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Mercatizzazione, professionalizzazione e burocratizzazione del Terzo settore

Il mutamento del Terzo settore

G Istituzioni politico-amministrative

3.3 Mercatizzazione, professionalizzazione e burocratizzazione del Terzo settore

L’avvicinamento al mercato da un lato, e la burocratizzazione dall’altro, delle organizzazioni di Terzo settore è il secondo elemento che mette in discussione la solidarietà come elemento costitutivo del Terzo settore. Questo avviene sia all’interno delle organizzazioni stesse sia fuori, nel loro campo di azione. Infatti, processi di individualizzazione non escludono la crescita delle organizzazioni (Papakostas 2011; Meyer e Bromley 2013) che è tipica della società contemporanea.

Lo studio delle organizzazioni ibride si sta diffondendo e affronta i diversi casi in cui logiche di mercato si confondono con quelle solidali e viceversa (Sanders e Mclellan 2014; Sanders 2015). Il volontariato diventa più professionale e le aziende profit si orientano sempre più verso il sociale. Questo universo sta su un asse che parte dalla finanza etica, la diffusione delle B-corp, passa per la nascita e la diffusione dell’impresa sociale e sfocia nel mondo del volontariato tout court, sempre più caratterizzato da organizzazione e professionalità.

La mercatizzazione o commercializzazione (marketisation e commercialization nella letteratura anglofona) è quel processo di ristrutturazione di una o più organizzazioni di Terzo settore che fa sì che le organizzazioni operino sempre più come aziende orientate al profitto. In senso stretto questo processo riguarda in particolare il non profit in sistemi di welfare anglosassoni, dove diverse associazioni non profit forniscono beni e servizi con l’intento di ottenerne del profitto. In senso lato la mercatizzazione comprende la trasformazione strutturale e sociale del Terzo settore, orientato a logiche di mercato, e strutturato di conseguenza. La mercatizzazione è sicuramente un’opportunità in più per la raccolta fondi delle organizzazioni di Terzo settore, che dispongono di un canale ulteriore – il mercato – dove reperire i propri fondi56.

Questa ibridazione trova conferma nella stessa riforma di Terzo settore (2016) che rafforza da un lato i requisiti per poter essere definito ETS, comportando un aggravio in termine di burocrazia e una definitiva istituzionalizzazione, dall’altro legittima e apre al mercato tutti gli enti che vi appartengono, anche lo stesso volontariato, a cui è concesso ora di compiere attività di tipo commerciale. Disciplina infatti a livello tributario le singole attività della associazione

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distinguendole fra quelle di tipo commerciale e quelle non profit. La riforma ha anche superato il limite della non distribuzione degli utili nel Terzo settore per quanto riguarda l’impresa sociale, andando così a sfumare la rigidità del paradigma della non profitness.

Negli ultimi dieci anni si è inoltre istituzionalizzata la raccolta fondi per il Terzo settore quale ambito professionale e accademico. La categoria dei fundraiser ha anche ottenuto parziale riconoscimento all’art. 7 della recente riforma di Terzo settore (2016). Il diffondersi di convention, congressi, corsi di studio sul

management e il fundraising mette in luce un fenomeno che ha ormai raggiunto la

sua compiutezza e riguarda non solo singoli processi di ristrutturazione di una singola organizzazione, ma una ristrutturazione del concetto e delle pratiche nel Terzo settore.

L’utilizzo di canali profit non è solo un mezzo per raggiungere un fine solidale, ma contribuisce alla strutturazione delle organizzazioni che ne sono interessante. Questi diversi mutamenti sono anche studiati riguardo alla ristrutturazione del management delle non profit studiata anche come corporization (o companyzation) o riguardo alla mercificazione (commodification) cioè la trasformazione di beni, idee, servizi e anche persone dell’associazione in oggetti di scambio; Appadurai (2005, 35) definisce in questo senso merce (commodity) «anything intended for exchange». Ed è proprio su questo punto che si legano le principali critiche alla mercatizzazione.

L’ibridazione del Terzo settore verso una sua mercatizzazione è affrontata da studi nell’ambito del management e delle organizzazioni e da parte di studiosi di relazioni internazionali che affrontano lo studio delle ONG come fossero imprese.

