• Non ci sono risultati.

La procedura d’infrazione avviata contro l’Italia e la decisione della Corte di giustizia del 13 novembre 2008 (C-46/07).

2. Il graduale innalzamento dell’età pensionabile.

2.1. La parità uomo-donna nell’età pensionabile.

2.1.2. La procedura d’infrazione avviata contro l’Italia e la decisione della Corte di giustizia del 13 novembre 2008 (C-46/07).

trattamento previdenziale al raggiungimento dei 60 anni di età anagrafica, anziché al compimento dei 65 anni di età, disposizione a favore nei confronti delle lavoratrici del settore pubblico, la Commissione europea ha avviato nel 2005 una procedura d’infrazione, conclusasi il 13 novembre scorso.

La Corte di Giustizia ha dichiarato che “mantenendo in vigore una normativa in forza

della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse, a seconda che siano uomini o donne”, l’Italia è incorsa nella violazione del principio di parità

tra uomo e donna nella retribuzione sancito all’art. 141 CE.

La Corte di Giustizia è pervenuta a tale decisione con alcune argomentazioni logico - giuridiche che meritano di essere ricostruite.

La prima. In base ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, i

Giudici comunitari hanno ricondotto entro la nozione comunitaria di retribuzione, prevista ai sensi dell’art. 141 TCE, la “ pensione corrisposta dal datore di lavoro ad un ex

dipendente per il rapporto di lavoro tra loro intercorso”390.

Successivamente, hanno verificato se il regime previdenziale gestito dall’Inpdap per il settore pubblico potesse essere considerato alla stregua del regime di sicurezza sociale professionale391, che è tale se la pensione è erogata a favore di una particolare categoria di lavoratori; se è direttamente funzione degli anni di servizio prestati; se, infine, l’importo viene calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente.

Non dando seguito alle repliche dello Stato Italiano che, rappresentando le tappe dell’evoluzione del sistema previdenziale, sosteneva come il regime Inpdap fosse invece un regime di sicurezza sociale legale392, la Corte riteneva soddisfatti i tre

390

Cfr. anche CdG, causa C-262/88, sent. 17 maggio 1990; Causa C-109/91, sent. del 6 ottobre 1993 Causa C-109/91.

391

Cfr. CdG. Causa C- 7/93, sent. del 28 settembre 1994; causa C-366/99, sent. del 29 novembre 2001; causa C-351/00, sent. del 12 settembre 2002. La Corte così avalla la distinzione tra regime professionale e regime legale, soggetto invece alla disciplina introdotta della direttiva 79/7/Cee che ai sensi dell’art. 7 consente una diversificazione per genere nell’età pensionabile.

392

Quest’ultimo, infatti, riteneva che il regime Inpdad dovesse essere considerato come regime di sicurezza sociale legale, in ragione dl processo di tendenziale privatizzazione, avviato negli anni ’90 nel settore del pubblico impiego, del processo di tendenziale uniformazione tra settore privato e settore pubblico, che rileva anche sotto il profilo dell’età pensionabile (essendo stata reintrodotta la differenziazione per genere dell’età pensionabile per il settore privato). Inoltre escludeva altresì che potesse trattarsi di regime di sicurezza professionale, alla luce del calcolo stesso della pensione. In merito, lo Stato italiano, precisava che il termine retribuzione , in ambito nazionale, indica “ il

sistema di calcolo delle pensioni…inteso come riferito ai contributi che su tali retribuzioni sono stati pagati e che, conformemente all’attuazione della riforma che la Repubblica italiana ha condotto…la pensione tiene conto della media della retribuzione percepita nel corso degli ultimi 10 anni e dei corrispondenti contributi versati”. Con

riguardo a quest’ultimo profilo, la Corte di Giustizia sosteneva che anche se la pensione fosse calcolata sulla media della retribuzione percepita nell’ultimo periodo di lavoro, essa comunque, è da intendersi come retribuzione ai sensi dell’art. 141 Trattato CE.

requisiti. Pertanto, equiparando la pensione erogata dall’Inpdap alla retribuzione ex art. 141 del Trattato, ravvisava la violazione di tale articolo ed affermava che “le

considerazioni di politica sociale, di organizzazione dello Stato, di etica o anche le preoccupazioni di bilancio che hanno avuto o hanno potuto avere un ruolo determinante nella determinazione di un regime pensionistico da parte di un legislatore nazionale, non possono considerarsi prevalenti qualora la pensioni interessi soltanto una categoria particolare di lavoratori, sia direttamente in funzione degli anni di servizio e il suo importo sia calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico”.

La seconda.

Lo Stato italiano riteneva che la differenziazione di genere nell’età pensionabile fosse da considerarsi come azione positiva ai sensi dell’art. 141, n. 4 del Trattato e, dunque, “come vantaggio specifico, diretto a evitare o compensare svantaggi nelle carriere, al fine di

assicurare una piena uguaglianza tra uomini e donne ”.

Si tratta di una argomentazione a mio giudizio debole: la fissazione di una diversa età pensionabile per le donne non potrebbe mai essere considerata alla stregua di strumento per ovviare agli svantaggi di carriera (si tratterebbe casomai di una ‘forma di risarcimento’ da parte dello Stato, per non aver saputo rinvenire strumenti efficaci volti a garantire le pari opportunità nell’accesso alla formazione professionale, alle carriere o agli avanzamenti di carriera !).

Argomentazione che, a ben guardare, la stessa Corte costituzionale non ha mai utilizzato nel riconoscere la legittimità costituzionale della disciplina differenziata dell’età pensionabile. Quest’ultima, infatti, come è stato osservato, ha sempre giustificato la legittimità di tale disciplina sotto il profilo della ragionevolezza, facendo leva sul differente e complesso ruolo della donna nella società.

E’ proprio in ragione di questa argomentazione che devono essere ‘prese sul serio’ le affermazioni della Corte di Giustizia, secondo cui: “i provvedimenti nazionali

contemplati da tale disposizione (dall’art. 141 n. 4) debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo.”. Finalità a

cui non è certamente diretta la fissazione di un’età differente in ragione del sesso del dipendente pubblico in quanto, tale provvedimento “non è tale da compensare gli

svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vota professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale.”.

Si tratta di una affermazione che suona a mo’ di monito nei confronti dello Stato italiano, il quale dovrebbe altresì ‘approfittare’ di tale sentenza, per rivedere lo stato di attuazione delle politiche delle pari opportunità in ambito lavorativo e non e garantire più agevolazioni e servizi pubblici per permettere alle donne di affermarsi in tutta la sua ‘naturale’ differenza nei molteplici ruoli che ancora oggi è tenuta a ricoprire e, contemporaneamente, per garantirle l’opportunità di raggiungere i medesimi traguardi professionali degli uomini.

Outline

Documenti correlati