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zato mediante una pluralità di fatti sorretti da un nesso di abituali tà: a) osservazioni preliminar

Il nucleo “forte” della tesi in esame consiste nell’idea per la quale sa- rebbe abituale quel reato la cui norma incriminatrice descrive il compor- tamento illecito in termini pluralistici; menzionando, cioè, una pluralità di fatti omogenei, la cui commissione non è, tuttavia, sufficiente a realizzare il reato abituale se tali fatti non risultino avvinti da un nesso di abitualità, di natura oggettiva, a sua volta definito come un legame di persistente fre- quenza tra gli stessi.

Vi è però, tra gli Autori in analisi, una rilevantissima differenza d’im- postazione, che occorre fin d’ora mettere chiaramente in luce.

Secondo Manzini, Petrocelli e Fornasari, infatti, “abituale” sarebbe esclusivamente quel reato in cui la commissione di più fatti o azioni avvin- ti da un nesso di abitualità appaia necessaria ai fini della consumazione; in altri termini, i reati abituali vengono distinti dai reati non abituali unica- mente dal punto di vista preconsumativo.

Si tratta, in buona sostanza, del riconoscimento – esplicito o implicito – della categoria dei necessariamente abituali (propri e/o impropri); di quei reati, cioè, denominati da Leone “necessariamente abituali della prima spe- cie” e “abituali della seconda specie” 119.

Petrone e Cocco, invece, pur non rinunciando a definire i reati necessa- riamente abituali nel senso poc’anzi menzionato, individuano quale carat- teristica specifica del reato abituale anche il fatto che, dopo la consuma- zione del reato, la reiterazione di fatti avvinti dal nesso di abitualità prose- gua nel tempo, dando così luogo alla sua fase di durata postconsumativa.

Ampliando in tal guisa la definizione di reato abituale, questi due ulti- mi Autori riescono dunque a dar riconoscimento anche alla figura del rea- to eventualmente abituale; il quale, altrimenti, potendo essere realizzato anche da un singolo fatto o episodio, risulterebbe indistinguibile dal reato non abituale in base alle sole caratteristiche della fase preconsumativa.

In definitiva, quindi, per Petrone e Cocco l’unico vero tratto comune a tutte e tre le categorie di reato abituale sembrerebbe essere non tanto la necessaria posizione in essere di più fatti ai fini della consumazione, quanto l’eventuale presenza di una fase di durata postconsumativa del rea- to, che racchiuderebbe in un illecito unitario anche le condotte, avvinte da un nesso di abitualità, commesse successivamente alla Vollendung.

Di seguito, per prima cosa, valuteremo criticamente l’assunto, comune a tutti gli Autori che aderiscono alla tesi in esame, per cui i reati necessa- riamente abituali (propri e impropri) si contraddistinguerebbero già alla

luce delle peculiarità presenti nella fase antecedente alla consumazione; successivamente, tratteremo della fase eventuale postconsumativa del rea- to abituale, che – almeno nell’impostazione di chi riconosce la categoria del reato eventualmente abituale – rappresenta l’unica vera nota caratteri- stica dell’abitualità.

7. Segue: b) la caratterizzazione del reato abituale dal punto di vista

preconsumativo

Prendendo le mosse, dunque, dalle caratteristiche asseritamente posse- dute dal reato necessariamente abituale nella fase preconsumativa, ed in particolare dalla necessaria pluralità di “azioni” o “fatti”, occorre premette- re che, come già notato nel prendere in esame l’opera di Leone, tale carat- teristica non possa essere considerata una differentia specifica dei reati abituali, perché un gran numero di reati, comunemente non considerati abituali, descrivono una pluralità di azioni, puntualmente indicate dalla norma incriminatrice e tutte necessarie per la loro consumazione 120. Non

sembra utile, pertanto, ripetere in questa sede osservazioni già svolte. È pur vero, infatti, che alcuni degli Autori in esame non parlano espressamente di pluralità di azioni, ma di «fatti» 121; sennonché, però, o

non viene affatto precisato che cosa si intenda per “fatti”, oppure, nel de- finire il concetto di “fatti”, si finisce per evocare distinzioni ancora più bi- zantine di quella tra pluralità di “atti” e pluralità di “azioni” sulla quale si basa l’impostazione di Leone.

Così, ad es., Petrone afferma che «i fatti» componenti un reato abituale sarebbero «frammenti di un’unica condotta» 122 e che i meri «atti» compo-

nenti un reato plurisussistente sarebbero «frammenti dell’azione» 123, di-

stinguendo fermamente l’una e l’altra categoria 124; ma si guarda bene dal-

lo spiegare perché un complesso di “frammenti dell’azione” darebbe luogo a un reato plurisussistente e, invece, un complesso di “frammenti di un’unica condotta” a un reato abituale 125.

