• Non ci sono risultati.

Modello lealistico-fiduciario

La seconda opzione di tutela, anch‟essa afferente ad un paradigma privatistico, è quella basata sui “doveri di lealtà” che l‟agente deve al principale. Il disvalore che il reato tenderebbe a reprimere sarebbe, dunque, quello legato ad un insostenibile “tradimento di fiducia” del sottoposto. Peraltro, conviene chiarirlo subito, tale matrice di tutela reca con sé l‟inconfondibile “rumore di fondo” della delega di funzioni63: nell‟economia complessa e globalizzata dei nostri giorni, la gestione di un‟attività imprenditoriale può concepirsi solo ed esclusivamente delegando funzioni e comparti a soggetti sottoposti 64(ma autonomi nelle scelte), legati al delegante proprio da un vincolo di lealtà; tale istituto, che dispiega la propria efficacia nelle singole unità produttive, è sorto per

60

Si tratterà, semmai, di prevedere trattamenti sanzionatori diversi.

61

V. Militello, Corruzione tra privati e scelte di incriminazione: le incertezze del nuovo

reato societario, in Acquaroli (cur.), La Corruzione, op. cit. , 355 e ss. 62

E non è un caso che la dottrina saldamente legata al principio patrimonialistico, si “accontenti” del pericolo concreto di danno, mai richiedendone la effettiva causazione, cfr. C. B. Bardon, “El Delito di corrupcion privada”, Barcelona, Marzo 2013, in InDret (www.indret.com), 15 e ss.

63

J. L. De la Cuesta, I Blanco Cordero, La criminalizzazione della corruzione nel settore

privato: aspetti sovranazionali e di diritto comparato, in L. Foffani (cur.), La corruzione tra privati. Esperienze comparatistiche e prospettive di riforma, Milano, 2003, 43 e ss.

- 27 -

garantire il complessivo funzionamento del sistema economico, interesse di certa matrice pubblicistica. Attentare a questo fondamentale dovere di lealtà significa pregiudicare la complessiva e sintetica possibilità di funzionamento del mercato, cagionandone in nuce il collasso.

Il presidio di questi rapporti principale-agente (al netto delle perplessità che saranno sollevate infra) fornisce, non solo tutela alla singola realtà produttiva, ma anche un solido baluardo al fluido e leale funzionamento del mercato complessivo, inteso come vero e proprio bene pubblico. Focalizzando l‟attenzione sul modello normativo, non si può fare a meno di notare come esso sia organizzato sullo schema del pericolo presunto65. I doveri di lealtà, infatti, non sono suscettibili di protezione penale: lo diventano nella misura in cui ad essi sia correlabile un‟ apprezzabile probabilità di sfociare nel pregiudizio degli interessi del principale. E sicuramente, retribuire per il compimento di atto difforme ai doveri di ruolo reca con sé questo rischio di contrarietà, che legittima, secondo la categoria del pericolo presunto, l‟incriminazione. E‟ bene notare come tale compravendita possa anche non risolversi in una lesione del principale: l‟intraneo potrebbe, infatti, accordarsi “con riserva mentale” di non compiere l‟atto, o potrebbe compiere un atto non contrario all‟interesse del datore, il che dà subito slancio per la distinzione che subito sotto sarà fatta66.

Per dovere di completezza, dobbiamo, infatti, precisare che esistono due modi di intendere il presente modello: quello soggettivo guarda all‟onere di fedeltà come al necessario movente di ogni azione del sottoposto, ritendendo difforme la condotta se mossa da altri intenti; quello oggettivo guarda, invece, al risultato delle azioni: se esso si sarà dimostrato consentaneo agli interessi del superiore, il contegno adottato dal sottoposto potrà a buon titolo considerarsi fedele.

Ora, legare il disvalore di un illecito a meri profili soggettivi risulta certamente in contrasto con il principio di materialità: è vero che la 64

Cfr. amplius A. Alessandri, Diritto penale, op. cit. , 173 e ss. , che affronta il problema partendo dall’interessante prospettiva della smithiana “divisione del lavoro”

65

Cfr. la relazione a cura di S. Seminara in L. Foffani (cur.), La corruzione tra privati. op.

