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3. La democrazia rappresentativa

4.1. Il mito del popolo elettore

Si è già in parte delineata, nei capitoli precedenti, una delle figure centrali all‘interno della riflessione dei deputati romani sul sistema rappresentativo, ossia quella del popolo elettore; in questa prima parte del capitolo cercheremo quindi di precisare alcune carat- teristiche di questa figura.

L‘idea che il popolo sia naturalmente portato ad intervenire in campo politico tramite la scelta elettorale, diventa nel biennio 1848-‘49 un vero e proprio mito, da cui deriva, sia in Francia che nella penisola italiana, quell‘entusiasmo nei confronti dell‘attuazione del suffragio universale che abbiamo analizzato nel precedente capitolo.

Si tratta di un‘idea che trova le sue radici culturali nella concezione proposta da Monte- squieu, in base alla quale da un lato si nega la possibilità che il popolo sia in grado di autogovernarsi, ma dall‘altro gli si riconosce la capacità di scegliere gli uomini più adat- ti a cui affidare l‘attività governativa.

Tale concezione trova in questo periodo una base d‘appoggio nell‘attribuzione di de- terminate caratteristiche al popolo, una figura che viene sottoposta ad un interessante processo di mistificazione. Abbiamo già visto emergere dalle parole di Mazzini alcuni aspetti dell‘immagine costruita dal pensiero romantico intorno al termine ―popolo‖; il

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patriota, associando metaforicamente il popolo al ―cuore‖ e i rappresentanti da esso scelti alla ―mente‖, colloca le facoltà del primo nella sfera dell‘emotività e dell‘istinto1

. La bontà dei sentimenti del popolo e il valore della sua saggezza, che si configura anco- ra una volta come innata ed istintiva, sono ulteriori elementi costitutivi di questa figura mitica, ma sono soprattutto gli attributi che spiegano la predisposizione del popolo a e- leggere i propri rappresentanti. La concezione dell‘attività elettorale come scelta collet- tiva e monista finalizzata all‘individuazione dei ―migliori‖ da un lato, e la visione del popolo come un‘entità compatta che si caratterizza per le sue spiccate doti intuitive e la saggezza istintiva del suo giudizio dall‘altro, sono le due componenti su cui si fonda il mito del popolo elettore.

L‘idea della consultazione elettorale come scelta collettiva e monista dei migliori, che abbiamo già esaminato, è intrinsecamente legata, dunque, a questo mito del popolo elet- tore. I più adatti a ricoprire il ruolo di rappresentanti possono essere individuati dal po- polo proprio in virtù delle innate capacità da esso possedute; capacità che gravitano nel campo dell‘irrazionale e dell‘istinto, piuttosto che in quello del giudizio critico consa- pevole. In tale processo di individuazione si esclude la possibilità che possano interveni- re considerazioni diverse da quelle dettate dall‘istintivo sentimento popolare. In quest‘ottica diventa quindi inaccettabile l‘appello agli elettori da parte dei candidati, co- sì come qualsiasi intervento esplicitamente finalizzato a influenzare l‘opinione popola- re; quest‘ultima infatti «[…] soltanto se consultata senza interventi esterni è ritenuta in grado di individuare i più capaci e meritevoli, in breve i migliori, secondo i canoni ari- stocratici del governo rappresentativo classico»2.

Risulta interessante inoltre considerare che le capacità di scelta attribuite al popolo, dai costituenti romani, sono in realtà limitate, come dimostra la decisione di eliminare l‘elezione diretta dei consoli, nel secondo progetto. Nella relazione fatta in aula il 10 giugno, Saliceti spiega la modifica in questi termini:

Al suffragio universale per la nomina de‘ Consoli fu sostituito l‘indiretto, cioè per mezzo dell‘Assemblea. La vera democrazia non posa sul principio che tutti sieno chiamati ad esercitare gli stessi diritti, ma che ciascuno è chiamato ad esercitare quel