Nell’ambito del management e degli studi organizzativi diversi autori (Young 1998, 2002; Eikenberry e Kluver 2004; Eikenberry 2009; Sanders e Mclellan 2014; Sanders 2015; Sandberg 2016; Maier, Meyer e Steinberithner 2016; Vaceková, Valentinov, Nemec 2017) si sono occupati di marketization e il non profit che diventa business like.

Maier, Meyer e Steinberithner (2016) hanno compiuto una revisione sistematica degli studi di management e organizzativi sulla trasformazione delle organizzazioni non profit in organizzazioni “business-like”. Individuano tre grandi filoni di riflessioni, quelli che ragionano (i) sulle cause che inducono le NPO a diventare business-like, (ii) le strutture organizzative e il processo di trasformazione verso modello imprenditoriale, (iii) le conseguenze di queste trasformazioni. La disciplina sembra in via principale focalizzarsi sul fenomeno della razionalizzazione e managerializzazione delle organizzazioni non profit, focalizzandosi su elementi come i cambiamenti della governance e la

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mercatizzazione, ossia l’adozione di relazioni di tipo mercantile con gli

stakeholders. L’attenzione è inoltre posta alla imprenditorializzazione e alla

professionalizzazione, maggiormente orientate ai comportamenti dei manager e dei lavoratori o stakeholder in senso ampio negli enti di Terzo settore. Un secondo elemento considerato è l’adozione di obiettivi business-like, affrontato da autori come Weisbrod (1998) e Salamon (1993). Infine, un’ultima dimensione è quella legata all’adozione di retoriche business-like e quale impatto queste ultime abbiano sulle narrative e nel discorso sul Terzo settore.

Altri autori mettono in luce i rischi di avvicinamento al mercato delle organizzazioni non profit, per quanto riguarda la costruzione di una cultura civica. Eikenberry e Kluver (2004) hanno compiuto uno dei primi lavori sui rischi dell’adozione di metodi e valori del mercato nelle associazioni della società civile. La mercatizzazione infatti incide sugli obiettivi di policy e sulla struttura della stessa organizzazione per quanto riguarda alcuni aspetti fondamentali: il ruolo del Terzo settore come “guardiano dei valori”, creatore di “capitale sociale” e in termini del ruolo di “servizio e advocacy” (ivi). Eikenberry inoltre argomenta che un certo tipo di filantropia, invece di interrompere o mettersi al di fuori dei circuiti che hanno creato la “necessità” del Terzo settore non facciano altro che alimentarla. Queste ultime riflessioni si sviluppano in genere nel filone di studio del “filantro-capitalismo” (Eikenberry e Mirabella 2018). Sandberg (2016) mette in luce come la crescente mercatizzazione sia visibile constatando la crescente cultura (e culto) dell’imprenditoria nell’universo non profit. L’Autrice non critica tanto la figura dell’imprenditore, il quale può anzi portare creatività e innovazione, ma i rischi connessi alla possibile sostituzione della cultura sociale con quella economica. L’obiezione è il rischio di “corruzione” del valore unico (sociale) e differente dal mercato proprio del Terzo settore.

Per quello che riguarda la professionalizzazione, la definizione weberiana di professione necessita che ci sia specializzazione e continuità. È quindi il tempo e la specializzazione che trasformano un agire economico – un lavoro – in una professione. La professionalizzazione del Terzo settore testimonia una sempre maggiore specializzazione di staff e volontari. La distinzione fra professione e lavoro è ciò che distingue il viver “di” e il viver “per”, nel caso di Weber per o della politica, qui possiamo considerare per o del Terzo settore. Weber articola in questo modo: «Chi fa politica aspira al potere [Macht], o come mezzo al servizio di altri fini – ideali o egoistici –, o “per il potere in sé stesso”, per godere del senso di prestigio che esso procura» ([1919] 2004, 49).

“Vivere di” comporta dunque cercare il proprio sostentamento economico nel lavoro nel Terzo settore, o anche averne l’aspirazione, dal momento che l’atteggiamento soggettivo si può definire lo stesso. Quindi “vivere di” può

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essere tanto una retribuzione, quanto la costruzione della possibilità di avere una futura retribuzione – la costruzione del CV –: «“della” politica come professione vive colui che cerca di trarre da essa una fonte durevole di guadagno», la dimensione motivazionale del soggetto è di tipo puramente strumentale.

