3.3. La partecipazione dei lavoratori al sindacato
3.3.1. Partecipazione, integrazione, apprendimento, comunicazione
La partecipazione dei dipendenti e la presa in considerazione del loro punto di vista13 deve
necessariamente intrecciarsi con il processo comunicativo: la comunicazione, quindi, tra dipendenti e dirigenti, ma anche quella tra dirigenti e organizzazioni sindacali.
Quando viene valutata una questione, si dovrebbe prendere in considerazione ciò che è vantaggioso per l’intera azienda nel suo insieme e la Follett sottolinea che quindi andrebbe preso in considerazione il punto di vista di ciascun settore/reparto di quella stessa azienda durante il processo comunicativo. La prima cosa che deve esser fatta per risolvere una controversia, dovrebbe essere un esame della situazione concernente i fatti (Follett, 1979).
Mary Parker Follett con i suoi studi si è occupata dell’utilizzo efficiente delle risorse umane, analizzando alcuni problemi che condizionano la gestione delle persone nelle organizzazioni complesse. Le sue idee riguardano alcuni temi della vita organizzativa, quali il potere, l’autorità, la responsabilità cumulativa, la legge delle circostanze, il conflitto costruttivo e il coordinamento (Fontana, 1999). A tal riguardo, l’autrice ritiene che il conflitto sia una situazione da considerare senza pregiudizi etici: lo definisce appunto come costruttivo; dobbiamo pensare al conflitto come a una differenza tra le parti, in termini di opinioni e interessi (come affermato da Morgan). La Follett suggerisce alcuni metodi per la gestione del conflitto: il dominio, quindi la prevalenza di una parte sull’altra; il compromesso, raggiunto mediante concessioni; e l’integrazione.
Il dominio essenzialmente si esplica nella vittoria di una parte sull’altra. La seconda modalità, ossia il compromesso, merita più attenzione: si tratta del metodo che vede le parti cedere qualcosa in modo tale da riprendere l’attività e quindi ritornare alla situazione antecedente il conflitto. Il compromesso rappresenta la tattica sindacale per eccellenza. I sindacalisti tendenzialmente
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avanzano richieste estremamente superiori a quello che in realtà potrebbero chiedere, in virtù del fatto che tengono conto di quanto non sarà concesso in fase di trattativa. Mary Parker Follett però ritiene che il compromesso implichi, per definizione, delle rinunce: la studiosa afferma che “quando si giunge a un compromesso, si perde sempre qualcosa” (Follett, 1979 : 198). Pertanto, possiamo pensare ad una diversa soluzione. Secondo la studiosa, la terza possibilità, quindi l’integrazione, rappresenta quella più costruttiva rispetto alle altre perché le parti in gioco – sindacati e organizzazioni – si integrano, mediante il coordinamento, producendo dei comportamenti che non avranno conseguenze negative per nessuno. Il coordinamento è, infatti, inteso come un reciproco legame tra tutti gli attori in gioco. Esso si ha quando si è alla “ricerca di una soluzione nella quale trovano posto le esigenze espresse dall’una e dall’altra parte, in modo tale che nessuna delle due debba sacrificare alcunché” (ibid. : 31). L’autrice, oltre che proporre tale metodo alternativo per la risoluzione di un conflitto, ritiene che il conflitto sia costruttivo, come del resto lo intendeva Hirschman (1970). Secondo questa visione, il conflitto deve essere inteso come un segnale di progresso. E il conflitto diventa costruttivo nel caso in cui gli attori in gioco hanno fatto uso dell’integrazione. Ciò significa abbandonare il metodo di compromesso. La Follett critica quest’ultimo sostenendo che si tratta di un metodo che non apporta novità e progressi. Il fatto è che se vi è un compromesso, una delle parti avanzerà richieste all’altra parte, la quale cercherà di concedere il meno possibile. Ma non vi è la ricerca di una soluzione alternativa, che conduca entrambe le parti a migliorare: con il compromesso nessuna delle parti ottiene quanto desidera davvero. E questo non avviene con l’integrazione in quanto con essa vengono considerate entrambe le parti e ciò che queste si erano preposte di ottenere.
