2. Il graduale innalzamento dell’età pensionabile.
2.1. La parità uomo-donna nell’età pensionabile.
2.1.1. La ricostruzione del quadro normativo interno e comunitario.
Un altro aspetto collegato all’innalzamento a quanto poc’anzi analizzato riguarda la realizzazione della parità di trattamento tra uomo e donna nell’età pensionabile. Come è già stato osservato, la legge n. 243 del 2004, abrogando la disciplina sull’età pensionabile flessibile, ha reintrodotto, per il settore privato una differenziazione per genere nell’età pensionabile (60 anni per le donne e 65 per gli uomini).
In modo analogo, una tale differenziazione sussiste per i lavoratori del settore pubblico. Infatti, dal 1992, in tale settore, l’ età pensionabile è fissata tanto per gli uomini quanto per le donne al raggiungimento dei 65 anni di età anagrafica . Tuttavia, ai sensi dell’art. 2 comma 21 della legge 335 del 1995, si introduce a favore delle sole lavoratrici la facoltà di optare per la cosiddetta “uscita anticipata”, vale a dire di poter interrompere il rapporto lavorativo al raggiungimento dei 60 anni di età.
Si tratta, in realtà, di una disposizione peculiare del sistema previdenziale italiano che non trova cittadinanza negli ordinamenti previdenziali di altri paesi europei (come Francia, Germania, Spagna, Danimarca, Irlanda, Paesi Bassi , Lussemburgo).
Tale differenziazione è sempre stata considerata ragionevole rispetto ai principi costituzionali, proprio in ragione della posizione della donna nella realtà sociale, lavorativa e familiare.
Basti pensare che la stessa Corte costituzionale ha manifestato, dal 1969 ad oggi, un orientamento costante su tale tematica.
Esempi in tal senso sono le prime decisioni della Corte costituzionale in materia di età pensionabile, pronunciate nel 1969, in cui la Corte sottolineava come il principio di parità tra uomo e donna sancito all’at. 3 Cost. non deve essere inteso necessariamente come trattamento indifferenziato, ma dove considerare le ragionevoli differenziazioni dei rapporti e delle situazioni confrontate. Pertanto, proprio con riguardo all’età pensionabile, la Corte riteneva ragionevole la fissazione di una diversa età pensionabile per le donne al fine di salvaguardare “l'essenzialità
della funzione familiare della donna”. I giudici costituzionali ritenevano cioè che
venga distratta dalle cure familiari e di consentire che, giunta ad una certa età, essa torni ad accudire esclusivamente alla famiglia, con l'apporto anche di quella pensione che le spetta”.387.
Si pensi anche al filone giurisprudenziale in tema di età lavorativa: mentre la Corte costituzionale era ferma nel giudicare illegittima qualsiasi disposizione che introducesse una discriminazione tra uomo e donna nell’età lavorativa ( intesa come limite finale alla garanzia della stabilità del posto di lavoro) in considerazione dell’evoluzione della disciplina lavoristica e previdenziale, dell’evoluzione tecnologica e della stessa disciplina dei rapporti di famiglia, non mancava di giustificare, invece, la differenziazione di trattamento nell’età pensionabile alla luce del criterio della ragionevolezza.
Un esempio è dato dalla sent. n. 498 del 1988388 con cui la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale del l'art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 nella parte in cui, per le lavoratrici, subordinava la prosecuzione del rapporto di lavoro tra il cinquantesimo ed il sessantesimo anno di età, all'esercizio, da parte loro, di un'opzione in tal senso, da farsi tre mesi prima della data del perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia. Tale norma, a detta della Corte costituzionale, introduceva un trattamento deteriore rispetto ai lavoratori, per i quali non sussisteva alcun onere di questo tipo. In tale sentenza, infatti, pur ritenendo che “il riferimento
alle norme sul pensionamento anticipato per vecchiaia della donna (55 anni) rispetto all'uomo (60 anni) ivi contenuto fosse meramente incidentale”, la Corte costituzionale non mancava di
ribadire che “rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al
cinquantacinquesimo anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione”.
