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o promessa di utilità”

III) I soggetti att

L‟impostazione prescelta dal legislatore italiano è quella di una

struttura a “concorso necessario”: si prevede un unico titolo di reato, incriminando il fatto corruttivo dal versante passivo, per poi estendere la

202

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pena a chi dia o prometta utilità. In ogni caso, ai fini della “corruzione”, il perfezionarsi dell‟accordo tra estraneo ed intraneo sarà sempre necessario (tralasciando la necessità di altri requisiti – quali atto e nocumento-, proprium esclusivo del dato normativo nostrano). Si è visto come, gli strumenti sovranazionali, optino per una suddivisione in due titoli autonomi di reato: “corruzione passiva” e “corruzione attiva”. Su tale suddivisione, tuttavia, si possono erigere interpretazioni opposte: l‟una (adeguatrice al modello italiano), volta a richiedere il perfezionamento dell‟accordo tra le parti (se è vero che la “corruzione” è un “pactum”), l‟altra, volta ad estendere l‟area del penalmente rilevante anche ad ipotesi di “tentativo unilaterale”(“proposta” o “richiesta”), ancora non giunto alla conclusione di un sinallagma.

Ad ogni buon conto, i soggetti attivi (ma dal versante passivo) sono i seguenti: amministratori, direttori generali, liquidatori (titolari di poteri gestori203), sindaci e responsabili della revisione (titolari di poteri di controllo204). La mancata limitazione ai soli titolari di poteri gestori deve salutarsi con favore, visto che la norma non risulta ancorata ai soli atti dispositivi (come accade per l‟art. 2634CC)

,

ma, in generale, alla violazione di un dovere di posizione.

Semmai, si può discutere della inclusione di due tipologie di soggetti (sindaci e revisori) da un altro versante: quello del disvalore. Posta la esclusiva marcatura patrimonialistica della fattispecie, l‟incriminazione di soggetti estranei alla compagine sociale (quali sono i revisori, e possono essere i sindaci) desta qualche perplessità205: il quantum di fedeltà da essi pretendibile subisce un brusco affievolimento, per lasciare spazio ed interessi di estrazione pubblicistica, quali la correttezza e la oggettività dei controlli. La previsione della querela aggrava ulteriormente questa perplessità (quale legittimo controvalore tende a tutelare?).

per tutti S. Seminara, Gli interessi, op. cit. , 990 e ss.

203 A. Martini, art. 2635 – infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità, in LP

2003, 519 e ss.

204

Ibidem, 521

205 Cfr., E. Musco, La tutela penale del patrimonio sociale, in I nuovi reati societari, Giuffrè, Milano, 2004, 227 e ss.

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Per quanto riguarda, poi, la specifica ipotesi dei revisori, si è già sottolineato (cfr. Cap. 3, sub 2.III) la vicenda storico-legislativa che ha finalmente portato nel 2010 al varo di un reato di “corruzione dei revisori”, ed alla conseguente soppressione del loro riferimento nell‟articolo in commento. Nel lasso temporale che va dal 2002 al 2010, tuttavia, l‟ordinamento ha assistito alla coeva vigenza di due norme (art. 2635 CC e art. 178 tuf) che,– sia pure con schemi differenti (la seconda ipotesi, che richiedeva la provenienza qualificata del “compenso”, ne riteneva anche sufficiente la “percezione”) – contemplavano i revisori quali soggetti attivi. Tale situazione era, peraltro, aggravata da una intollerabile distonia sanzionatoria che conduceva a punire più flebilmente (e con procedibilità a querela)l‟ipotesi più grave, e più afflittivamente (e con procedibilità d‟ufficio) quella meno grave(cfr. sub Cap. 3, 2.III). Orbene, in questo ginepraio normativo (che vedeva la dottrina ad auspicare un intervento di settore sul “diritto penale delle società di revisione”), si riteneva applicabile l‟art. 2635 CC laddove la promessa o dazione fossero pervenute da terzi-estranei alla società oggetto di revisione, e l‟art. 178 tuf nel caso in cui detto compenso provenisse proprio dall‟ente sottoposto a revisione. Da ritenersi positivo l‟intervento riformatore del 2010, che ha, quanto meno, risolto la inutile duplicazione normativa, e ricondotto gli illeciti dei revisori entro un unico corpo legislativo.