Invece vive “per” la politica chi struttura «tutte la propria esistenza intorno ad essa». “Vivere per” la politica quindi è un’aspirazione verso il potere (macht) in senso weberiano. La strutturazione e la crescita economica e di influenza di grandi organizzazioni del Terzo settore, che corrisponde anche a un declino della politica intesa in senso tradizionale, può certo offrire spazio a chi cerca potere e riconoscimento. Diventa prestigioso rivestire un ruolo di dirigenza e controllo ai vertici delle grandi organizzazioni internazionali, e il capitale – economico, umano, simbolico – di cui godono offre in una certa misura del potere cui aspirare. Questo vale sia per organizzazioni di Terzo settore che hanno ottimi rapporti e finanziamenti da parte dello Stato, quanto per le organizzazioni non governative prestigiose e influenti a livello internazionale.

Si può infine anche dedicare la propria passione alla politica con l’idea di servire una causa, in questo caso il potere è un mezzo per la realizzazione di un fine ideale. È pacifico57 che molti volontari e lavoratori di Terzo settore siano stati

spinti da una motivazione ideale a creare le associazioni come mezzo per la realizzazione della causa cui credevano e di cui per altro non trovavano risposta nella politica tradizionale. Se un volontario tradizionalmente lo rappresenteremmo come chi vive per il Terzo settore, lo staff pagato invece lo collocheremmo tra chi può sia vivere per e del Terzo settore o vivere solo del Terzo settore.

Lo snodo di mutamento è però la sempre più difficile distinzione fra “vivere per” e “vivere di”, dal momento che molto di quello che consideriamo lavoro non è pagato e non dà retribuzione, viceversa molto di quello che consideriamo gratuito e fatto per passione ha in sé importanti rivolti di tipo strumentale – riassumibili nella costruzione di un CV che rende meglio spendibili sul mercato del lavoro –.

L’ibridazione dell’agire strumentale con un agire solidale è frutto quindi di una continua riflessività dei soggetti che costruiscono e ricostruiscono i propri percorsi di vita quotidianamente alla luce di motivazioni e aspirazioni personali e individuali.

57 Pacifico per le diverse considerazioni compiute fino a qui, brevemente la mancanza o scarsezza di remunerazione economica e la spinta alla solidarietà.

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Anche le ONG sono interessate da riflessioni sulla professionalizzazione nel Terzo settore, hanno infatti uno staff altamente specializzato, che molto si allontana da un’immagine dilettantesca, o di volontariato tradizionale, della società civile. Per via dell’influenza delle ONG sulla politica internazionale, sono gli studiosi di relazioni internazionali che affrontano da oltre venticinque anni lo studio dell’azione collettiva transnazionale e delle ONG. Un particolare filone di studi descrive l’azione collettiva delle ONG e degli attivisti come fossero imprese che operano sul mercato. Prakash e Gugerty (2010a) in particolare suggeriscono di analizzare le organizzazioni di advocacy – ONG e i movimenti sociali organizzati – tramite la “firm analogy”. Questo approccio, secondo gli Autori, suggerisce il bisogno «to move beyond viewing NGO as “saints” and “sinners”». Questa letteratura ha origine da quella riguardante i gruppi di interesse, a partire da Olson (1965), e considera le strategie di advocacy in un più ampio contesto internazionale. Gli Autori intendono studiare l’organizzazione delle ONG in sé, adottando una prospettiva di ricerca differente rispetto allo studio della singola campagna di advocacy portata avanti da più ONG. Ciò ha permesso di osservare anche la competizione e il conflitto fra le ONG (Prakash and Gugerty 2010a).

La visione “firm-like” viene anche giustificata dalla visione delle stesse ONG che si definiscono e agiscono in termini di brand (Cohen 1995) e prodotti. Autori come Bob interpretano lo spazio d’azione delle ONG come un doppio mercato, che vede da un lato la domanda dei “gruppi offesi”, e dall’altro l’offerta del “prodotto diritti umani” da parte delle ONG. Il secondo mercato è quello popolato dalla domanda dei donatori e dall’offerta sempre del “prodotto diritti umani”:

I conceive of rights activism as a global marketplace in which the supply of abuses interacts with the demand for right issues by donors, including foundations, governments, and individuals primarily based in affluent, rights-observing states (Bob 2010, 134).

