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Popolo e nazione: il mito di una società senza class

3. La democrazia rappresentativa

5.3. Popolo e nazione: il mito di una società senza class

Nel tracciare alcune linee fondamentali di questa immagine di ―popolo‖, delineata dai deputati, è necessario riconsiderare quella concezione, che abbiamo visto emergere in varie circostanze, che fa del popolo romano in particolare una realtà compatta e non at- traversata da conflitti sociali. Abbiamo già evidenziato che i deputati romani utilizzano il termine ―popolo‖ come sinonimo di ―nazione‖, intendendo con entrambi riferirsi non ad una parte della società, ma ad una realtà comunitaria, unita da un legame sia sociale che politico, considerata nella sua interezza. In tal modo, come abbiamo visto, l‘intento dei deputati è quello di attribuire la sovranità a tutti i membri della comunità senza in- trodurre discriminazioni di classe. Al di là di questa presa di posizione ideologica, è possibile rintracciare nei discorsi dei deputati romani una visione mitizzata della società romana in particolare, che viene descritta come una realtà priva delle divisioni di classi che caratterizzano la maggior parte degli altri Stati. Il momento in cui questa visione emerge in maniera chiara è indubbiamente quello dell‘elaborazione costituzionale. Ab- biamo già esaminato le parole con cui Agostini, nel corso della sua relazione sul primo progetto, illustra la propria teoria sulla natura della società romana e sulla sua origine storica. Secondo il deputato, come si è detto, la struttura politica del principato papale, e soprattutto l‘aver precluso ai laici l‘accesso alle attività governative, hanno agito da o- stacolo all‘emerge di divisioni di classi di una certa rilevanza in seno alla società roma- na. Più avanti nel corso dello stesso intervento Agostini approfondisce questa visione, concentrandosi in particolare sull‘assenza di una classe economicamente privilegiata:

Non è fra noi aristocrazia di sangue, […] L‘aristocrazia delle ricchezze non è fra noi organizzata. Il commercio intanto e l‘industria ha formato poche grandi fortune. D‘altronde le condizioni economiche dello Stato sono eminentemente agricole; […] impossibile quindi l‘organizzazione di una classe che demoralizza e rovina i popoli concentrando in poche mani i beni materiali della vita, e condannando le masse a fre- mere, a piangere, a odiare l‘umanità. No, questo snaturamento non è pel nostro popo- lo!31

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La questione, come emerge dalle parole di questo estratto, si lega al rifiuto di vedere all‘interno della società civile l‘emergere di una classe a discapito delle altre, o più ge- nericamente l‘interesse particolare di una parte del popolo sovrastare l‘interesse genera- le dello Stato. Abbiamo già visto come nella seduta dell‘8 febbraio, durante la discus- sione sul decreto fondamentale, una preoccupazione analoga emerge per l‘utilizzo del termine ―popolo‖ nell‘articolo 4 del progetto Filopanti. L‘espressione suscita i sospetti di Audinot che non vuole dare adito a dubbi sulla natura della repubblica, e rifiuta il termine che, alla luce di uno dei sui significati, potrebbe far pensare a una forma di go- verno che tutela solo gli interessi delle classi economicamente più svantaggiate. Sia che si parli di classi ricche, sia che si parli di classi povere, la posizione dei costituenti è comunque quella di impedire che una parte della società diventi politicamente più forte rispetto alle altre. Diversamente da Audinot, in quella stessa circostanza Bonaparte ri- fiuta l‘attribuzione di un significato classista al termine ―popolo‖, e nega che lo Stato romano conosca divisioni sociali di qualsiasi tipo.

Una visione analoga emerge all‘interno del ragionamento proposto da Agostini il 17 a- prile, quando il deputato offre, appunto, un‘interpretazione della situazione sociale dello Stato romano che nega del tutto l‘esistenza di una divisione di classe e di grosse discre- panze economiche all‘interno di essa; la condizione romana viene posta quindi in oppo- sizione alla situazioni di società più industrializzate come quella inglese e in parte quel- la francese.

