono interrogativi rispetto alla specificità del Terzo settore, se persiste, e ancora più su fenomeni di ibridazione sociale.

All’opposto di queste nuove configurazioni, la figura del volontario in senso tradizionale corrisponde all’immaginario iconico, sacro, della persona dedita al sacrificio, pronta al dono di sé per la comunità, fedele a un’idea (Eliasoph 2013). Meno prosaicamente, l’agire valoriale, qui possiamo dire solidale, era inteso in opposizione all’agire strumentale, orientato al profitto. Ciò attinge in parte a un immaginario cristiano legato al sacrificio di sé per l’altro, più generalmente è connesso a un’idea di partecipazione intesa come mezzo per identificare sé stessi in un progetto di cui si contribuisce alla realizzazione. L’utilità per sé in questo quadro era quindi come minimo sconveniente, se non proprio contraddittoria con l’idea stessa di fare volontariato.

Eppure, questo tipo di immaginario è oggi tanto poco realistico quanto poco condiviso; moltissime persone oggi fanno volontariato per molte più ragioni che il semplice desiderio spontaneo di donarsi agli altri: lo si fa per acquisire un’esperienza di lavoro gratuita, per poter arricchire il proprio CV, per poter attestare di aver compiuto comunque qualche attività in un periodo di disoccupazione, per entrare in contatto con una particolare associazione o gruppo, perché è richiesta un’attività in più dalla propria scuola o università al fine di ottenere un credito extracurriculare, perché fare servizio civile è

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considerato un modo di guadagnare qualcosa e fare esperienza in attesa di lavoro.

Il cambiamento dell’appartenenza e della partecipazione sono riscontrabili anche nel contesto macro del settore, che vede crescere il numero delle organizzazioni e contemporaneamente cambiare il modo in cui i soggetti aderiscono e partecipano. Il mutamento del volontariato permette pertanto di compiere delle analisi sul mutamento del comportamento collettivo e sulla maggiore orizzontalità delle relazioni – intesa come disintermediazione e flessibilità –, dinamiche che comportano anche un rischio di frammentazione e strumentalizzazione degli individui, più isolati e con appartenenze collettive più deboli.

In Italia, si evidenzia una polarizzazione del volontariato (Ascoli e Pavolini 2018; Citroni 2018): da un lato un allontanamento dalla gratuità, in seguito a pressioni di maggiore competizione e imprenditorializzazione e l’istituzionalizzazione di pratiche informali e gratuite, dall’altro un rinnovamento delle forme di solidarietà organizzata che conduce il volontariato ad essere sempre più centrale.

Dunque, se l’ibridazione e l’individualizzazione del volontariato da un lato aprono a nuove forme di solidarietà e partecipazione, dall’altro possono comportare la possibilità di un’erosione del capitale sociale (ma anche simbolico e culturale) del Terzo settore. In questo senso ho considerato opportuno porre attenzione anche al fenomeno del calo di fiducia che oggi riguarda il volontariato38, legato a una possibile conseguente perdita di legittimità e potere

di critica delle associazioni, che vedono decostruirsi il capitale relazionale- fiduciario come pure quello simbolico-identitario.

1.2.3.2 Il dialogatore e i donatori, come si vende il dono

Il dialogatore è un lavoratore, in house o per agenzia esterna, che si occupa della raccolta fondi face-to-face (o dialogo diretto) per organizzazioni non profit. La raccolta fondi face-to-face consiste nel fare raccolta fondi, in strada o porta a porta, chiedendo ai potenziali interessati una donazione regolare e continuativa. Questa tecnica di raccolta fondi garantisce indipendenza e stabilità economica a molte associazioni di advocacy. La necessità di una fonte di finanziamento indipendente è particolarmente sentita oggi, per via della riduzione dei finanziamenti pubblici e della crisi economica, ma anche per ragioni di indipendenza considerata ancora più fondamentale in tempi di “spazi ridotti” per la società civile.