E ancora: sempre Petrone ribadisce che, pur a fronte di una pluralità di “fatti” o “atti”, la condotta del reato abituale dovrebbe risultare necessa- riamente «unica», e non plurima, in ciò distinguendosi il reato abituale

120 V. supra, § 3.

121 G.FORNASARI, voce Reato, passim; M.PETRONE, passim. 122 M.PETRONE, Reato, cit., 18.

123 M.PETRONE, Reato, cit., 7. 124 M.PETRONE, Reato, cit., 7 e 18-19. 125 M.PETRONE, Reato, cit., 18-19.

dai reati a condotta plurima o frazionata, come la falsità in scrittura priva- ta (art. 485 c.p. abr.) 126; ma non chiarisce affatto il motivo per cui, ad es.,

non potrebbe considerarsi plurima la condotta del padre-padrone che, ogni domenica, torna a casa dal circolo degli scacchi e picchia i propri fi- gli, così integrando il delitto necessariamente abituale di maltrattamenti (art. 572 c.p.).

A nostro avviso, non vi è modo per uscire dall’impasse, se non rinun- ciando alle pretese di unicità del reato abituale nella fase preconsumativa. Se si ritiene, infatti, che tratto comune irrinunciabile dei reati neces- sariamente abituali (propri o impropri) sia la descrizione, «nella fattispe- cie astratta» 127, di una pluralità, la cui realizzazione è necessaria ai fini

dell’integrazione del Tatbestand, è giocoforza ammettere che la descrizio- ne in termini pluralistici di un comportamento vietato è comune a molte altre norme incriminatrici di parte speciale che configurano reati comune- mente ritenuti non abituali e che non è certo mutando il nome a ciò che deve essere realizzato “più di una volta” che può negarsi l’evidenza nor- mativa.

Del resto, «cosa c’è in un nome» 128? Con un qualsiasi altro nome, non

avrebbe forse il medesimo sentore ciò che è necessario reiterare, al fine di realizzare un reato abituale?

Lo si chiami pure “atto”, “azione” o “fatto”; la sua necessaria pluralità finirebbe pur sempre per essere elemento comune ad altre norme incri- minatrici che prevedono reati comunemente non ritenuti abituali.

D’altra parte, nemmeno il requisito dell’omogeneità dei fatti (di seguito: “azioni” o “condotte”) contribuisce a distinguere realmente il reato abitua- le da altri reati la cui condotta è descritta in termini pluralistici.

Se, infatti, «omogeneità» significa che le plurime condotte «devono concorrere alla lesione o alla messa in pericolo» del bene giuridico protetto «dalla norma che prevede il reato di cui si tratta» 129, è del tutto palese che

il requisito è soddisfatto anche dal delitto di furto (art. 624 c.p.), in cui le condotte di “sottrazione” e “impossessamento” concorrono inequivoca- bilmente alla lesione dell’interesse per la cui tutela è posta la norma in- criminatrice.

Ma anche a voler sostenere, in ipotesi, che il requisito dell’omogeneità delle condotte evidenziasse la necessità di una tendenziale uniformità delle modalità esecutive delle plurime che costituiscono il reato abituale, risul-

126 M.PETRONE, Reato, cit., 7. Molto più lineare, sul punto, la posizione di G.COCCO,

Reato, cit., ivi; ID., Unità, cit., ivi, che rinuncia a caratterizzare come unitaria la condotta di un reato abituale.

127 M.PETRONE, Reato, cit., 17. 128 Romeo and Juliet (2.2.43).

terebbe, a nostro avviso, agevole replicare che la stessa norma incrimina- trice di un delitto indiscutibilmente ritenuto abituale, come quello di atti persecutori (art. 612 bis c.p.), fa riferimento a condotte tutt’affatto diverse – «minaccia» e «molestia» – e che, comunque, non si riesce a scorgere la differenza, in termini di maggiore o minore “uniformità”, tra tali condotte e quelle di cui consta, ad es., il delitto di furto (art. 624 c.p.).

Sia consentito, infine, dubitare anche dell’ultima caratteristica che do- vrebbe distinguere, sul piano preconsumativo, il reato necessariamente abituale, ovvero, il nesso di persistente frequenza (di abitualità) tra le plu- rime azioni richieste per la consumazione del reato.

Innanzitutto, occorre osservare che, a differenza del requisito rappre- sentato dalla pluralità delle condotte, che appare ancorato alla descrizione del comportamento incriminato in termini pluralistici da parte dalla legge (o, quantomeno, alla sua possibile interpretazione in termini pluralistici), il fatto che le condotte costitutive del reato debbano essere necessaria- mente commesse con persistente frequenza per realizzare la norma in- criminatrice non può in alcun modo essere derivato dalla legge; il che, già di per sé, ci pare rappresenti un’evidente contraddizione rispetto ad una teo- ria che vorrebbe fondare la categoria dei reati necessariamente abituali esclusivamente sulla base dell’osservazione delle caratteristiche della nor- ma incriminatrice.

