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Il perimetro in mutamento del Terzo settore italiano Profili normativi e statistic

1.2 Campo, temi e soggetti della ricerca

1.2.1 Il perimetro in mutamento del Terzo settore italiano Profili normativi e statistic

1.2.1.1 Profili normativi del Terzo settore italiano

Delineato il quadro generale di crisi e ricostruzione di dinamiche sociali, economiche e politiche, in questo paragrafo definisco il perimetro della ricerca. Chiarisco prima alcune caratteristiche, sul piano normativo e statistico, del Terzo settore italiano oggi (§1.2.1); in seguito, sulla base della esistente letteratura (§1.2.2), spiego la ragione di orientarsi all’analisi del ruolo espressivo del Terzo settore, il quale è trascurato maggiormente rispetto al ruolo di servizio, in ragione di un’attribuzione del ruolo di (e studio della) voice politica alle aree più movimentiste e radicali. Il dilemma fra sostenibilità economica, sistemi di welfare e tutela delle libertà politiche può essere esplorato nel campo dell’advocacy e della tutela dei diritti.

Il perimetro del Terzo settore italiano fino a tempi recenti, come evidenziato da Busso e Gargiulo (2016), è stato sostanzialmente definito da differenti letterature, orientate a evidenziarne le caratteriste e potenzialità positive, eppure scarsamente efficaci per quello che concerne la comprensione dei problemi riguardo alla partecipazione del non profit al welfare, come anche del suo avvicinamento al mercato, interpretato spesso solo in chiave di positiva socializzazione dell’economia o inevitabile professionalizzazione del Terzo settore.

L’affermazione del Terzo settore in Italia, come nel resto dell’Europa, avviene a partire della fine degli anni Settanta in conseguenza di cambiamenti politici, sociali ed economici – delineati nel capitolo precedente, e di seguito al §2.3.1 –. Busso e De Luigi (2019) evidenziano che, più che di scoperta, sia necessario parlare di ri-scoperta: l’origine stessa del welfare state è legata al ruolo della società civile nella costruzione di sistemi per la protezione dai rischi. La vera “scoperta” consiste forse nel passare dal denominarla società civile all’adozione sempre più frequente di termini quale Terzo settore, settore non profit o economia sociale, che evidenziano la scoperta del suo ruolo economico e di fornitura di servizi (ivi)14.

In Italia il riconoscimento normativo del Terzo settore avviene non prima del 1987, quando viene introdotta una prima norma in materia di cooperazione allo sviluppo, la l. 49/198715. Nel 2009 Pianta evidenziava come il 79% delle

14 Rimando al capitolo secondo per un’analisi puntuale della letteratura che ha contribuito alla definizione e successiva rielaborazione del concetto di Terzo settore. Questo paragrafo ha lo scopo di definire il contesto empirico della ricerca, a partire da elementi normativi e dati statistici.

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organizzazioni non profit italiane del momento fosse nata successivamente al 1980 anche «sulla spinta di leggi specifiche», quali la già citata legge sulla cooperazione e altre successive norme in materia di volontariato e cooperative sociali (ivi, 59); in base agli ultimi dati ISTAT (2018) ad oggi solo il 6,9% delle istituzioni non profit sono state costituite precedentemente al 1979 (vedi in seguito la figura 2)16.

Negli anni Novanta sono state elaborate le normative sulle organizzazioni di volontariato (di seguito ODV) (l. 266/1991) e le cooperative sociali (l. 381/1991), queste ultime vera e propria innovazione in materia di imprenditoria sociale (Raffini 2015)17. L’imprenditoria sociale oggi vede una forte promozione a partire

proprio dal livello europeo che la considera la chiave per la diffusione dell’economia sociale. Il volontariato era definito, all’articolo 2 della legge del 1991, ancora in chiave “tradizionale”, come attività da compiere in un’organizzazione di volontariato, personale, spontanea e gratuita. La sovrapposizione fra aspetti commerciali e non era ridotta al minimo. Ad esempio, per quello che riguarda i lavoratori nelle organizzazioni di volontariato, l’articolo 3 al comma 4 prevedeva che essi fossero presenti «nei limiti necessari al loro [delle ODV ndr] regolare funzionamento». Inoltre, l’unico fine accettabile per una ODV era l’assenza di lucro. Con la legge del 1991 si istituivano inoltre i Centri di

Servizio per il Volontariato (di seguito CSV) quali soggetti «a disposizione delle

cooperazione allo sviluppo, dietro il soddisfacimento di particolari requisiti, si iscrivano ad un registro per poter accedere alle sovvenzioni statali. Per questa ragione in Italia il termine ONG acquisisce un perimetro più ridotto di quanto non si intenda nel contesto anglosassone, riguardo a questo si veda in nota 31 la definizione più ampia di Lang (2013).