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Il dialogatore permette di osservare da vicino l’ibridazione delle associazioni di advocacy. È rappresentativo in quanto descrive uno dei casi in cui il mondo non

profit esternalizza alcune attività all’universo profit, la ricerca di donatori in

questo caso; un processo che si inserisce nello sviluppo del settore fundraising e dimostra come l’ibridazione del non profit non interessi solo le organizzazioni di servizio. Peraltro, capire come le associazioni si finanziano è un tassello fondamentale per comprendere in che modo questo influenzi le loro strategie e per capire come eventualmente le ONG si possano allontanare dai propri obiettivi per ottenere o mantenere risorse (Prakash e Gugerty 2010a). È insomma importante adottare una prospettiva che si sofferma sia sui principi che guidano le associazioni di advocacy e i volontari, l’orientamento al valore, sia sull’agire strumentale che certamente influenza la strutturazione delle stesse. Capire da dove arrivano i finanziamenti e in che modo sono stati ottenuti dai dialogatori è un’informazione complementare per comprendere le strategie dell’associazione. La letteratura sul tema è scarna e tendenzialmente orientata a valutare l’efficacia del face-to-face come strumento di raccolta fondi (Jay 2001; Sargeant and Jay 2004; Sargeant and Hudson 2008; Fleming and Tappin 2009), solo di recente interessata alle conseguenze politiche e sociali di questa raccolta fondi (Vicentini 2018; Humalisto e Moilanen 2019).

La figura del dialogatore in sé è interessante, perchè all’opposto del volontario sembra essere guidata da un agire unicamente strumentale per costituzione: non solo è un lavoratore (ma questo vale per molti professionisti nel Terzo settore), ma lavora (solitamente) per un’agenzia for profit (insomma un’azienda). Questa forma di collaborazione non esclude quindi che il profitto sia l’esclusiva motivazione del dialogatore e che questo sia l’obiettivo dell’agenzia, pur essendo legata per contratto all’universo non profit.

Inoltre, è la relazione che si instaura tra donatore e dialogatore ad essere di interesse: anche questo è uno di quei rapporti faccia-a-faccia capace di costruire fiducia, capitale sociale, sensibilizzazione? O la relazione è più simile ad un’interazione fra venditore e potenziale compratore? Questa appare come una strategia di fundraising con un potenziale forte impatto sulla struttura e sulle strategie dell’associazione: crea un ampio bacino di singoli donatori più “committed” dei donatori “one-off”, ma impegnati in maniera molto differente da un volontario o un socio “classico”. I donatori contribuiscono quindi a costruire capitale sociale, a partire dalla relazione che costruiscono con i dialogatori? Alcuni autori considerano correlate la donazione e la creazione di capitale sociale (Wang e Graddy 2008). Hustinx, Van den Bosch e Delcour (2012) evidenziano che anche “forme passive di coinvolgimento” come le donazioni possono avere un ruolo importante nella creazione di capitale sociale. Sulla base di questa ipotesi, il face-to-face fundraising non solo aumenterebbe il capitale

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economico delle associazioni, ma anche quello sociale. Se ciò è vero, prima di arrivare a queste conclusioni, penso siano da tenere in considerazione l’obiettivo dell’interazione (è solo orientata a ottenere denaro?), come anche la durata dell’impegno del donatore (annullerà l’impegno con una telefonata poco dopo?). È vero che un’interazione esiste in ogni caso fra donatore e dialogatore, ma che dire dei casi in cui più che relazione con il donatore si può parlare di strumentalizzazione del donatore? E qual è la qualità della relazione instaurata (il donatore sa per cosa dona)?, e chi sono i donatori convinti (la raccolta fondi in strada amplia il bacino di persone sensibili ai diritti umani)? A questo proposito Sargeant e Jay (2003) riportano che solo il 21,6% dei donatori si sentiva più impegnato nell’associazione rispetto a prima di aver compiuto la donazione, mentre il 14% degli intervistati addirittura desiderava non avere nessuna notizia dall’associazione di cui era donatore. Inoltre, il 69% dei donatori di questo studio sosteneva di conoscere già il brand per cui avevano attivato la donazione. Non è chiaro se conoscere già il nome della associazione (la cosiddetta brand awarness) possa contribuire alla fidelizzazione (come sostengono Sargeant e Jay 2003) oppure no (Fleming e Tappin 2009).