Proseguendo nell‘analisi delle parole di Agostini, possiamo leggere un ulteriore svilup- po della sua teoria in questa frase successiva:

È stato questo stesso fatto che ha potuto rendere possibile fra di noi la Repubblica. Tut- te le classi dei cittadini non avevano che un incubo ond‘erano oppresse, la casta cleri- cale; tolta questa le nostre classi hanno potuto fondersi insieme agevolmente, e formare il popolo. Ciò non era in Toscana; la Corte Granducale era partita, ma l‘incubo v‘era rimasto, e alla prima occasione è ripiombato sul popolo, il popolo è sparito, e sono ri- comparse le classi.32

La repubblica, forma di governo che mira al benessere della società nella sua interezza, cercando di integrare i vari interessi particolari degli individui o dei gruppi finalizzando- li alla realizzazione di un interesse collettivo superiore, si addice particolarmente alla

32 Ibidem.

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società romana, che, a causa della sua storia sotto il governo pontificio, si è sviluppata senza che si siano prodotte divisioni di classi al suo interno.

La fine del potere temporale papale, e la decadenza della casta clericale, l‘unica classe che si sia storicamente formata all‘interno dello Stato romano, hanno cancellato qualsia- si possibile elemento di differenziazione sociale all‘interno della popolazione, che torna ad essere una comunità compatta e priva di conflitti al suo interno.

In tal modo la società romana si predispone meglio di qualunque altra ad accogliere lo spirito di fratellanza che il sistema repubblicano presuppone. Alla luce di queste consi- derazione la costituzione che si va a redigere deve rispecchiare in maniera adeguata la situazione della società romana. La riflessione di Agostini, dopo essersi rivolta all‘analisi del passato, passa ora a considerare in che modo il governo repubblicano de- ve agire nel futuro per mantenere queste condizioni e ostacolare l‘eventuale insorgere di divisioni e odi di classe:

Dal fatto medesimo si è potuto dedurre che nella nostra Costituzione non si è avuto il bisogno d‘introdurre garanzie oltrepotenti contro gli eccessi delle classi e degl‘interessi aristocratici, né il bisogno di dichiarare il diritto imprescrittibile che gl‘indigenti hanno di lavorare e di vivere. Questa dolorosa necessità noi non l‘abbiamo avuta, e nella no- stra Costituzione non poteva aver luogo una dichiarazione, che, introdotta in altre Co- stituzioni di popoli assai più potenti di noi, sarà un monumento storico della imperfe- zione della loro vita sociale, di una imperfezione economica che pur troppo suppone un‘imperfezione morale, e minaccia una sciagura politica. Da noi non si doveva che raccogliere il fatto economico del nostro Stato, e aggiungere ad esso la moralità, ed av- viarlo coll‘educazione pubblica al perfezionamento. Quando il disordine economico ha potuto dividere il popolo in due parti, in una che è immersa nel godimento, in un‘altra ch‘è immersa nel pianto, le leggi economiche diventano impotenti, perocchè il disordi- ne è scaturito da una immensa immoralità, e un‘immensa immoralità non si guarisce in un punto, e per necessità deve prolungarsi. Noi, senza questo flagello, abbiamo solo il bisogno di prevenirne l‘arrivo, renderlo impossibile coll‘educare le braccia, il cuore e l‘ingegno dei cittadini; renderlo impossibile col dare a tutti la possibilità di migliorare la propria condizione.33

Il brano ci riconduce alla questione dell‘educazione che abbiamo già affrontato e che ancora una volta emerge come elemento centrale attorno a cui ruotano molte delle tema- tiche affrontate in occasione della riflessione sull‘assetto da dare al nuovo Stato repub- blicano. L‘educazione della popolazione, così come la morale, sono i due principi rego-

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latori che fanno da base allo sviluppo della società senza alterarne le condizioni. Il pro- gresso economico e le differenziazioni di classe all‘interno della società sono interpreta- te in un‘ottica morale, probabilmente influenzata anche dal pensiero cattolico, che con- duce necessariamente a condannare questi tipi di squilibri socio-economici. Uno stato autenticamente repubblicano, come abbiamo visto, deve finalizzare la propria azione all‘educazione, nel senso di mettere ogni cittadino nella condizione di migliorare la pro- pria condizione.

È poi fondamentale considerare che per Agostini le condizioni della società romana, e innanzitutto la distanza dal radicalismo dei conflitti sociali dei paesi industrializzati, rappresentino in ultima analisi una garanzia, che rende superflua l‘introduzione a livello costituzionale di misure di carattere sociale, ad esempio in tema di lavoro34.