Uno dei maggiori problemi interpretativi che si pone in relazione ai soggetti attivi è quello del coordinamento con i sopravvenuti (con d.lgs. 6/2003) sistemi dualistico e monistico di governance societaria. Il legislatore di riforma del 2002 operava all‟oscuro di questa (per vero imminente) modifica normativa, ed ha, dunque, omesso ogni riferimento a “componenti del consiglio di gestione” e del “consiglio di sorveglianza” ( per il sistema dualistico) e componenti del “comitato di controllo” (per il sistema monistico).

Dinanzi a ciò, la tentazione immediata è quella di ricorrere all‟art. 2639 CC, recante estensione delle qualifiche soggettive per ipotesi di autoria di fatto. Orbene, dobbiamo rilevare come, il comparto di poteri in capo ai componenti del tradizionale sistema “latino” non sia esattamente

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corrispondente a quello di cui agli alternativi modelli di governance; di qui, il rischio di interpretazioni analogiche206 (in malam partem), vietate nel diritto penale.

Soccorre, allora, l‟art. 223 septies disp. Att. CC (introdotto, non a caso, con il medesimo d.lgs. 6/2003), il quale stabilisce che le norme del codice civile (dunque anche l‟art. 2635,) dettate per amministratori e sindaci, trovino applicazione anche in relazione a componenti dei nuovi organi. Per la via del precetto civilistico, dunque, assistiamo alla legittima estensione della norma penalistica: sarebbe d‟altronde intollerabile l‟esito opposto, il non estendere la normativa penalistica sol grazie ad un mutato assetto di “reggenza” societaria.

Sul versante attivo, la norma si limita a stabilire che “si applica la

stessa pena a chi dà o promette utilità”. Come segnalato, l‟illecito in

parola assume le vesti di un reato a concorso necessario207. Dinanzi alla patrimonializzazione della tutela però, ci si chiede che tipo di disvalore integri l‟extraneus alla compagine sociale. Non potendo pretendersi obblighi di fedeltà al principale (al quale non è legato da nessuna relazione di agenzia), né alcun obbligo di “salvaguardia” degli assetti patrimoniali dell‟ente, non si capisce quale rimprovero la norma intenda muovergli (soprattutto, accomunandolo al medesimo trattamento sanzionatorio dei soggetti di cui al primo comma). L‟unico modello che avrebbe permesso una tale comunanza di disvalore sarebbe stato quello della concorrenza208: in questo caso, i soggetti qui contemplati sarebbero stati parimenti rimproverabili rispetto ad un attentato all‟imparzialità, e ad un rischio-ripetizione, che entrambi avrebbero contribuito ad imbastire in modo equipollente. Ma dinanzi al modello patrimoniale la sanzione all‟estraneo risulta meno giustificabile. L‟unico tentativo potrebbe essere quello di ricorrere alla categoria dello “stimolo”: la rimproverabilità si radicherebbe nell‟aver innescato quel meccanismo di infedeltà, che ha portato al nocumento patrimoniale. Tale spiegazione, però, non regge se

206

A. Zambusi, Infedeltà, op. cit. 1049 e ss.

207 Anche se non esclusivo, ben potendo uno dei soggetti elencati dal primo comma

commettere l’illecito per mezzo di terzi non formalmente titolari della qualifica, cfr. A. Martini, art. 2635 op. cit. , 521 e ss.

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il trattamento sanzionatorio è il medesimo: lo “stimolare” ed il “compiere” non possono integrare il medesimo disvalore, manifestando un diverso grado di aderenza proprio a quei “doveri di ufficio”, che sembrano essere il perno rotante della norma.

Alla luce di ciò, non possiamo che rilevare un‟incrinatura nel modello di tutela “schiettamente” privatistico che il legislatore sembra aver così virulentemente prescelto: per il tramite di quei concorrenti esterni, si snoda la tutela di interessi pubblicistici, quali il pericolo per la concorrenzialità del sistema. Ulteriormente criticabile, dunque, l‟elemento della querela.