1 «In consonanza con i suoi «correligionari» francesi, Mazzini pensa la democrazia rappresentativa fonda-

ta sul voto universale nella cornice di un regime repubblicano come il governo dei più saggi e dei più vir- tuosi individuati dal popolo, legittimato a farsi «elettore» grazie alla sua predisposizione naturale a non ingannarsi nel giudizio sulle persone e, di conseguenza, a discernere i giusti rappresentanti. Il discorso del «popolo elettore» ripropone la tesi classica di Montesquieu, mutuata dal pensiero repubblicano rinasci- mentale, secondo la quale il popolo in corpo non ha attitudine all‘autogoverno, ma ha le qualità cognitive per eleggere i magistrati più capaci.». (G.L. Fruci, Il «suffragio nazionale» … cit., p. 617.

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diritto di cui è capace. Il popolo non può direttamente esercitare il diritto di nominare i Consoli, perché il più delle volte sarebbe incapace a fare una buona scelta. S‘egli no- mina direttamente i suoi rappresentanti, è perché in un rappresentante si richieggono minori qualità speciali che in un Console; basta solo consultar la pubblica opinione; e nel copioso numero de‘ rappresentanti qualche cattiva nomina resta senza conseguenza, come vinta dalla maggioranza. Dove però trattasi di scegliere uno o pochi individui, una nomina fatta all‘impazzata può segnar la rovina della Nazione. 3

La capacità di individuazione degli uomini giusti, riconosciuta al popolo, risulta quindi valida solo per i rappresentanti da inviare all‘Assemblea legislativa, ai quali si richiede di possedere un minor numero di capacità specifiche e la cui individuazione risulta, in virtù di questo, più facile. In uno dei motivi addotti da Saliceti si può, inoltre, leggere un tono vagamente diffidente nei confronti delle reali capacità del popolo di compiere la scelta adeguata; si ammette, infatti, l‘eventualità che il popolo sbagli anche nel designa- re qualche deputato dell‘Assemblea, ma in presenza di un numero elevato di membri ta- le errore può essere facilmente riassorbito. Da notare infine il riferimento all‘opinione pubblica, che ribadisce quell‘idea, già più volte esaminata, che vede nella scelta eletto- rale il frutto di una riflessione collettiva; una concezione che limita ulteriormente le ca- pacità di deliberazione attribuite al popolo che, come si è detto, può agire solo a livello collettivo, escludendo quindi che i cittadini possano valutare individualmente i candidati da eleggere. La decisione di affidare l‘elezione dei consoli all‘Assemblea, la quale, di- versamente dal popolo, resta immune dal sospetto di compiere una scelta sbagliata, si lega a un‘altra concezione che vede, invece, nei rappresentanti una elite di saggi che si distingue nettamente dal popolo, come vedremo nel prossimo paragrafo.

Alla rappresentazione offerta dall‘immagine del popolo elettore si aggiunge, nel caso romano, l‘idea che il governo Pontificio abbia prodotto nella società dello Stato quelle particolari condizioni, che permettono di collocare il popolo romano in una sorta di fase infantile dello sviluppo delle società: lo Stato romano vive dunque nell‘epoca d‘oro dell‘ingenuità, godendo degli aspetti positivi di questa fase, in primis l‘assenza di molte piaghe sociali ed economiche che affliggono invece realtà più sviluppate, come quella francese o inglese. Questo tipo di rappresentazione della situazione sociale romana vie- ne proposta innanzitutto da Agostini in occasione della sua relazione sul primo progetto di Costituzione presentato all‘Assemblea. Vediamo il passaggio in cui introduce questa teoria:

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Quali sono le condizioni morali del nostro popolo? […] Il papato non ha potuto mai te- ocratizzare il Governo, e il nostro popolo ha potuto custodire nell‘anima incontaminato il sentimento della dignità della ragione. […] Onde fu che lo spirito del Governo papale non siasi infiltrato nell‘indole del popolo? Onde fu che il Governo papale fosse destina- to a cadere senza compianto? Fu perché la casta clericale volle dominar sempre sul po- polo, e sdegnò sempre di scendere, e dirò meglio, sdegnò sempre di salire sino al popo- lo, e mescolarsi con lui. […] Se il clero non fosse stato una casta dominatrice, e se, mentre il Pontefice fosse stato capo del potere politico, tutto il chiericato avesse vissuto nel regno dello spirito, e il governo fosse stato interamente nella mani del laicato, e il nostro popolo avesse avuto una vita politica, un‘istoria, o il trono papale non sarebbe caduto, o non sarebbe caduto senza compianto, e avrebbe lasciato certamente qualche tradizione di affetto. […] Per i fatti che ho esposto è avvenuto che, propriamente par- lando, il nostro popolo, liberato com‘è della casta clericale, si è trovato senza il flagello delle classi.4

In questa parte dell‘intervento, Agostini riesamina la storia del governo papale rintrac- ciando in essa un‘attitudine particolare nei confronti della popolazione, dove con ―popo- lo‖ il deputato si riferisce all‘intera parte laica della società. Aver affidato il potere, in tutti i suoi vari aspetti, al clero ha prodotto un senso di diffidenza e distacco tra il ponte- fice e il popolo, da cui derivano due conseguenza: da un lato l‘assenza di un sentimento di attaccamento al potere papale nella popolazione, cosa che ha reso possibile l‘instaurazione della repubblica, e dall‘altro l‘aver ostacolato la formazione di una clas- se politica laica. Approfondiremo meglio nell‘ultimo paragrafo l‘idea, sviluppata nel di- scorso a partire da queste premesse che la società romana si caratterizzi per l‘assenza di classi; per il momento ci interessa considerare solo un aspetto di questa teoria, ossia quello che relega la società romana in uno stato di mancato sviluppo economico e socia- le. Agostini oppone a questa realtà quella di nazioni come l‘Inghilterra e la Francia, che hanno vissuti profondi cambiamenti, e dove si iniziano a sperimentare anche gli effetti sociali dello sviluppo industriale, tra cui la formazione di consistenti differenze econo- miche tra le parti della società e i conseguenti conflitti di classe. Il riferimento a questo tipo di realtà probabilmente si sovrappone, nella visione dei deputati romani, a quello delle differenze sociali tipiche delle società di antico regime; Agostini ad esempio asso- cia all‘«aristocrazia di sangue» quella che definisce come «aristocrazia delle ricchezze», e l‘assenza di divisioni di classi nella società romana è ricondotta sia all‘arretratezza e-

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conomica sia alla mancanza di una forte aristocrazia, tradizionalmente intesa, derivata proprio dall‘attitudine del governo papale nei confronti dei laici. All‘interno dell‘intervento del deputato risulta interessante il fatto che le condizioni di arretratezza economica della società romana siano presentate come una caratteristica particolarmen- te positiva, da tutelare anche in futuro per mezzo delle istituzioni repubblicane. Su que- sto punto Balzani propone un‘interessante analisi, rintracciando l‘origine culturale di questa visione proposta da Agostini nel mito di un‘originaria età dell‘oro: «La prover- biale arretratezza italiana  nota Balzani  […] diventava agli occhi di Agostini una ri- sorsa. […] Il popolo ingenuo delle origini, dell‘età medievale, sopravviveva cristallizza- to dall‘ignoranza e preservato nella sua integrità dal dominio clericale. […] Qui l‘astrattezza ideologica si sposa con un poderoso mito culturale: quello dei ―secoli d‘oro‖, della mitica età incorrotta e felice nella quale sarebbero vissuti, un tempo, gli uomini. […]»5

.

Balzani riconduce quindi l‘idea di una società economicamente poco sviluppata al mito positivo del popolo infante e incorrotto. Ed è sempre Balazani a notare come questo modello dapprima proposto da Agostini, venga adottato anche da Saliceti, che lo espone nella sua relazione al secondo progetto costituzionale, mostrando come, pur proponendo due modelli costituzionali in parte diversi, i due deputati partono dallo stesso presuppo- sto. Si tratta in realtà di una visione generalizzata all‘interno dell‘Assemblea, come ve- dremo meglio nell‘ultimo paragrafo.