16 I censimenti ISTAT del 2001, 2011 e 2015 riportano un settore in costante crescita. L’intervallo intercensuario 2001-2011 presenta una crescita del 28%, mentre l’intervallo 2011-2015 dell’11,6%. Questa crescita non è da attribuirsi unicamente alla prolificità del settore e a un clima regolatorio di favore. Infatti, alcune di queste organizzazioni di fatto non sono nuove, solo non erano state rilevate dai censimenti precedenti (Barbetta, Ecchia e Zamaro 2016, 63). Inoltre, è da evidenziare che le istituzioni non profit sono caratterizzate da forti dinamiche di entrata e uscita, così come evidenziato da Barbetta et

al. (2018). L’età media delle istituzioni non profit è influenzata anche dalla localizzazione

territoriale: gli ultimi dati (2016) riportano che la maggioranza delle istituzioni nate prima del 2000 si trovano nel Nord-est (43,5%) e nel Nord-ovest (39,6%), mentre al Sud il 41,6% sono nate dopo il 2010.

17Al contrario del successo della legge 381, che andava a disciplinare realtà cooperative già esistenti, la seguente disciplina dell’impresa sociale del 2006, intesa quale incontro fra modo d’impresa e impatto sul sociale, avrà scarso successo per via dei suoi inesistenti vantaggi fiscali. Oggi l’impresa sociale è nuovamente disciplinata dalla riforma di Terzo settore (2016).

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organizzazioni di volontariato (ODV) e da queste gestiti al fine di sostenerne e qualificarne l’attività».

È interessante notare come prima dell’ultima riforma a riunificare la disciplina Terzo settore fosse la disciplina tributaria del d.lgs. 460/1997, la quale istituiva le ONLUS, organizzazioni non lucrative di utilità sociale, allo scopo di garantire loro adeguati vantaggi tributari in ragione degli scopi mutualistici e solidali. Successivamente, la legge quadro 328 del 2000 per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali «ha per la prima volta riconosciuto un ruolo istituzionale del Terzo settore non solo nella fornitura di servizi sociali, ma anche nei processi di progettazione e deliberazione – accanto a pubblica amministrazione ed enti locali – sulle priorità sociali da soddisfare e sulle modalità da utilizzare» (Pianta 2009, 59).

Oggi il quadro è ricomposto dal tentativo di unificazione compiuto tramite la

Riforma di Terzo settore (2016), fatto che, possiamo dire, lo istituzionalizza

definitivamente in Italia18.

La riforma citata è stata approvata dopo quasi due anni di lavori, il 26 maggio 2016, con il d.lgs. 106/201619. Sebbene la sua attuazione fosse prevista per il 2019

oggi è ancora incompleta poiché diversi decreti sono lontani dall’approvazione e quindi non è ancora possibile definirne gli effetti e l’impatto. Seguendo le riflessioni di Moro (2019), la riforma è costruita attraverso un processo articolato, costruito da diversi attori, politici, funzionari e ministeri (specialmente il Ministero del Lavoro e Politiche Sociali e il Ministero di Economia e Finanze), esperti, consulenti, rappresentati di organizzazioni di Terzo settore, per cui non è automatico comprendere quale sarà la sua traduzione operativa. Vale però la pena soffermarsi sulla riforma per due motivazioni, da un lato infatti definisce «un perimetro di situazioni, problemi, priorità, attori e soggetti target delle politiche» e come tale non è neutra, ma concorre a definire i soggetti a cui si rivolge (dimensione di policy), in secondo luogo i suoi effetti si verificheranno

18 Questo riforma, avendo lo scopo di semplificare e riunire una serie di norme, comporta l'abolizione di alcune precedenti normative, ossia la legge sul volontariato (l. 266/1991), la legge sulle associazioni di promozione sociale (l. 383/1991), le disposizioni sulle ONLUS (d. Lgs. 460/1997), il decreto sull'impresa sociale (d.lgs. 155/2006), la legge sulle erogazioni liberali, cosiddetta "più dai meno versi" (l. 80/2005) e alcune modifiche sulla legge sulle cooperative sociali (l. 381/1991) e sulla disciplina dei CSV. La definizione di ONLUS quindi d’ora in avanti è abrogata e non ha più funzione di definire quegli enti facenti parte del sociale. La disciplina del volontariato e delle associazioni di promozione sociale, pur abrogata non perde la sua specificità, infatti nel Codice sono previsti articoli dedicati a questi enti.