La tesi è che il mercato delle ONG sia più fortemente influenzato dai donatori che non dai “gruppi offesi”, ragione per cui le ONG non operano dove ce ne sarebbe più necessità per i potenziali beneficiari (Bob 2005, 2010).

Processi di istituzionalizzazione e burocratizzazione sono soprattutto affrontati dai sociologi. La produzione normativa sempre maggiormente direzionata verso

accountability e trasparenza, l’interconnessione del Terzo settore con gli apparati

statali, fino anche a fenomeni di istituzionalizzazione del volontariato individuale producono fenomeni di burocratizzazione. Del resto, l’istituzionalizzazione e la burocratizzazione sono fenomeni che coinvolgono qualunque azione collettiva, che sia movimento o associazione, verso un naturale processo di stabilizzazione – o fallimento –.

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L’istituzionalizzazione è un processo tramite cui certe pratiche, valori e orientamenti diventano generalmente accettate e si cristallizzano all’interno dell’organizzazione, considerate quindi come date. Il termine istituzione comporta del resto “stabilire un ordine, fondare e regolare”. La relazione è la base per l’istituzionalizzazione delle relazioni se queste si ripetono per sufficientemente tempo – ossia formano un’abitudine – tramite il processo di tipizzazione che priva in parte il soggetto di scelta individuale, diventa anzi esterna al soggetto, oggettiva e osservabile. Gli studiosi neo-istituzionalisti hanno contribuito in questo campo con le teorie sull’isomorfismo istituzionale e gli interrogativi sul perché le istituzioni sono simili fra loro (Meyer e Rowan 1977; Powell e Di Maggio 1991). È certo da considerare che processi di ibridazione del Terzo settore, di commistione di logiche burocratiche e mercantili con la logica relazionale, non esauriscono o assumono tutti i processi che interessano le grandi organizzazioni. Il processo di istituzionalizzazione va però interpretato in questo contesto come una rielaborazione di una logica ibrida e non solamente il naturale processo di irrigidimento e cristallizzazione che coinvolge anche le forme associative della società civile.

La burocratizzazione è l’estensione dei comportamenti, delle procedure, della mentalità e dell’organizzazione burocratica anche alle associazioni di Terzo settore. La burocrazia porta con sé una rigorosa divisione del lavoro, delle competenze e del sapere, principi come il merito o la carriera e in generale un complesso formale di norme che tendono a creare la iron cage weberiana.

Dal punto di vista italiano una spinta alla isomorfizzazione e burocratizzazione viene certamente dalla riforma di Terzo settore, che ha imposto differenti oneri procedurali e normativi per le organizzazioni che vogliano essere riconosciute (e quindi goderne i vantaggi) come enti di Terzo settore.

Sicuramente un primo ambito di studi che testimoniano il processo di “depubblicizzazione” dei servizi e via via un’integrazione del ruolo del Terzo settore nasce a partire dagli anni Novanta (Ascoli 1999; Ranci 1999), processo che si rafforza negli anni a seguire e che vede un Terzo settore in cerca di un’autonomia nel proseguire della sua differenziazione e istituzionalizzazione (Borzaga e Fazzi 2011). La lettura di un welfare integrato può andare in direzione di un’effettiva maggior partecipazione e attivazione dei cittadini alle politiche pubbliche. Contemporaneamente questi processi irrigidiscono e formalizzano forme di partecipazione se non spontanea più flessibile.

Differenti sociologi si soffermano sull’avvicinamento allo Stato la conseguente burocratizzazione e il potenziale distruttivo rispetto la formazione di reti di solidarietà (Eliasoph 2009; Corchia 2011b; Corchia e Salvini 2012; Papakostas 2011).

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Corchia (2011b) ha analizzato la pressione funzionale sulle associazioni di volontariato quando molto vicine allo Stato. Questa pressione rende le associazioni di volontariato italiane isomorfe alla pubblica amministrazione e rende difficile trasformare la loro propensione al networking in vero capitale sociale. Corchia e Salvini (2012) in seguito affrontano lo sviluppo del cosiddetto “nuovo volontariato” che in effetti si confronta con differenti pressioni alla burocratizzazione e professionalizzazione, pur combinate con una nuova identità volontaria, molto più individualizzata. Questo implica il rilassamento delle pratiche e della concezione di solidarietà dal punto di vista degli Autori. Papakostas (2011) ritiene che questi processi conducano a una società con sempre più organizzazioni e meno membri, per via di una burocratizzazione inerte diffusa a livello associativo. Su questa linea già Theda Scokpol (2003) aveva investigato la “democrazia diminuita” nelle organizzazioni civiche americane, evidenziando come i gruppi professionali di advocacy stessero sostituendo le associazioni di volontariato.