Nella relazione di Saliceti al secondo progetto viene proposta la stessa concezione della società romana, sulla base della quale si approda però in tal caso a una diversa conclu- sione, ossia alla negazione della necessità di garanzie in ambito politico, come ad esem- pio l‘istituzione del Tribunato. Tracciando una netta distinzione tra la società dell‘antica Roma e la società contemporanea, Saliceti afferma l‘assenza all‘interno di quest‘ultima di divisioni sociali paragonabili a quella tra patrizi e plebei, da cui deduce l‘inutilità del Tribunato: «[…] Altronde se la distinzione tra plebei e patrizi e l‘ineguaglianza de‘ di- ritti fece del Tribunato una necessità, essendo a noi ignota quella distinzione, ed essendo noi tutti eguali non dovevamo accettare l‘idea d‘un Tribunato.»35. L‘assenza di conflitti sociale, e quindi della necessità di tutelare una parte della società contro gli abusi dell‘altra, è una delle argomentazioni usate anche da Lizabe-Ruffoni nel suo attacco all‘istituto tribunizio.

In entrambi i progetti risulta basilare, anche se per motivi diversi, questa particolare concezione della struttura sociale romana, come emerge non solo dalla discussione sul Tribunato ma anche da quella sul secondo articolo dei principi fondamentali e dal dibat- tito su uno degli emendamenti proposti da Filopanti.

Il secondo principio stabilito nel testo costituzionale proposto dalla seconda commissio- ne stabilisce: «Il regime democratico ha per regola l‘eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta.». Il primo a intervenire

34 Agostini, al termine della lunga riflessione sull‘assenza di conflitti di classe nella società romana, af-

ferma: «Dal fatto medesimo si è potuto dedurre che nella nostra Costituzione non si è avuto il bisogno d‘introdurre garanzie oltrepotenti contro gli eccessi delle classi e degl‘interessi aristocratici, né il bisogno di dichiarare il diritto imprescrittibile che gl‘indigenti hanno di lavorare e di vivere.». (Ibidem)

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nella discussione è Filopanti, che parlando del carattere della «rivoluzione» avvenuta a Roma, si riferisce a quest‘ultima descrivendola come «una energica aspirazione alla uni- tà nazionale, ed a quella solidarietà di tutte le classi, la quale, mediante il comune soc- corso, deve assorgere gli uomini a destini migliori. Quella fu pertanto la rivoluzione del- la fraternità»36. Propone quindi di dire ―Repubblica‖ piuttosto che ―regime democrati- co‖; tutta la discussione si concentra in effetti su questa modifica, ma ciò che risulta in- teressante per noi è l‘insistenza su questa visione, che nel caso di Filopanti non implica la negazione della presenza di classi, ma l‘interpretazione del rapporto tra di esse nei termini di una collaborazione fraterna caratterizzata da un profondo spirito di concilia- zione degli interessi di parte. Il voler associare i principi che stanno alla base di questa struttura sociale al campo semantico della ―repubblica‖ piuttosto che a quello della ―democrazia‖, ci mostra come l‘idea di repubblica abbia per i deputati romani un valore più ampio di quello strettamente politico, venendo a indicare una specifica forma di as- sociazione a livello sociale.

Anche Grillenzoni opta per la modifica proposta da Filopanti e in più sottopone all‘Assemblea l‘aggiunta di una seconda parte; il suo emendamento, elaborato in asso- ciazione con il deputato Ballanti, recita: «La Repubblica ha per principi la libertà, l‘uguaglianza, la fratellanza, ha per base la giustizia, e per iscopo il miglioramento pro- gressivo morale e materiale di tutto il popolo.»37.