L’obiettivo, sostiene l’autrice, dovrebbe essere sempre quello del progresso, che si ottiene quando “si trova una strada che includa le idee di tutte le parti coinvolte nella controversia, il che richiede capacità di pensiero, inventiva, generosità” (Follett, 1979 : 197). Secondo tale logica l’integrazione, dunque, non è un qualcosa che va dato per scontato perché essa significa: “voi ed io otteniamo entrambi ciò che desideriamo; l’intera situazione avanza e il processo ha sovente un valore comunitario” (ibid. : 199). In tal senso, la partecipazione, che “implica la compenetrazione reciproca delle idee delle parti coinvolte” (ibid. : 196), va intesa come auto-contributo (e non come auto-sacrificio) e dovrebbe essere intesa come una delle dimensioni costitutive del clima organizzativo (Ferroni, Martini, 1978).
La partecipazione è direttamente connessa alle possibilità dell’apprendimento, sia per l’individuo che per l’organizzazione nella sua totalità (ricordando che si intende che ogni parte della organizzazione è in interazione con le altre). L’apprendimento stesso diventa un processo partecipativo e la partecipazione diviene momento di apprendimento. A tal riguardo, Peter Senge
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(2006), parla di «organizzazioni che apprendono» (learning organizations) definendole come organizzazioni
nelle quali le persone aumentano continuamente la loro capacità di raggiungere i veri risultati cui mirano; nelle quali si stimolano nuovi modi di pensare orientati alla crescita; nelle quali si lascia libero sfogo alle aspirazioni collettive, e nelle quali, infine, le persone continuano ad imparare come si apprende insieme (Senge, 2006 : 3).
In particolare, la teoria di Senge si snoda in cinque discipline14 che risultano fondamentali per la
costruzione di una organizzazione in grado di apprendere. Una disciplina consiste nel pensiero
sistemico, il quale fa riferimento a uno schema concettuale, un corpo di conoscenze e di strumenti
che permette di comprendere la completezza dei modelli per poi aiutarci a capire come poterli cambiare in modo efficace. L’autore poi parla di padronanza personale, sottolineando come il termine padronanza possa facilmente indurre a pensare ad una situazione di dominio su cose o persone, ma sottolineando poi come il termine possa fare riferimento ad un particolare livello di rendimento. La padronanza personale è quindi quella disciplina che “consiste nel chiarire ed approfondire continuamente la nostra visione personale, nel concentrare le nostre energie, nello sviluppare la pazienza e nel vedere la realtà in modo obiettivo” (ibid. : 8). A tal riguardo, Senge sottolinea l’importanza del legame tra apprendimento personale e apprendimento nelle organizzazioni, ossia quei legami reciproci tra l’individuo e l’organizzazione e lo spirito di una azienda costituita da persone che apprendono. Viene sottolineato però che le organizzazioni che incoraggiano il proprio personale a crescere in tale direzione sono poche, pertanto i lavoratori perdono velocemente il proprio senso di missione, di impegno e l’eccitazione che avevano quando avevano iniziato la propria carriera. L’altra disciplina descritta dall’autore consiste nei modelli
mentali, ossia le ipotesi radicalizzate, le generalizzazioni, le figure e le immagini che “influenzano
il modo in cui comprendiamo il mondo e il modo in cui agiamo” (ibid. : 9). Un’altra disciplina è quella relativa al costruire una visione condivisa, che risulta fondamentale per favorire l’impegno dei membri del gruppo alle attività che devono essere svolte.Infine, Senge parla di apprendimento
di gruppo, affermando che “quando i gruppi stanno effettivamente apprendendo, non soltanto
producono risultati straordinari, ma i singoli membri crescono anche più rapidamente di quanto sarebbe successo altrimenti” (ibid. : 11). Viene sottolineato, dunque, l’importanza del lavoro di gruppo che permette la condivisione delle informazioni e uno sviluppo dei singoli membri.