19 I decreti attuativi riguardano il Codice Unico del Terzo settore (D.lgs. 117/2017), la revisione della disciplina sull’impresa sociale (D.lgs. 112/2017), il Servizio Civile Universale (D.lgs. 40/2017) e l’istituto del cinque per mille (D.lgs. 111/2017).

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inevitabilmente anche a livello di politics, incidendo sulle identità ed i modi di partecipare (ivi).

L’individuazione di una definizione giuridica comune a tutto il Terzo settore è la prima caratteristica fondamentale della riforma. L’art. 1 precisa che per Terzo settore si intende:

il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di

sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e

realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi (corsivo mio).

Ora, la nuova definizione legislativa, superando un’ottica residuale, sembra farsi interprete della accresciuta rilevanza del Terzo settore, lo definisce positivamente, come effettivo attore, non più collaterale a Stato e mercato.

Occorre naturalmente capire nella futura applicazione quali saranno e come si esprimeranno “le finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”. Se finalità

civiche possono rimandare a una caratteristica di buona cittadinanza (civicness) e

l’aggettivo solidaristiche alla relazione con l’altro, la necessità di un’utilità sociale esprime l’obbligo normativo per cui qualunque iniziativa debba essere finalizzata a raggiungere il benessere per il maggior numero di persone o, in ottica non rigidamente utilitaristica, per la collettività20.

Particolare attenzione va anche alla locuzione che fa riferimento alle attività

di interesse generale tramite le quali un ente di Terzo settore (di qui in avanti ETS)

dovrebbe raggiungere i suoi fini sociali. Considerata la vaghezza dei fini, l’attività svolta diventa infatti il parametro per individuare cosa sia un ente di Terzo settore; prima della riforma invece gli elementi identificanti erano la forma giuridica stessa dell’ente, il suo statuto e la non distribuzione di utili21. Il carattere

di interesse generale viene ricollegato all'art. 118 c.4 della Costituzione italiana, che definisce il principio di sussidiarietà. Questa è una trasformazione sostanziale a livello giuridico, e pratico, degli ETS: in base alla legge d’ora in avanti non tutte le attività di una determinata associazione potranno essere definite pro-sociali per il solo fatto di essere emanazione di quella data associazione, ma andrà

20 Troviamo riferimento all’utilità sociale nell’articolo 41 della Costituzione, il quale vincola l’azione economica a compiere attività che non siano in contrasto con «l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; non è quindi una caratterizzazione che distingue il Terzo settore da altre attività. La scelta richiama inoltre quello che già era definito di utilità sociale nella legge fiscale 460/1997 sulle ONLUS.

21 Adesso molto più difficile sarebbe basarsi sulla non distribuzione degli utili, superata per alcuni enti di Terzo settore, o sulla forma giuridica dell’ente, che di per sé non è esplicativa di quali attività dell’ETS siano propriamente a “finalità sociale”.

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individuato nel merito quale attività risponda a quello che viene definito interesse generale e si possa dunque applicare ad essa la relativa normativa di favore di Terzo settore.

Resta, naturalmente, da definire cosa sia interesse generale. Con l’approvazione del Codice di Terzo settore il legislatore ha scelto di ricorrere a un’elencazione delle 26 attività considerate di interesse generale, descritte all'art. 5 d.lgs. 107/2017. La scelta dell’elencazione riduce la portata innovativa dell’introduzione dell’interesse generale come metro di valutazione dell’appartenenza o meno nell’alveo del Terzo settore di una determinata attività. A questo proposito è interessante sintetizzare il lavoro compiuto a suo tempo dall'associazione FONDACA (fondazione per la cittadinanza attiva, di cui il presidente era Giovanni Moro) insieme al ministero perché si adottasse nella normativa il termine “interesse generale”.