Sebbene molte riflessioni sull’evoluzione del volontariato si siano spesso espresse in senso di analizzare i processi di de-strutturazione e de- istituzionalizzazione, la stessa Hustinx è tornata sul tema nel 2010 con l’intenzione di definire “l’istituzionalizzazione individualizzata del volontariato”. L’Autrice introduce pertanto un’analisi sulla crescente istituzionalizzazione del volontariato riflessivo. Anche in Italia Guidi, Fonović e Cappadozzi (2016, 2018) affrontano appunto questo tema, ad esempio mettendo in evidenza il ruolo istituzionalizzante nei CSV non solo per il volontariato collettivo ma anche per le nuove forme individuali di volontariato. In questo, autori quale Ambrosini (2016), hanno affrontato il tema del volontariato “post- moderno” proprio legandolo all’esperienza di Milano EXPO del 2015. In questa occasione migliaia di volontari si sono attivati per l’evento di EXPO tramite la mediazione dei CSV. Le persone coinvolte erano spesso alla prima esperienza di volontariato e mostravano appunto il profilo dei volontari individuali. La definizione di queste esperienze come di volontariato e l’attivazione dei CSV in questo senso mostra non solo una certa individualizzazione, ma anche l’ibridazione della definizione e del concetto di volontariato. Le motivazioni e il modo di agire delle persone coinvolte in Milano EXPO 2015 sono sicuramente molto lontane dal volontariato tradizionale.

Diverse esperienze come l’alternanza scuola-lavoro o i tirocini presso organizzazioni di volontario e il servizio civile volontario mostrano un coinvolgimento crescente delle istituzioni nel voler regolare e gestire il volontariato dei singoli. Questi processi smontano diversi presupposti del volontariato tradizionale, in primo luogo la non obbligatorietà e il divieto di remunerazione. Le persone spesso fanno attività come volontari per poter arricchire il proprio CV, per acquisire un’esperienza lavorativa, perché

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l’università o la scuola lo richiede e a volte hanno ritorni che possono essere finanche materiali. Per esempio, i classici CFU universitari per l’attività svolta, la riduzione di ore da svolgere in ufficio o anche i rimborsi, che ad esempio nel caso del servizio civile universale assumono caratteristiche molto più simili a quelle di una misura di welfare sul reddito.

Concludendo, se è vero che le ONG e le associazioni di Terzo settore devono affrontare problemi economici e organizzativi tipici del mondo profit in un senso e amministrativo nell’altro, per essere definite tali si suppone siano portatrici di una certa specificità sociale o relazionale. L’economic scarcity, la competizione, la professionalizzazione e le esigenze organizzative sono fenomeni generali, ma da declinare considerando il settore e la cultura organizzativa di riferimento, compreso il fatto che queste organizzazioni non sono principalmente guidate da motivazioni economiche. Queste motivazioni le condizionano dalla nascita fino alle loro azioni e non penso sia utile analiticamente ignorare questo fatto determinante della loro costituzione.

In conclusione, l’analisi di questa letteratura porta a considerare come il proliferare di associazioni di Terzo settore non sempre possa o debba produrre partecipazione e relazione. Si possono verificare fenomeni dissociativi più che associativi in enti del Terzo settore eccessivamente burocratizzati e/o orientati al mercato. Il doppio livello del piano soggettivo, della motivazione solidale ad agire, e oggettivo di produzione di solidarietà sociale, possono essere determinanti per considerare queste associazioni ancora organizzazioni solidali. Come per le considerazioni su politica e subpolitica, non è detto naturalmente che la de-solidarizzazione di queste organizzazioni significhi la fine della solidarietà, ma che questa vada forse cercata altrove, magari in espressioni pienamente individuali come la cittadinanza attiva o il volontariato riflessivo.