14 Senge con il termine discipline intende una serie di teorie e di tecniche che devono essere studiate e
padroneggiate prima di essere messe in pratica. Una disciplina, infatti, consiste in un percorso di sviluppo che permette di acquisire determinate abilità e competenze. L’autore sottolinea che “alcune persone hanno un talento innato ma tutti possono raggiungere risultati adeguati mediante la pratica” (Senge, 2006 : 12).
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Senge afferma che il pensiero sistemico, quindi la prima disciplina descritta sopra, rappresenti la «quinta disciplina» in quanto essa “integra le discipline, fondendole in un corpo coerente di teoria e di pratica” (Senge, 2006 : 13). Risulta quindi centrale una visione sistemica che permetta di osservare le discipline come interrelate tra loro. Il fatto è che il pensiero sistemico risulta fondamentale ma sono altrettanto importanti le altre discipline affinché sia possibile creare una visione condivisa. Visione condivisa che consiste nei modelli mentali, che si concentrano sulla apertura necessaria a cercare nuovi modi di vedere il mondo; nell’apprendimento di gruppo, che sviluppa le capacità di osservare al di là delle prospettive dei singoli; e nella padronanza personale, la quale “promuove la motivazione personale a continuare ad apprendere come le nostre azioni influiscano sul nostro mondo” (ibid.). Infine, l’autore sottolinea come una organizzazione che apprende è un posto nel quale le persone scoprono continuamente come loro stesse creano la propria realtà e come la cambiano. Senge afferma dunque che “sebbene siano state sviluppate separatamente, ciascuna di esse sarà il fattore critico per il successo delle altre, esattamente come succede con qualsiasi insieme” (ibid. : 7).
I membri di una organizzazione, quindi, attraverso la loro partecipazione (nel nostro caso, possiamo pensare alla partecipazione attraverso l’uso della voce – collettiva), contribuiscono alla crescita della organizzazione stessa; sottolineando però che quest’ultima deve contribuire ad ascoltare i propri dipendenti. Questo è un richiamo costante per i dirigenti ad evitare di mettere in atto il fenomeno della pseudo voce. Quindi, se i dipendenti utilizzano la loro voce in una prospettiva orientata al miglioramento, probabilmente l’organizzazione potrà apprendere con più facilità. Contrariamente, potremmo pensare che il non utilizzo della voce da parte dei dipendenti (dunque, il silenzio), vada ad ostacolare l’apprendimento organizzativo (Nafei, 2016). L’apprendimento organizzativo, dunque, si verifica quando i membri di una organizzazione agiscono come attori di apprendimento per la stessa; ciò significa che tutte quelle che sono le informazioni, le esperienze, le scoperte e le valutazioni di ciascun membro del gruppo diventano patrimonio comune dell’intera organizzazione (Argyris, Schön, 1998). Senge ha sottolineato però che spesso le organizzazioni hanno difficoltà ad apprendere. Una learning organization dovrebbe possedere alcune caratteristiche, come ad esempio scrutare ed anticipare i cambiamenti ambientali cercando di capire quali elementi del cambiamento possono essere significativi per l’organizzazione stessa; Morgan (2002) sottolinea come le learning organizations, al pari del cervello umano, avranno successo se saranno in grado di sviluppare adeguate rappresentazioni, cioè devono saper sviluppare delle mappe che siano in grado di descrivere adeguatamente la realtà con cui si devono misurare. Un’altra caratteristica che risulta interessante è quella concernente la messa in discussione e modificazione delle norme operative e delle ipotesi su cui esse si basano. In particolare, l’autore afferma che
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per apprendere e per cambiare, i membri dell’organizzazione devono essere in grado di comprendere lucidamente su quali ipotesi, concezioni e valori si basa l’attuale politica aziendale e devono essere in grado di mettere in discussione e modificare queste stesse ipotesi, concezioni e valori ogni volta che risulti necessario (Morgan, 2002 : 126-127).