Od ancora la sent. n. 296 del 1994 con cui la Corte costituzionale rigettava la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 della legge 23 aprile 1981, n. 155, nella parte in cui non consentiva alle lavoratrici del settore siderurgico, che avessero compiuto il cinquantacinquesimo anno di età, di beneficiare dello stesso aumento di anzianità contributiva e conseguente miglior trattamento di pensione, cui hanno
387
Corte cost., sent. n. 123 del 1969. La Corte dichiarava infondata la questione sollevata in riferimento alla dell'art. 140 del testo unico delle leggi sui servizi di riscossione delle imposte dirette, approvato con D.P.R. 15 maggio 1963 n. 858, nella parte in cui fissava una diversa età pensionabile tra donne e uomini. Cfr. anche Corte cost. n. 137 del 1969.
388
Si vedano anche in tema di parità uomo e donna nell’età pensionabile: Corte cost. sentt. n. 1106 del 1988; n, 371 del 1989; n. 134 del 1991; n. 503 del 1991; n. 404 del 1993; n. 345 del 1994; n. 64 del 1996; n. 335 del 2000.
diritto i lavoratori ultra cinquantacinquenni per il periodo compreso tra la data di risoluzione del rapporto e quella del compimento di 60 anni d'età.
La Corte, anche in tale caso, considerava tale disparità di trattamento come “una
conseguenza del privilegio conservato dalle lavoratrici in ordine al requisito di età per avere diritto alla pensione di vecchiaia (c.d. età pensionabile), tenuto fermo per le donne al compimento di cinquantacinque anni, pur dopo l'intervenuta parificazione dell'età lavorativa a quella degli uomini (sessant'anni) per effetto della sentenza n. 498 del 1988” .
Dello stesso tenore è la sentenza della Corte costituzionale n. 254 del 2002. La questione riguardava una disposizione transitoria, nella parte in cui prevedeva che, mentre gli uomini conservavano la stabilità del posto di lavoro fino al compimento del sessantatreesimo anno di età (coincidendo, per loro, l'età pensionabile con quella lavorativa), le donne potevano continuare a lavorare fino al sessantesimo anno ma, per poter usufruire del prolungamento al sessantatreesimo anno erano soggette all'onere di opzione stabilito all'art. 6 del citato D.L. n. 791 del 1981 e ciò in contrasto con il principio della parità, riguardo all'età lavorativa, tra uomo e donna. La Corte rigettava per infondatezza la questione e sintetizzava i principi della materia affermati in via giurisprudenziale fino ad allora :
“a) i precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 37, primo comma, non consentono di regolare l'età lavorativa della donna in modo difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per quanto concerne il limite massimo di età, ma anche riguardo alle condizioni per raggiungerlo;
b) non urta contro alcun principio costituzionale la previsione per le donne di un limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia inferiore a quello fissato per gli uomini, anche se ciò implica il venir meno per le prime della coincidenza tra età per ottenere le pensione di vecchiaia ed età lavorativa”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte costituzionale affermava che le disposizioni impugnate “hanno esclusivamente innalzato i limiti della età pensionabile
perpetuando, in riferimento a tale età, sia pure con uno spostamento in avanti, la differenza già esistente tra uomini e donne, la quale continua a costituire un giustificato beneficio per queste ultime”.
Tuttavia, la ‘via italiana’ per garantire anche in ambito previdenziale la parità di trattamento uomo e donna, sembra oggi essere messa in crisi da quanto deciso, di recente , a livello comunitario dalla Corte di Giustizia.
Il chè, può, a prima vista, apparire strano, dato che proprio il principio di parità di trattamento tra uomo e donna ha costituito ab origine, il fulcro della costruzione
graduale del modello sociale europeo389, oggi riconosciuto anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, agli articoli 21 e 23, ribadisce il divieto di discriminazione fondata sul sesso e il diritto alla parità di trattamento fra uomini e donne in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, lavoro e di retribuzione. Ed infatti, per ricostruire l’applicazione di tale principio in ambito di sicurezza sociale, bisogna innanzitutto guardare a quanto sancito genericamente all’art. 141 (ex art. 119) del Trattato CE che introduce il principio di parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, considerando espressamente per retribuzione, “il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo”.
