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I reati di infedeltà patrimoniale

AGLI ALBORI DELLA PREVENZIONE DELLA CORRUZIONE PRIVATA IN ITALIA

IV) I reati di infedeltà patrimoniale

Questa rapida rassegna ha permesso di apprezzare quanto l‟ordinamento penale italiano fosse impreparato ad affrontare fenomeni di mala gestio, che si risolvessero o meno in un vantaggio economico per l‟amministratore. Non che nella prima ipotesi la normativa fosse del tutto deficitaria: si è già segnalato come nessun ostacolo si frapponesse all‟applicazione dell‟art. 646 CP. Ma si avvertiva la necessità di nuove, moderne incriminazioni, le quali colpissero più da vicino il fenomeno dell‟abuso patrimoniale. Ne è seguito l‟intervento riformatore ex d.lgs. 61/2002: da quel momento, due nuovi reati hanno interessato il settore penal-societario italiano. Da una parte, la fattispecie di “infedeltà

patrimoniale”, dall‟altra quella di “infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”. Entrambe le norme contemplano, è bene precisarlo

fin da subito, situazioni in cui il soggetto-agente (strettamente relegato nel contesto societario) manifesti un conflitto di interessi con l‟ente di appartenenza, con conseguente causazione di un pregiudizio patrimoniale. L‟intraneo societario (assumendo, nell‟art.2635 CC, le vesti del “corrotto”) dovrà, in ogni caso, compiere un atto contrario ai doveri di ruolo, in antagonismo con l‟interesse sociale, perseguendo esclusive finalità di “economia privata” (accedere all‟”utilità” prospettata). La parabola entro cui, latu sensu, inscrivere tale dinamica sarà dunque quella degli “abusi” per esclusive finalità egoistiche. Semmai, e specificamente per il reato di cui all‟art. 2635 CC, sarà dal lato del “corruttore” che potremo riconoscere il perseguimento di una finalità d‟impresa: l‟emolumento corruttivo viene offerto per consentire all‟ente di appartenenza la fruizione di profittevoli chance commerciali. L‟ottica criminologica da assumere è, dunque, quella più problematica: abusi gestori per finalità sociali. Non è, del resto, un caso che l‟introduzione di questi reati sia maturata nel più ampio quadro degli abusi gestori.

L‟art. 2634 CC punisce “gli amministratori, i direttori generali e i

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compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale”. Si

prevede, poi, la punibilità anche se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati per conto terzi, oltre che una speciale ipotesi di non punibilità nei rapporti infra-gruppo, applicativa della teoria economica dei “vantaggi compensativi” (“in ogni caso non è ingiusto il

profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo”).

Vero e proprio nucleo genetico dell‟illecito, il conflitto d‟interessi costituisce di certo l‟elemento tipico di maggior difficoltà interpretativa. Non è questa la sede per scandagliare tutte le possibili opzioni ermeneutiche162, ma converrà precisare come esso debba caratterizzarsi per un apprezzamento “sostanzialistico” cangiante nel caso concreto, rifuggendo ogni interpretazione “soggettivistica” o “posizionale” (come sviluppatesi sotto la vigenza del passato art. 2631 CC). Da questa iniziale situazione, il soggetto agente dovrà compiere un atto dispositivo (eziologicamente correlato al primo elemento) e cagionare intenzionalmente (escluso il dolo eventuale) un danno alla società, il tutto con un ulteriore stringente requisito di fattispecie: il dolo specifico dell‟ “ingiusto profitto o altro vantaggio”.

Alla luce di questi elementi, si comprende come la fattispecie mal si attagli alla repressione dei più frequenti abusi d‟impresa: non solo per l‟esclusione dal suo tracciato delle ipotesi più problematiche (perseguimento di un fine latu sensu sociale), ma per la stringente selettività del tipo legale (arricchita addirittura con dolo intenzionale, nonché zavorrata con dolo specifico), alla quale si deve aggiungere la perseguibilità a querela (cfr. Co 4). Rare saranno, dunque, le ipotesi in

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Così, in modo particolarmente approfondito, P. Chiaraviglio Infedeltà patrimoniale,

In Diritto penale delle società / [a cura di] G. Canzio, L.D. Cerqua, L. Luparia, Cedam,