Ciò significa che i membri di una organizzazione devono essere in grado di comprendere gli atteggiamenti mentali e i modelli di pensiero sui quali si basa il comportamento della propria organizzazione di lavoro. E sono proprio i membri che devono essere in grado di mettere in discussione tale modo di percepire e concepire l’organizzazione, “in modo da dar luogo ad opportunità nuove che permettano all’organizzazione di creare il proprio futuro” (ibid. : 127) . Questo rappresenta un potenziale di apprendimento a doppia subroutine15 perché l’organizzazione
è chiamata a considerare il proprio status quo in maniera critica ed è chiamata ad ipotizzare modalità operative differenti (Morgan, 2002). Anche questo risulta un esercizio che viene “svolto” con molte difficoltà in quanto spesso accade che le organizzazioni “rimangono intrappolate nello status quo e diventano miopi accettando la realtà presente come se fosse la realtà tout court” (ibid. : 128) e ciò potrebbe avvenire grazie ad attività di brainstorming o altre modalità che comunque siano in grado di valorizzare il pensiero di ogni componente della organizzazione (e ancora, la possibilità che la voce dei dipendenti sia ascoltata). Ma ai membri deve essere data la possibilità di esprimersi. Sicuramente lo stile di leadership risulta centrale in tal senso in quanto se il leader segue uno stile democratico-cooperativo16, ad esempio, ci sarà
maggiore attenzione ai pensieri di ciascun membro del gruppo; egli sarà in grado di coordinare il gruppo, organizzando le discussioni e le riunioni, analizzando le proposte di ciascun componente, e soprattutto senza giudicare i pensieri e le opinioni degli altri. Ovviamente il leader non dovrà abbandonare il gruppo a se stesso altrimenti si avvicinerebbe a quello che Lewin, Lippitt e White hanno definito stile di leadership permissivo (o laissez-faire) analizzato nel corso del capitolo primo.
15 L’apprendimento a doppia subroutine fa riferimento alla capacità di riconsiderare la situazione attuale,
mettendo in discussione l’opportunità delle norme operative. È un apprendimento che prevede differenti fasi: la fase 1 consiste in un processo di percezione dell’ambiente e un suo monitoraggio; la fase 2 consiste in un raffronto dell’informazione con le norme operative; la fase 2a (che graficamente apparirebbe esternamente alla fase 2), consiste in una verifica della opportunità delle norme operative; infine, vi è la fase 3 che consiste nella attivazione della azione appropriata alla situazione. Le organizzazioni sono in grado di apprendere però anche secondo un apprendimento a subroutine unica, la quale consiste nella capacità di rilevare e correggere l’errore relativamente a precise norme operative (Morgan, 2002).
16 Lewin ha affermato che “è possibile imporre l’autocrazia a un individuo. Questi, cioè, potrebbe
apprendere l’autocrazia adattandosi a una situazione impostagli dall’esterno. Viceversa, gli individui non possono essere obbligati alla democrazia, che va appresa attraverso un processo di partecipazione volontaria e responsabile. Un processo di trasformazione in senso democratico richiede un tempo maggiore che non il processo inverso, dalla democrazia all’autocrazia” (Lewin, 2005 : 241).
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Abbiamo potuto osservare come apprendimento e partecipazione siano due concetti che dovrebbero integrarsi tra loro, unitamente alla integrazione come attività da prediligere rispetto al compromesso (nei casi in cui entra in gioco anche l’organizzazione sindacale nella interazione / conflitto tra dipendenti e azienda).