Specificatamente, però, in materia previdenziale assume un significato particolare la normativa comunitaria che ha introdotto nel tempo misure di armonizzazione tra le legislazioni degli Stati membri. Il riferimento va in primis alla Direttiva n. 7 del 1979 che richiama il principio di parità di trattamento tra uomo e donna nel versamento dei contributi e nell’erogazione delle prestazioni previdenziali in generale, con esclusione degli assegni familiari, prestazioni ai superstiti e con esclusione altresì dll’età pensionabile (art. 3 e 4). Tuttavia, ai sensi dell’art. 7, viene previsto che gli Stati Membri possano derogare a detto principio, per quanto riguarda l’età pensionabile, la contribuzione figurativa, le maggiorazioni delle pensioni o rendite per la consorte, a patto che vengano periodicamente esaminate le materie escluse “al fine di valutare se, tenuto conto dell’evoluzione sociale in materia, sia giustificato mantenere le esclusioni in questione”.
L’obiettivo della parità di trattamento anche retributivo è stato poi previsto nel Protocollo 17 allegato al Trattato di Maastricht il quale specifica quanto sancito all’art. 141, sull’autorizzazione degli Stati membri a mantenere o adottare misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l'esercizio di un'attività
389
Basti pensare al fondamentale contributo della giurisprudenza comunitaria nell’affermazione del principio di parità di trattamento uomo- donna , del principio di pratiche discriminatorie dirette e indirette o dell’affermazione delle azioni positive in ambito lavorativo e non. Per la ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale a livello comunitaria in tema di azioni positive si rinvia a A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva
costituzionale, Padova, 2002;A. D’ALOIA, Diritti sociali e politiche di eguaglianza nel processo costituzionale europeo, in M.SCUDIERO (a cura di), Il diritto costituzionale comune europeo, Principi e diritti fondamentali, vol. secondo, Tomo II, Napoli, 2002.
professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali.
Altrettanto importante, in materia previdenziale, è la direttiva 378 del 1986 come modificata dalla Direttiva 96/97/CE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale.
Infine, merita di essere menzionata la direttiva 2006/54/CE adottata dal Parlamento europeo e dal consiglio in data 5 luglio 2006, in attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (il cui termine per il recepimento è scaduto in agosto 2008) e che si pone come obiettivo la refusione in un unico testo delle principali disposizioni contenute nelle diverse direttive nonché gli sviluppi risultanti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia ( considerando n. 1) .
Tale direttiva, dedica un intero capo alla sicurezza sociale (capo 2): è introdotto il divieto di discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso per quanto riguarda le condizioni di accesso dei regimi previdenziali professionali, per quanto attiene all’obbligo di versare i contributi e al calcolo degli stessi; per ciò che riguarda il calcolo delle prestazione, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico nonché le condizioni relative al mantenimento del diritto alle prestazioni (art. 5).
Tale capo si applica ai regimi professionali di sicurezza sociale che assicurano, tra le altre, una protezione contro il rischio di vecchiaia (incluso il pensionamento anticipato); ai regimi pensionistici di una categoria particolare di lavoratori come quella dei dipendenti pubblici (art. 7), con esclusione dei regimi professionali di sicurezza sociale alimentati da contributi versati dai lavoratori su base volontaria (art. 8). Tra gli esempi di discriminazione che vengono illustrati ai sensi dell’art. 9,viene espressamente riconosciuto il carattere discriminatorio delle disposizioni che si basano direttamente o indirettamente sul sesso per stabilire limiti di età differenti per il collocamento a riposo ( art. 9, lett. f). Viceversa, è considerato compatibile con la normativa comunitaria, così introdotta, il fatto che uomini e donne possano chiedere un’età flessibile alle stesse condizioni (art. 13).
2.1.2. La procedura d’infrazione avviata contro l’Italia e la decisione della Corte di giustizia