L’associazione aveva redatto un documento in cui esemplificava in che modo si potesse identificare e definire un’attività di interesse generale22. La definizione

doveva rimanere molto ampia, e com’è naturale, flessibile a seconda dei mutamenti sociali e di cosa sia definito di interesse generale in un dato momento e contesto. Nel documento FONDACA infatti si sostiene che la natura dell’interesse generale sia “processuale e incrementale”, di natura “contingente”, e che per essere definito tale debba trarre indicazioni non solo dalla Costituzione e dalle leggi, ma altresì dalla vita della comunità politica. La proposta dell'associazione era dunque di individuare i ruoli tipici del Terzo settore da cui enucleare alcuni criteri per poter individuare quali attività definire come di interesse generale. Queste attività tipiche, che si esprimono in advocacy e distribuzione di servizi, sono la tutela dei diritti, la cura dei beni comuni, il sostegno all’autonomia di soggetti in condizioni di debolezza (empowerment) e in senso funzionale lo sviluppo dell'attivismo civico.

La proposta metodologica era di individuare precisi criteri e conseguenti indicatori per poter definire quando ci si trova davanti a un’attività di interesse generale e quando è quindi necessario applicare la relativa normativa. La qualifica di attività di interesse generale non è una caratteristica “on/off” ma si esprime in differenti sfumature; in particolare i criteri individuati da FONDACA per definire l'interesse generale sono quattro: situazione in cui ha luogo l'attività,

22 Nel documento “La riforma di terzo settore e le attività di interesse generale. Una proposta metodologica” di ottobre 2016, FONDACA definisce l’interesse generale: “Sono di interesse generale le attività che sono funzionali all’attuazione di quanto previsto dall’art. 3, comma 2 della Costituzione circa la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

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il target di soggetti a cui è rivolta, le condizioni di accesso per le persone che potrebbero beneficiarne e il tipo di beneficio che portano. Da questi criteri sono derivati degli indicatori, tramite i quali identificare una serie di attività di interesse generale, in un elenco in continuo aggiornamento e valutarne l'impatto. Questo dovrebbe rendere altresì possibile attuare delle valutazioni ex ante e graduare i benefici alle varie associazioni per le attività sulla base del grado d'impatto per l'interesse generale.

Come anticipato, invece, l’adottata scelta dell’elencazione normativa, è andata in direzione di un ulteriore irrigidimento e burocratizzazione del Terzo settore e riduce la portata del concetto di interesse generale come strumento, differente dalla qualificazione giuridica dell’ente, atto a valutare quale singola attività risponda ai criteri che la rendono qualificata per essere disciplinata da normative di favore, quale è la regolamentazione del Terzo settore.

Un ulteriore elemento da considerare è l’assenza di scopo di lucro. Infatti, i due elementi precedentemente analizzati comportano l’attribuzione di una certa rilevanza allo scopo solidale e le attività specifiche compiute dall’ETS, fatto che riduce l’importanza dell’assenza di scopo di lucro. Questi ulteriori elementi comportano, a mio avviso, un certo allontanamento semantico dal concetto di “non profit” e questo è anche osservabile dal fatto che non è preclusa l’esistenza di enti di Terzo settore che, facenti parte a pieno titolo della categoria, siano enti

low profit. I confini fra profit e Terzo settore sono così definiti non più come una

contrapposizione fra scopo di profitto e scopo non di profitto, bensì fra scopo di profitto e scopi civili, solidaristici e di utilità sociale. Questo tipo di elaborazione porta con sé quegli elementi di promozione di economia civile che hanno accompagnato questo tipo di riforma, e legittima il Terzo come un tipo di spazio di scambio di mercato (sociale).

Per quanto riguarda le specifiche innovazioni della normativa, il 2 agosto 2017 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Codice per il Terzo settore. Questo ha comportato una semplificazione delle procedure di acquisizione della personalità giuridica, con una revisione del Titolo II del Libro I del Codice civile, rimasto immutato dal 1942. La nuova normativa ha creato una categoria più ampia e generale dove sono ricondotte le associazioni e imprese che «persegu[ono], senza scopo di lucro, [...] finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale» e che svolgono attività di interesse generale. Questa categoria comprende quelli che sono ora definiti come ETS.