Dunque, abbiamo affermato che la partecipazione deve essere intesa come un auto-contributo reciproco tra gli attori in gioco e che l’organizzazione può apprendere dai contributi forniti dai singoli. Questo anche perché dobbiamo sempre pensare alla organizzazione come un sistema le cui parti sono in costante interazione tra loro. E questo implica che le parti riescano a comunicare tra loro in modo continuativo ed efficace e ciò significa che vi è una interazione tra le parti nel processo comunicativo. Da sottolineare che “per poter sviluppare una comunicazione efficace occorre imparare ad ascoltare” (Damascelli, 1993 : 19). Infatti, entrambe le parti devono essere in qualche modo umili, non devono pensare di essere in possesso di una “verità assoluta” e pensare che l’altra parte non possa fornire informazioni utili e che non si possa apprendere dalle stesse. Se una comunicazione vede una delle parti comportarsi in questo modo, dunque non ascoltando effettivamente l’altra parte, probabilmente essa risulterà povera e inefficace. Così, l’integrazione descritta dalla Follett sembra poggiare su quella che potremmo definire “l’arte del saper ascoltare l’altro”. In effetti, se una parte riesce ad ascoltare l’altra, si rende possibile un apprendimento di elementi, fatti e circostanze di cui, senza tale comunicazione, le parti non avrebbero tenuto conto. Inoltre, ascoltando l’altro, diviene possibile ottenere informazioni sugli scopi, sui problemi, ma anche sulle paure e sui timori dell’interlocutore: si entrerebbe “in possesso di dati preziosi per rendere più efficace e mirata la nostra comunicazione” (ibid. : 23). Si evince l’importanza e l’attenzione che dovrebbe essere data ai bisogni e alle aspettative dell’altra parte. Questo permetterebbe lo svolgimento di un efficace processo di comunicazione.
È possibile sostenere che la comunicazione rappresenta una risorsa fondamentale per l’«organizzare», come direbbe Weick. Una comunicazione che deve essere efficace tra l’organizzazione e la contro-organizzazione, ma anche tra l’organizzazione e i propri dipendenti. Ciò permetterebbe una minore frequenza di conflitti. O comunque forse potrebbe permettere una risoluzione degli stessi senza il ricorso a risposte comportamentali “estreme” (ad esempio, una voce aggressiva). Ma quando la comunicazione tra organizzazione e lavoratori viene meno, il conflitto non può che amplificarsi. Ed è qui che può entrare in gioco l’organizzazione sindacale, che si impegna nel tutelare i dipendenti e far sì che questi possano utilizzare la loro voce (mediante lo sciopero e tutte le altre forme della partecipazione al sindacato che abbiamo analizzato precedentemente) e che essa venga davvero presa in considerazione (contrariamente al fenomeno della pseudo voce).
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3.4. Riepilogo
L’esigenza di introdurre il capitolo terzo è nata dall’idea secondo cui l’efficacia della voce (discussa nel capitolo secondo) che i dipendenti possono utilizzare, per protestare contro la propria organizzazione di lavoro, fosse maggiore se portata avanti collettivamente. Pertanto, si è reso necessario capire quale sia l’organizzazione che si impegna nel coordinare e dare un certo indirizzo a tale voce collettiva. La prima parte del capitolo si è quindi concentrata sulla descrizione del sindacato, inteso qui come descritto da Gareth Morgan, ossia una contro- organizzazione. Successivamente si è reso necessario capire a quali strumenti l’organizzazione sindacale ricorre per supportare i lavoratori: abbiamo parlato, a tal riguardo, dello sciopero (ricordando che comunque esso rappresenta lo strumento al quale si ricorre nel caso in cui il dialogo tra le parti, e quindi la comunicazione, non abbia funzionato nel trovare una soluzione efficace per entrambe). Abbiamo poi analizzato la partecipazione dei lavoratori al sindacato e tutte le forme che essa può assumere, sottolineando poi come sia centrale la comunicazione tra le parti: tra i dipendenti e l’azienda e tra l’azienda e l’organizzazione sindacale. Comunicazione che è strettamente legata al concetto di integrazione descritto dalla Follett e all’apprendimento organizzativo.
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Capitolo quarto
L’utilizzo del modello EVL per una analisi delle dinamiche intraorganizzative a
seguito di alcuni cambiamenti organizzativi in una azienda pisana che opera nel
settore della grande distribuzione
Viviamo in una società democratica. Perché dunque sono tenuto ad obbedire al mio superiore per otto ore al giorno? Si comporta come un maledetto dittatore e ci dà continuamente gli ordini dicendoci che cosa dobbiamo pensare e che cosa dobbiamo fare. Che diritto ha di comportarsi così? È vero che l’azienda ci dà un salario, ma questo le dà forse il diritto di imporci le opinioni e i sentimenti? L’azienda non ha nessun diritto di ridurci a tanti robot che devono eseguire ogni comando (Morgan, 2002 : 204).