Del tutto inconferente, inoltre, il primo argomento speso da Petrone per dimostrare che, nei casi in cui la norma incriminatrice utilizzi termini quali “abitualmente” o similari, il legislatore abbia inteso riferirsi alla “persistente frequenza” della condotta, e cioè il riferimento alla disciplina dell’ubriachezza abituale (art. 94 c.p.) e dell’abitualità o professionalità nel reato (artt. 102, 103, 104, 105 c.p.) 130.

A parte il fatto che, anche se tale argomento fosse accettabile, con ogni evidenza esso varrebbe solamente per i reati (necessariamente) abituali dove “l’abitualità” o concetti similari vengano nominati espressamente dal legislatore (e ciò accade raramente), è impossibile non rilevare, con una certa qual perplessità, che lo stesso Petrone, nel trattare del «reato abitua- le e dell’abitualità del reato», afferma che una possibile interferenza tra le due figure andrebbe risolta «sempre nel senso dell’estraneità dell’una rispet- to all’altra» 131. Sennonché, allora, non si capisce come da una figura

estranea a quella del reato abituale possano trarsi indicazioni su un requi- sito fondamentale di quest’ultima.

Inoltre, non meno dubbi solleva il secondo argomento speso per dimo- strare la necessaria sussistenza di un nesso di abitualità tra le plurime con- dotte costitutive di un reato abituale, secondo cui la speciale natura dell’of-

130 V. amplius supra, § 4. 131 M.PETRONE, Reato, cit., 30.

fesa nei reati (necessariamente) abituali, essendo «non solo quantitativa- mente ma anche qualitativamente» diversa da quella di una condotta singo- la, potrebbe derivare soltanto da una ripetizione frequente di condotte 132.

Non vediamo ostacoli, infatti, nell’immaginare un caso in cui un delitto necessariamente abituale si consumi – al limite – con la posizione in esse- re di sole due condotte, magari commesse ad una certa distanza nel tempo, ma di rilevanza tale da essere da sole sufficienti ad aggredire significati- vamente il bene giuridico protetto.

Si pensi, ad es., a due feroci esplosioni di gelosia dell’ex fidanzata pos- sessiva, avvenute a distanza di un mese l’una dall’altra, al culmine delle quali quest’ultima abbia minacciato con un’arma la vittima, così ingene- rando «un perdurante e grave stato d’ansia» nel convivente di un tempo. Si potrebbe negare, in un caso del genere, che si sia realizzata una lesione al bene giuridico alla cui tutela è posto il delitto necessariamente abituale di atti persecutori (art. 612 bis c.p.), nonostante l’evidente insussistenza di un nesso di abitualità, nel senso inteso dai fautori della concezione in esame? Sarebbe accettabile, nell’esempio immaginato, l’esclusione della responsabilità della focosa ex fidanzata per il delitto di atti persecutori consumato, attesa la mancanza del requisito della “persistenza frequenza” tra le condotte di minaccia commesse?

Fatto salvo, insomma, il principio di legalità, che impone che la penale responsabilità dell’imputato discenda soltanto dalla realizzazione di tutti i Tatbestandsmerkmale previsti dalla norma incriminatrice, non si capisce come possa apoditticamente sostenersi che l’offesa di un reato necessa- riamente abituale possa derivare soltanto da una pluralità di condotte commesse con persistente frequenza, e non invece da plurime condotte, magari non frequenti, ma ugualmente cariche di potenziale offensivo per il bene giuridico protetto.

Anzi, a ben vedere, richiedere che le condotte necessarie per la realiz- zazione del reato siano commesse con persistente frequenza non significa nient’altro che introdurre un elemento di rigidità nella valutazione dell’of- fensività in concreto del Sachverhalt, tanto più pericoloso, quanto più reca il rischio di ancorare tale valutazione a vere e proprie presunzioni, relative alla frequenza delle condotte costitutive del reato, anziché alla prudente ponderazione di tutte le caratteristiche della fattispecie concreta.

Infine, è appena il caso di notare che tutte le obiezioni sollevate riguar- dano sia la categoria dei reati necessariamente abituali propri, sia quella dei reati necessariamente abituali impropri, la cui sostanziale identità è stata già dimostrata trattando delle analoghe categorie del reato necessariamente abituale della prima specie e del reato abituale della seconda specie 133.

132 M.PETRONE, Reato, cit., 33.

Anche la tesi in esame, dunque, come già la tesi di Leone prima di essa, finisce, a nostro avviso, per non riuscire ad individuare una caratteristica peculiare dei reati necessariamente abituali nella fase preconsumativa e, pertanto, non ci pare possa essere accolta.

8. Segue: c) la caratterizzazione del reato abituale dal punto di vista