2014, pp. 431-505, che accoglie la nozione cd. “contrattualistica” di interesse sociale, per poi imbastire una interessante discettazione intorno alle teorie formalistica e sostanzialistica di “conflitto”, alla luce dei requisiti di effettività, oggettività ed

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cui un singolo abuso manifesti tutti questi requisiti. Molto improbabile, inoltre, che l‟ente (unica persona offesa dal reato) decida di querelare: le indagini della magistratura (e l‟interessamento della stampa) condurranno ad una generalizzata discovery delle politiche d‟impresa, potenzialmente più dannosa dell‟illecito stesso. Si pensi al caso in cui la condotta “infedele” abbia riguardato la rivelazione di segreti industriali: il danno così prodotto, non troverà forse un intollerabile collettore espansivo nelle indagini degli inquirenti e nella inevitabile mediatizzazione del caso? Alla luce di ciò, l‟ente preferirà accedere ad altre soluzioni (giuslaboristiche, civilistiche, transattive), certo “più rispettose” della riservatezza sociale.

In un rapporto di specialità (cfr. infra) con l‟art. 2634 CC, troviamo l‟illecito di nostro interesse: l‟art. 2635 CC, che incrimina, nel suo nucleo centrale, “gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla

redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, a seguito della dazione o della promessa di utilità compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, cagionando nocumento alla società”. Questa, dunque, la struttura causale

della fattispecie: una speciale ipotesi di conflitto di interessi (dovuta a “promessa o dazione di denaro o altra utilità”), la quale determini l‟intraneo a compiere od omettere un atto, violando un dovere posizionale, dal quale a sua volta derivi un nocumento per la società. Una duplice causalità, dunque, che dall‟esterno accordo illecito arrivi a “ferire” l‟ente nel suo più intimo interno “patrimoniale”. In tale decorso eziologico, riconosciamo i tratti tipici dell‟ “infedeltà” (chiara la tutela patrimonialistica approntata), oltre che quelli della corruzione propria antecedente (si richiede la violazione di un dovere, nonché la “precedenza” dell‟accordo corruttivo).

Su questo versante, il richiesto compimento dell‟atto (oltre che il successivo avanzamento al nocumento) determina un vero e proprio svilimento del pactum sceleris, determinando un drastico avvitamento della fattispecie sui soli interessi privatistici. In altre parole, la norma

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abdica alla tutela di beni pubblicistici, rappresentando la corruzione solo il primum movens di una “banale” vicenda di infedeltà. Essa si presenta come un semplice “agente inquinante”, in grado di asservire la volontà parziale (id est, convergente con l‟interesse del superiore) dell‟intraneo ad esclusivi interessi esterni (il connotato di “parzialità” si dirige dunque ad altro referente: il corruttore).

Dinanzi a ciò, viene da chiedersi che tipo di disvalore aggiunga la prevista incriminazione del mercimonio privato: se la direzione di tutela è sempre e solo quella del “patrimonio” dell‟ente, il rischio è che esso abbia una coloritura esclusivamente eticizzante, sganciandosi da qualunque referente di offensività. Più che una sanzione della corruzione, si assiste, dunque, ad un rimprovero “morale” del corrotto, secondo un deprecabile schema da “diritto penale del tipo d‟autore”. Questa, dunque, la limitatezza dell‟incriminazione italiana: l‟eccessivo ancoramento allo schema delle infedeltà patrimoniali porta ad escludere la protezione del bene-concorrenza (di estrazione super-individuale), per riconoscere tutela al solo patrimonio del principale. Né si pensi che la riforma del 2012 abbia migliorato la situazione: la struttura incriminatrice resta invariata, sia pure con alcuni pregevoli “passi in avanti”, ma mai rinunziando allo schema patrimonialistico da infedeltà.

Alla luce di questa continua tendenza, viene da chiedersi se non sussistano possibili “cause nobili” a tale modello d‟incriminazione. In effetti, la meticolosa implementazione del fatto tipico con molteplici requisiti conduce all‟apprezzabile effetto di un sicuro ancoraggio alla tutela del bene giuridico prescelto. Risulta, dunque, scongiurato il rischio di un‟applicazione formalistica della fattispecie, evitando rischi da pan- penalismo. Si pensi, ex adverso, alla interpretazione che si era affermata sotto il malfermo art. 2631 CC, per apprezzare invece la nitida determinatezza delle presenti fattispecie.