Ogni nuovo donatore donerà tendenzialmente dai 10 ai 30 euro al mese e le agenzie e le organizzazioni sostengono che la vita media di ogni nuovo donatore sia circa 5 anni, ragione per cui il lavoro viene definito anche di raccolta di donazioni di “qualità”. Sargeant e Hudson (2007) sostengono che «in alcuni casi le charities possono perdere fino al 50% delle nuove reclute nel primo anno di donazione» (mia traduzione). Pochi articoli hanno approfondito l’attrition (il tasso di perdita di donatori) (Sargeant e Hudson 2007; Fleming e Tappin 2009); quindi le analisi fatte su questi dati sono realizzate per la maggior parte dalle associazioni stesse, interessate ovviamente al tasso di perdita dei donatori, ma poco se ne può sapere dall’esterno.

Sulla base di questi elementi si può distinguere un impegno passivo e flessibile, pure esistente, da un’interazione che pur definita donazione, acquisisce molte delle caratteristiche di un contratto? Si tratterebbe di uno scambio commerciale dove il donatore, più che persona che entra in una rete di relazione associativa, è l’oggetto di persuasione del dialogatore, tramite tecniche di

marketing, orientate a stimolare il suo senso di colpa (Humalisto e Moilanen 2019).

Questo non sarebbe sorprendente, del resto da diversi anni l’azione umanitaria viene criticata per usare la sofferenza come spettacolo, uno spettacolo dove si è spettatori e non attori (Boltanski [1993] 2000) e strumentalizza la solidarietà nella comunicazione mainstream (Chouliaraki 2013).

69 1.2.3.3 Figure ibride: dal volontario al donatore?

Concludendo, il dialogatore è rappresentativo, quanto il nuovo volontariato, dell’incontro fra solidarietà e mercato, ed è un esempio di come il Terzo settore e la solidarietà stiano cambiando e degli interrogativi che questo porta con sé.

Volendo inserire volontario e dialogatore in un continuum di azione ideale, fino a non molto tempo fa, essi sarebbe stati parte di due universi opposti: uno dominato dalla solidarietà e l’altro dalla strumentalità. Oggi sono figure chiave per comprendere se e in che modo essi mostrino un’ibridazione delle associazioni cui appartengono; e se in definitiva comportino una rielaborazione delle categorie di analisi delle modalità di azione dei soggetti e strutturazione delle associazioni.

Il dialogatore è una figura relativamente recente nelle organizzazioni di

advocacy, si è diffusa negli ultimi quindici anni in risposta della crescente

necessità di autonomia economica delle organizzazioni di Terzo settore, in particolare dopo la crisi economica. Si occupa di raccolta fondi in strada o porta a porta e racconta una dimensione generazionale, precaria e di possibile ibridazione fra agire economico e agire sociale, così come di agire strumentale nel Terzo settore.

La figura del “nuovo” volontario, all’incrocio fra momenti di lavoro e formazione – l’alternanza scuola lavoro, l’istituzionalizzazione del volontariato individuale, il servizio civile universale – e la figura del dialogatore spesso associata al volontariato, ma altrettante volte legata al mondo profit, offrono un’occasione unica di affrontare le dinamiche di mutamento che l’ibridazione porta con sé. Quali motivazioni spingono le persone a lavorare o fare volontariato per un’associazione? Esiste solo il profitto o solo la solidarietà? In quale modo la commistione fra differenti modi di agire è elaborata riflessivamente nelle associazioni? In quali termini il mutamento della vita quotidiana, dei temi della vita, del lavoro e del tempo libero hanno inciso su queste trasformazioni?

È cruciale analizzare queste figure non solo per come esse cambiano in sé, ma perché il loro cambiamento si dovrebbe riflettere sulle associazioni stesse: la maggiore attenzione a rendere stabili i donatori e viceversa la volatilità del volontariato come cambia la strutturazione delle associazioni e del pubblico interessato? Vi è uno slittamento nella composizione delle associazioni dal volontario al donatore?

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