Sono ETS le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, le cooperative, le imprese sociali, gli enti filantropici, le società di mutuo soccorso e le reti associative. Verrà istituito un registro unico per gli enti di Terzo

settore (RUNTS) presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Anche in

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necessarie per l’iscrizione al RUNTS e quale sarà il livello di penalizzazione per forme di partecipazione più spontanee e informali.

Per quanto riguarda le innovazioni sull’impresa sociale, il decreto n. 112/2017 prevede specifiche disposizioni. Lo scopo dichiarato e più volte ribadito della riforma è di promuovere e agevolare questo particolare ente che, per la durata della precedente normativa, non aveva avuto successo.

Le cooperative sociali assumono automaticamente la qualifica di impresa sociale, inoltre possono essere imprese sociali tutte le associazioni, le fondazioni e le società previste dal V libro del Codice civile; alle amministrazioni, invece, sarà preclusa questa denominazione, ma potranno comunque far parte di un’impresa sociale. Tutte le imprese sociali, in quanto enti ETS, saranno regolarmente inserite nel registro unico, in una sezione apposita.

Affinché un ETS possa essere definito impresa sociale dovrà esercitare una delle attività di interesse generale identificate dal codice in ventidue settori – si può notare come i settori siano quattro di meno rispetto alle attività di interesse generale previste per gli ETS –. Le attività previste per l'impresa sociale sono differenti se confrontate con quelle delle cooperative sociali, le quali dalla riforma rimangono legate all'ambito formativo e sociosanitario. Le attività di interesse generale devono rappresentare il 70% dei ricavi dell’impresa sociale, viceversa non ci sono costrizioni rispetto all'ambito economico di attività se l’impresa sociale dovesse avere almeno il 30% di lavoratori svantaggiati o disabili. Per quanto riguarda le agevolazioni fiscali, gli utili dell’impresa sociale non sono tassati se destinati alle attività dell'impresa o all'accrescimento del capitale sociale. All’art 3 c. 3 è prevista una parziale (inferiore al 50%) possibilità di distribuzione degli utili e degli avanzi di gestione, dedotte eventuali perdite, a condizione di alcune caratteristiche23. Questo comma, a differenza del divieto di

distribuzione degli utili della legge del 2006, è stato inserito in ottica di promozione dell’impresa sociale. La distribuzione degli utili è stata oggetto di ampio dibattito e frutto di una contrattazione di equilibrio, fra chi critica il rischio

23 Sono previste due fattispecie: a) se costituita nelle forme di cui al libro V del codice civile, ad aumento gratuito del capitale sociale sottoscritto e versato dai soci, nei limiti delle variazioni dell'indice nazionale generale annuo dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e di impiegati, calcolate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) per il periodo corrispondente a quello dell'esercizio sociale in cui gli utili e gli avanzi di gestione sono stati prodotti, oppure alla distribuzione, anche mediante aumento gratuito del capitale sociale o l'emissione di strumenti finanziari, di dividendi ai soci, in misura comunque non superiore all'interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato; b) a erogazioni gratuite in favore di enti del Terzo settore diversi dalle imprese sociali, che non siano fondatori, associati, soci dell'impresa sociale o società da questa controllate, finalizzate alla promozione di specifici progetti di utilità sociale.

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di una deriva commerciale irreversibile del mondo non profit e chi invece sostiene la necessità di incentivare l’imprenditoria sociale in funzione di promozione e del superamento della posizione ancillare allo Stato del Terzo settore.

Per quello che riguarda il volontariato, allo scopo di analizzare l’istituzionalizzazione del Terzo settore, è opportuno considerare l’affermazione e

diffusione dei CSV. Previsti con la legge del 1991 sul volontariato e istituiti a partire

dal 1997, oggi rivestono in Italia un ruolo fondamentale per quello che riguarda il volontariato a dimensione collettiva e individuale. Ad oggi esistono 71 sedi centrali di CSV in 20 regioni italiane, con il ruolo di promozione,orientamento e animazione territoriale, formazione, consulenza, informazione e comunicazione, ricerca e documentazione e supporto tecnico-logistico. Questo elenco riportato all’art 63 c.2 del Codice di Terzo settore riprende le tipologie di servizi svolte dai CSV prima della riforma, e aggiunge l’erogazione di denaro per la progettazione sociale. Il ruolo dei CSV riguarda non solo il volontariato delle ODV ma di tutti