Tuttavia, se questo è davvero l‟intento, risulta ultroneo il riferimento alla corruzione privata. Delle due l‟una: o il legislatore ha voluto sanzionare le infedeltà, con positivi esiti di determinatezza (e allora il riferimento Leggi penali complementari a cura di Paliero-Palazzo, 2a ed., Padova, 2007

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alla corruzione privata reca con sé un indebito afflato eticizzante), o ha voluto sanzionare la corruzione privata (e allora il dirottamento ad interessi privatistici reca un travisamento del bene giuridico protetto). In entrambi i casi, si imporrebbe una modifica della fattispecie: nel primo, rimuovendo la “dazione o promessa di utilità” (ciò che si potrebbe ammettere sul versante politico-criminale, ma non su quello di conformità all‟ordinamento sovranazionale), nel secondo, espellendo il danno patrimoniale (compimento dell‟atto e nocumento) dall‟alveo della tipicità.

2. I settoriali antecedenti della corruzione privata nella

legislazione italiana

Nonostante l‟arretratezza dell‟ordinamento italiano in materia, si possono individuare, fin dagli anni ‟30 del secolo scorso, alcune particolari incriminazioni che, per struttura o per humus criminologico, ricordano non troppo da lontano un reato di corruzione privata. Lungi dall‟approntare una normativa unitaria e generale, tali fattispecie riguardavano particolari settori (sanitario, sportivo-patrimoniale, fallimentare etc. , vd. infra), in cui eventuali forme illecite di accordi tra privati avrebbero attentato a fondamentali beni giuridici, che l‟ordinamento voleva tutelare. Singolare notare come, per molti di questi reati, la tecnica incriminatrice prescelta sia ben più felice di quella contemporanea: quell‟arretramento di tutela necessario alla incriminazione del puro pactum sceleris, che non troviamo oggi, è dato rinvenirsi in queste fattispecie-avamposto, le quali, dunque, intendono predisporre una tutela molto più effettiva di quella vigente.

Prima di passare all‟analisi di queste norme, è opportuno dar conto anche di un‟altra tendenza generale: il nostro legislatore si è, infatti, interessato di corruzione privata almeno sotto un altro aspetto: quello della “merce di scambio” offerta (quale controprestazione) dal corrotto al corruttore. E‟ infatti possibile che, nel violare il dovere di fedeltà, l‟intraneo commetta un ulteriore ed autonomamente rilevante reato: è questo il caso di cui agli artt. 622 e 623 CP, recanti, rispettivamente la “rivelazione di segreto

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Tali incriminazioni, come ben si comprende, possono costituire quella violazione di doveri posizionali assolutamente centrale in un fatto di corruttela: non si tratta, dunque, di una repressione ante litteram di corruzione privata, ma, semplicemente, della “copertura” penalistica di un aspetto della stessa, atta a spiegare efficacia general-preventiva rispetto a condotte che si collocano “a valle” dell‟accordo illecito. Tali reati sono costruiti secondo la tecnica del “pericolo”, secondo una apprezzabile prospettiva di anticipazione di tutela; la prevista condizione di procedibilità a querela è tuttavia la causa di una pressochè nulla emersione giudiziale degli stessi, che restano, dunque, relegati alla prassi sommersa d‟impresa.

Occorre, inoltre, considerare quelle fattispecie che, in quanto a struttura, oltre che ambito applicativo, ci ricordano più da vicino un reato corruttivo privato. Come anticipato, molte di esse sono organizzate secondo la tecnica del “pericolo”(reati di comparaggio, mercato del voto, compensi illegali ai revisori, frode sportiva), non mancano, tuttavia, alcune ipotesi di “danno” (turbata libertà degli incanti, astensione dagli incanti).

Nonostante questa dicotomia, di per sé in grado di segnare una grande differenziazione di tutela, è dato sempre apprezzare un fil rouge: lo scambio illecito tra privati, vero e proprio presupposto genetico di ogni fattispecie che considereremo in analisi. Tale elemento centrale, diversamente valorizzato a seconda di reati di pericolo o di danno, ci permette di apprezzare come la scelta circa il grado di avanzamento di tutela funga da vero discrimen tra opzioni politico criminali di siderale distanza.