Due sono le lacune nell‟economia funzionale della norma. Anzitutto, una indebita limitazione ai soggetti apicali dell‟ente societario: gli analizzati strumenti internazionali imponevano la previsione, tra i possibili soggetti attivi del reato, di qualsiasi “lavoratore” o “dipendente” dell‟entità privata209. Alla limitazione verticale, derivante dalla esclusiva incriminazione della società commerciali, si aggiunge, dunque, quella orizzontale dei soggetti attivi ivi contemplati. Da un punto di vista prettamente criminologico, tale esclusione non è di poco conto: le più insidiose ipotesi di corruzione “del fornitore” si attestano ad un livello- base dell‟organigramma aziendale. Chi si occupa del settore-acquisti (certamente non titolare delle qualifiche contemplate dalla norma) è facilmente soggetto a tali prassi corruttive. La prospettiva dell‟impunità finisce, dunque, per allargare quel preoccupante iato tra prassi corruttiva e sua effettiva emersione, ciò che è causa di una ulteriore sottovalutazione del fenomeno in oggetto.

La seconda lacuna è, poi, data dalla mancata previsione degli “intermediari”. E‟ ben possibile che il soggetto attivo non percepisca direttamente la promessa o dazione di utilità, ma lo faccia attraverso “terze entità” (come ad esempio “società di comodo”) a lui indirettamente riconducibili. Ebbene, questa evenienza, così frequente 208

A. Zambusi, Infedeltà, op. cit. 1049 e ss.

209 Eloquentemente esaustiva la definizione di “persona” data dall’Azione comune:

“qualsiasi dipendente o altra persona nel momento in cui svolga funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo” per un’entità del settore privato.

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nella prassi e non a caso menzionata negli strumenti internazionali, è totalmente ignorata dal legislatore italiano, che ancora una volta si mostra scostante rispetto al dato criminologico.

Segnaliamo, infine, il venir meno di una incoerenza di fondo che, prima del 2003, affliggeva i rapporti tra “diritto penale societario” e “diritto penale bancario”. Prima del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, che ha modificato l‟art. 135 t.u.banc., le disposizioni contenute nei (soli) Capi I, II e V, Titolo XI, Libro V codice civile si applicavano anche a chi svolgesse funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso banche, anche se non costituite in forma societaria210. Tale norma di raccordo era stata totalmente ignorata dal legislatore di riforma del diritto penale societario, con la conseguenza che, la maggior parte dei nuovi reati (contenuti in capi non menzionati dalla citata norma) non sarebbero stati applicabili agli istituti bancari non costituiti in forma societaria, se non si fosse proposta un‟interpretazione sostanzialmente correttiva, peregrina dallo stretto dato letterale211. Si andava, così, affermando che tale richiamo dovesse riferirsi a tutte quelle disposizioni che, ancorchè non contenute nei Capi richiamati, vantassero un referente diretto ed inequivoco nella disciplina previgente.

Nel raccordo ermeneutico così costruito, tuttavia, non rientravano proprio le due disposizioni di cui agli artt. 2634 e 2635 CC che, per essere delle assolute novità sul piano ordinamentale, non potevano palesare quella diretta ed inequivoca discendenza. Esse rimanevano, così, escluse dell‟applicabilità ad istituti bancari-non società commerciali.

Alla luce di ciò, si deve salutare con favore la nuova formulazione dell‟art. 135 t.u.banc. , che, senza lasciar spazio a dubbi, recita limpidamente: “ le disposizioni contenute nel titolo XI del libro V del

codice civile si applicano a chi svolge funzioni di amministrazione,

210

Cfr. art. 135 d.lgs. 385/1993 (vecchia formulazione)

211 Cfr. Foffani, Commento all’art. 2634 c.c., in Commentario breve alle Leggi penali

complementari a cura di Paliero-Palazzo, 2a ed., Padova, 2007, 2635, 1886 , ove si ricostruisce la presente opzione ermeneutica mediante un fertile raffronto con la medesima vicenda alla luce del necessario coordinamento tra codice civile del 1942 e l’art. 92 l. banc. 1936, che ancora faceva riferimento alle disposizioni penali della l. 660/1931, antecedente storico della disciplina codicistica.

- 120 - direzione e controllo presso banche, anche se non costituite in forma

societaria”.