- 28 -

lesione apportata dalla corruzione risiede semplicemente nel patto corruttivo, ma retrocedere la tutela addirittura alla sfera interna e psicologica, che ha mosso il soggetto nello “scendere a patti” col corruttore, risulta davvero eccessivo, oltre che scorretto da un punto di vista costituzionale: non è possibile processare un soggetto per le sue intenzioni. D‟altronde, non risulta esente da critiche la concezione oggettiva, che posticipa eccessivamente la tutela al compimento dell‟atto, con ciò attirando quelle inevitabili critiche che già erano proprie del modello patrimonialistico (di cui questa versione sarebbe una variante surrettizia) e che attenevano alla indebita commistione tra “consumazione” ed “esecuzione.”

Volendo, ad ogni modo, seguire la traccia fornita dalla presente proposta, si presenterebbero alcune ineliminabili conseguenze di disciplina: anzitutto, la rilevanza accordata al “consenso” del principale (non incluso nel novero dei soggetti attivi). Se il principale “sapeva” risulta inutile punire, in quanto il suo consenso (anche successivo) vale come vera e propria “scriminante” all‟infedeltà del sottoposto; da questo punto di vista, il modello ben si attaglierebbe a quelle ipotesi di “corruzione del fornitore” dove non è raro che i datori conoscano e tollerino le “mazzette” rilasciate ai sottoposti responsabili del settore acquisti67

, considerandole come una sorta di integrazione del salario, e ben potendo recuperare il costo della corruttela dall‟utente finale. Meno convincente risulta, invece, la punibilità del corruttore: in quanto extraneus all‟organigramma aziendale dell‟ente corrotto, non si capisce quale supposto dovere di fedeltà lo legasse al principale, tale da giustificare la comminatoria di una pena nei suoi confronti. Di fronte a questo schiacciante interrogativo, la dottrina risponde ricorrendo alla categoria dello “stimolo”: mediante la occulta presa di contatto con l‟intraneo, il corruttore - estraneo avrebbe stimolato, attivato quel processo di mercimonio, che ha portato il sottoposto a tradire la fiducia del proprio principale; ecco, dunque, giustificata la pena. Seguendo questo filo logico, però, viene da chiedersi se sia parimenti fondato un analogo 66

- 29 -

livello sanzionatorio tra i due: è vero che l‟estraneo ha innescato il processo, ma a contravvenire al dovere di lealtà, nucleo centrale nello stigma della norma, è stato solo l‟intraneo; risulta, dunque, poco coerente prevedere la stessa pena. Infine, la procedibilità: a querela: essa sicuramente ben si confà a questo tipo di incriminazione, rimettendone il potere nelle mani della reale persona offesa: il principale.

Per concludere, le maggiori perplessità legate a questa opzione, oltre a quelle sinteticamente evidenziate nella precedente trattazione, sono sicuramente da addebitarsi alla categoria del pericolo presunto: una tale anticipazione di tutela risulta legittima alla luce dei principi di materialità ed offensività? Il rischio è quello di: da una parte configurare una fattispecie incriminatrice da “diritto penale d‟autore”, ritagliando il disvalore sullo stigmatizzabile calco del “funzionario fedifrago”, anziché sul fatto corruttivo, e riecheggiando da non troppo lontano i reati di mero scopo; dall‟altra, impiantare il tassello penale su un terreno privo di stabilità politico-criminale, per non essere state parimenti presidiate le condotte del medesimo iter criminoso, più vicine al nucleo dell‟offesa. Ci si chiede allora, e nel prosieguo della trattazione vi sarà tentativo di dar risposta, se il diritto criminale costituisca, in materia, un valido intervento, o non si presentino più consentanee alla “materia del contendere” altre soluzioni di matrice civilistica.