Se accostiamo le due concezioni di cui abbiamo parlato, da un lato quella del popolo do- tato di spiccate capacità emotive e intuitive, che lo rendono adatto a scegliere i propri governanti ma non ad autogovernarsi, e dall‘altro quella del popolo incorrotto e frater- namente unito, possiamo vedere come l‘immagine che ne deriva risulta allo stesso tem- po analoga e opposta alla concezione illuminista di ―popolo‖.

Come spiega Goulemot in un articolo in cui si propone di mostrare l‘assenza di un‘adesione all‘ideale repubblicano all‘interno del pensiero illuminista settecentesco, l‘immagine del popolo offerta dai pensatori illuministi si presenta fortemente negativa; il popolo nel periodo dei lumi si connota come una massa sostanzialmente ignorante e violenta: «Tutto ci ricorda che gli illuministi  spiega Goulemot , sulla scia della tradi- zione libertina, non amano affatto questo popolo brutale e grossolano, in fondo così po- co filosofico e che fa paura. O se a volte si sentono ad esso vicino, come può esserlo

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Diderot, a quale popolo si riferiscono? In ogni caso non si tratta mai di assegnargli il po- tere politico. La preoccupazione pedagogica dell‘illuminismo […] risponde alla volontà di educare il popolo per prepararlo ad accedere alle responsabilità politiche. […] si teme la manipolazione di un popolo incolto da parte dei potenti e dei demagoghi, così come si temono la sua violenza e le sue passioni.»6.

Partendo da questa stessa idea di un popolo ignorante e dominato dalle passioni, i depu- tati romani, proponendo una visione di matrice romantica, vedono una capacità politica laddove gli illuministi vedevano un ostacolo alla partecipazione in campo politico. L‘assenza di sviluppo del pensiero critico tra le masse popolari spinge gli illuministi a temere le ascese di demagoghi e capi-popolo, mentre per i romantici proprio questo ca- rattere istintuale e non-razionale del giudizio è ciò che rende il popolo particolarmente capace di individuare i soggetti che possano meglio rappresentarlo.

In tal modo il romanticismo (nella sua variante democratica) non sembrerebbe apportare alcuna innovazione al modo di caratterizzare il popolo rispetto alla proposta illuminista, ma, ribaltandone la prospettiva, assegna al popolo un ruolo di primo piano nella vita po- litica, e ciò proprio in virtù di quelle caratteristiche che entrambi i movimenti gli attri- buiscono. Secondo quest‘ottica romantica l‘attiva partecipazione alla vita politica risulta in ultima analisi condizionata più dalla presenza di caratteristiche emotive che dal pos- sesso di strumenti razionali di giudizio critico.

Sulla base di questa visione, per gli illuministi diventa centrale, come sottolinea Goule- mot, il ruolo svolto dall‘educazione; solo attraverso l‘educazione il popolo può uscire dallo stato di ignoranza in cui si trova ed assumere quelle capacità critiche che gli per- metteranno di intervenire nella vita politica senza essere influenzati da condizionamenti di parte. È interessante, da questo punto di vista, notare che anche nella visione, di ma- trice romantica, dei deputati romani l‘educazione svolge una funzione di grande impor- tanza, e ad essa viene riconosciuto un ruolo centrale all‘interno di uno Stato repubblica- no; come si è già sottolineato, infatti, l‘idea di repubblica dei costituenti romani implica un intervento attivo dello Stato nella formazione della popolazione, allo scopo di mi- gliorarne le condizioni sia materiali che intellettuali e morali. Tuttavia nella visione dei deputati, diversamente da quanto espresso nel pensiero illuminista, lo sforzo educativo nei confronti del popolo non è finalizzato a renderlo politicamente responsabile, dal

6 J.-M. Goulemot, Sul repubblicanesimo e sull’idea repubblicana nel XVIII secolo, in F. Furet e M. Ozouf

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momento che, come si è detto, il popolo è in questa visione naturalmente portato a prendere determinate decisioni politiche.

È quindi il momento di esaminare in che modo viene concepita questa idea di miglio- ramento e di educazione nell‘elaborazione proposta dai costituenti romani.