Spiegando l‘aggiunta della seconda parte, Grillenzoni si esprime in termini simili a quanto fatto in precedenza da Filopanti:

Di più abbiamo stabilito che lo scopo di tutte le nostre leggi, lo scopo delle nostre isti- tuzioni, debba essere il miglioramento progressivo materiale e morale di tutto il popolo. Non abbiamo detto di tutte le classi del popolo, imperocchè noi non ammettiamo che il popolo debba dividersi in classi. Il miglioramento morale, imperocchè l‘associazione repubblicana deve riuscire eminentemente educatrice ed incivilitrice; il miglioramento materiale, perocchè, ispirandoci al sentimento della fratellanza, noi dobbiamo avere per iscopo di provvedere al benessere di tutte le condizioni.38

Oltre al riferimento ai concetti di educazione e miglioramento, il passo ripropone ancora una volta una visione che, rifiutando di ammettere l‘esistenza di classi all‘interno della società romana, enfatizza la funzione educatrice che uno Stato repubblicano deve svol-

36 Ivi, p. 913.

37 Ivi, p. 891, (corsivo mio). 38 Ivi, p. 914.

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gere nei confronti della popolazione, considerata nella sua interezza, a prescindere dalla diversità di ―condizioni‖, che è comunque possibile trovare al suo interno.

Veniamo quindi all‘emendamento di Filopanti, che oltre alle modifiche sul terzo artico- lo, che abbiamo già visto, propone un articolo aggiuntivo da inserire nella sezione dei principi fondamentali, che recita: «La Repubblica dee, secondo i limiti de‘ suoi mezzi, assicurare la sussistenza dei cittadini necessitosi, procurando il lavoro a quelli che non hanno altro modo di procacciarsene, e fornendo sussidi a coloro che non ne possono a- vere dalla loro famiglia, e che sono impotenti al lavoro.»39. L‘articolo viene accolto ma- le all‘interno dell‘Assemblea, che tendenzialmente vede espresso in esso uno spirito comunista, che i deputati non vogliono per nessun motivo innestare sulla forma repub- blicana. La discussione su questa proposta di Filopanti, che si svolge in contemporanea a quella sul terzo articolo, fa riemergere ancora una volta l‘idea di Agostini. Se guar- diamo ad esempio le parole di Livio Mariani a tal proposito, possiamo constatare che il deputato attacca la proposta rifacendosi a quelle stesse argomentazioni proposte da A- gostini contro l‘introduzione nel testo costituzionale di riferimenti al diritto al lavoro; Mariani afferma, infatti, riferendosi all‘emendamento:

[…] è un argomento a posteriori, è uno stabilire indirettamente un socialismo. Voglia- mo noi il socialismo o il comunismo? Io credo che no. Noi non abbiamo questa piaga e dobbiamo guardarci dal procurarla: quando questa piaga, per disgrazia, si mostrasse nel nostro paese, allora noi, o i nostri successori, procureranno di rimediarvi. Ma per ora noi non siamo né a Birmingham, né a Manchester. Indirettamente con questo articolo si formerebbe l‘inerzia e l‘immoralità, se all‘uomo non amante della fatica, o di cuore de- pravato si stabilisse la certezza di essere mantenuto a spese dello Stato.40

Il rifiuto del socialismo/comunismo viene sostenuto anche alla luce di questa teoria che vede nella società romana una realtà idilliaca e incorrotta, che grazie alla sua purezza riesce a mantenere un‘assoluta pace sociale. Il socialismo si configura quindi come una piaga, in quanto implica la vittoria di una parte della società sulle altre, che deriva a sua volta da un‘altra piaga, che è quella delle fratricide divisioni di classe. Il mito del lega- me fraterno è un altro elemento centrale nella retorica dei costituenti e, come abbiamo visto dai vari estratti citati, fa da base all‘idea di una società che non conosce conflitti al suo interno.

39 Ivi, pp. 894-895.

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A ben guardare la teoria dei deputati romani, più che una società priva di divisioni di classi, quella pensata e auspicata dai costituenti risulta più simile a una società interclas- sista, dove le differenze economiche tra i cittadini non sono così marcate da creare rigi- de separazioni tra gruppi sociali diversi, e ciò in virtù del fatto che tali differenze si e- sprimono principalmente a livello individuale e coinvolgono la libera iniziativa di cia- scuno, sempre tenendo conto dello sforzo che lo Stato repubblicano deve compiere per porre tutti nelle stesse condizioni di partenza. Accanto a questa visione, che quindi e- sclude qualsiasi soluzione di sapore comunista o socialista, come i deputati romani sot- tolineano di continuo, si afferma anche l‘idea, derivata dal repubblicanesimo tre - quat- trocentesco, che le diverse parti della società debbano collaborare per realizzare il bene superiore dell‘intera comunità, ognuno partecipando, anche a livello politico, nel modo che meglio gli si addice, in un generale clima di conciliazione e amore fraterno.

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Conclusioni

Attraverso questo nostro percorso si è tentato di delineare quale concetto di sovranità emerge dai discorsi dei deputati romani all‘Assemblea costituente del 1849. Si è finito quindi inevitabilmente per affrontare anche altre tematiche, in primis quella della rap- presentanza, che vanno a incidere direttamente sull‘idea di sovranità e in generale ci permettono di tracciare un‘immagine più o meno definita del pensiero politico dei costi- tuenti romani. Si sono quindi presi in considerazione i dibattiti svoltisi in seno alla Co- stituente, tra i quali si è dato preferenza a quelli in cui più o meno direttamente emergo- no spunti di riflessione su questi argomenti. Una parte consistenze degli interventi con- siderati rientra nella fase di discussione sul testo costituzionale, che ovviamente si pre- senta come il momento in cui i deputati romani hanno la possibilità di esprimersi meglio su questi problemi di ordine teorico.

È emerso, come si è tentato di sottolineare in varie parti di questa analisi, come la so- vranità venga ricollegata a tre elementi: al popolo, all‘assemblea dei rappresentanti e all‘atto elettorale.

Popolo e assemblea sono entrambi designati come i detentori della sovranità in un si- stema democratico - repubblicano, mentre il voto (a suffragio universale) si configura come l‘atto sovrano (ossia l‘atto con cui il popolo esercita la sua sovranità) attraverso cui avviene questo passaggio di potere dal primo al secondo soggetto. Questa dinamica non viene mai elaborata in maniera esplicita dai deputati, ma emerge dai loro discorsi e dalle riflessioni con cui affrontano la discussione sul testo costituzionale da adottare. È certamente difficile astrarre una teoria generale da un tipo di discorso, come sono i di- battiti in aula, in cui le enfatizzazioni retoriche, le situazioni contingenti e i conflitti tra personalità diverse impediscono la costruzione di un pensiero organico e lineare. Molte delle tematiche che abbiamo affrontato non trovano neanche uno spazio autonomo all‘interno delle riflessioni dei costituenti, e in molti casi risentono della discontinuità di questo tipo di esposizione finendo per rimanere ambigui. Non di rado i deputati sem- brano entrare in contraddizione con quanto sostenuto in precedenza. Tuttavia, nella va- sta e frammentaria elaborazione proposta dai deputati, è comunque possibile dedurre al- cune linee concettuali essenziali, che si dipanano in senso trasversale alle differenti ap- partenenze ideologiche. In tal modo è quindi possibile rintracciare le caratteristiche fon- damentali di quell‘idea di sovranità popolare che, come si è appena detto, prevede un forma di transito dell‘attributo sovrano, dal popolo all‘assemblea, per mezzo dell‘atto elettorale. Questa concezione permette in una certa misura di spiegare la pacifica accet-

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tazione del sistema rappresentativo come unica possibile modalità di attuazione del principio della sovranità popolare, finendo quindi per identificare il generico concetto di democrazia con lo specifico modello della democrazia rappresentativa. Se infatti l‘unico modo in cui la sovranità popolare può concretizzarsi è attraverso l‘elezione a suffragio universale dei rappresentanti, in ottemperanza al mito del popolo elettore, l‘assunzione di sovranità da parte dell‘assemblea e il modello rappresentativo diventano elementi co- stituzionali di un sistema che riconosce comunque la centralità politica del popolo. I de- putati romani infatti non rinunciano mai a fare del popolo il punto di riferimento attorno a cui ruota tutta la loro elaborazione politica, nonché la costruzione istituzionale del nuovo Stato repubblicano. Nella sua funzione di detentore del potere, il popolo non si configura unicamente come agente legittimante dell‘autorità assembleare, ma, instau- rando un legame quasi mimetico con i rappresentanti da esso eletti, partecipa indiretta- mente all‘esercizio del potere. L‘assemblea dei rappresentanti diventa allora, in virtù del rapporto che la lega al popolo, l‘elemento centrale dell‘assetto istituzionale repubblica- no, da cui tutti gli altri organi di potere derivano la propria autorità. In tal modo se an-