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Ricostruzione delle vicende di conflitto

4.4. L’analisi dei dati

4.4.4. Ricostruzione delle vicende di conflitto

A seguito della spiegazione dell’obiettivo di questa tesi, e quindi dicendo agli intervistati che il nucleo centrale dell’elaborato consiste in una analisi dei conflitti organizzativi, si è potuto osservare la medesima reazione da parte della maggior parte di loro: l’utilizzo di frasi come “Beh

Carrefour allora è perfetta per la tua ricerca” (intervistata 2) oppure “I conflitti sono all’ordine del giorno” (intervistata 3). Espressioni utilizzate con un tono quasi combattente. Questo ad

indicare il fatto che certe dinamiche intraorganizzative sembrano verificarsi molto frequentemente nella azienda protagonista di questa ricerca.

A fronte dei cambiamenti descritti è dunque entrato in gioco il sindacato, anche se in realtà dobbiamo sempre ricordare che esso opera costantemente attraverso la presenza delle RSU; è quindi sempre in gioco perché di fatto l’esistenza dei rappresentanti sindacali consente un dialogo costante tra sindacato, direzione e dipendenti.

Al fine di ricostruire i momenti salienti delle vicende, è stato chiesto agli intervistati come effettivamente sono stati comunicati loro i cambiamenti. Probabilmente ha influito il fatto che gli eventi si sono verificati tra il 2012 e il 2015, in quanto vi sono state risposte incongruenti: alcuni hanno affermato di essere venuti a conoscenza del cambiamento da parte del proprio capo reparto, altri invece ricordano di essere stati informati da parte dei rappresentanti sindacali e altri ancora affermano che nessuno, di fatto, comunicò loro tali avvenimenti.

Procedendo, è stato chiesto agli intervistati se l’idea iniziale di mobilitarsi (per le varie occasioni) è nata tra i dipendenti oppure se è stato il sindacato a decidere di adottare una tale strategia, per poi proporla ai lavoratori.

“All’inizio noi dipendenti da soli non avevamo parlato di mobilitarsi perché nonostante tutto stavamo bene in azienda, il clima era positivo e si cercava di andare incontro all’azienda […]. Però poi parlando con il sindacato ci siamo resi conto delle richieste sempre più grandi che ci faceva (l’azienda).” (intervistato 1).

Dunque, nonostante i dipendenti iniziassero a capire che certi cambiamenti potessero influire su di loro, sulla loro attività lavorativa o organizzazione personale, non si preoccupavano eccessivamente, secondo l’intervistato 1, delle conseguenze cui potevano andare incontro. Sono risultate fondamentali le assemblee sindacali, a cui partecipano i lavoratori che sono iscritti al sindacato, in quanto consistono in un momento di dialogo e consultazione tra i partecipanti. L’intervistata 5 afferma che durante le assemblee sindacali, tutti, chi più chi meno, prende parola.

“Il sindacato ci mette di fronte alle possibili ripercussioni su di noi e cosa possiamo fare e ne discutiamo”. E in quelle occasioni è maturata nella organizzazione sindacale la volontà di

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utilizzare lo strumento dello sciopero. “Io ero d’accordo, infatti ho partecipato allo sciopero

perché l’azienda voleva sempre stare aperta.” (intervistata 2).

Inoltre, viene sottolineato che “Non è un servizio essenziale tenere aperto un supermercato di

notte. Non è come un ospedale, quindi un medico o un infermiere, professioni di cui hai bisogno ad ogni ora, sia di giorno sia di notte. Poi penso al consumo di energia elettrica quindi all’inquinamento, alle cose che vengono buttate via. Ma davvero ne vale la pena? Ma davvero è necessario? Per me non ha senso.” (intervistata 3).

Passando effettivamente ai momenti di protesta, per quanto concerne il sentirsi un gruppo coeso durante le attività di sciopero, tutti gli intervistati hanno risposto positivamente, sottolineando che maggiore coesione durante la protesta si è verificata proprio per lo sciopero contro l’esternalizzazione dei servizi di notte alle cooperative. “Si sentiva che ci toglievano il lavoro” (intervistata 3). Una differenza emerge nel reparto casse: l’intervistata 5 ha affermato che durante la protesta e manifestazione si sono sentite parte di un gruppo coeso, ma tra colleghi alle casse non vi è stata una coesione perché “Siamo sempre state le stesse a farsi avanti. Mi sembra che

negli altri reparti siano più uniti.” Nuovamente emerge il fatto di una differenziazione elevata

tra reparti all’interno dell’ipermercato.

Nel corso delle interviste, in alcuni casi è emersa la questione della fedeltà nei confronti della organizzazione. Ad esempio, una intervistata ha sottolineato più volte: “Prima credevo molto

nell’azienda. Nel corso degli anni tutto è cambiato. In questo momento sei costretto a “subire” delle cose, dei comportamenti da chi sta più in alto.” (intervistata 2). E ciò ha come conseguenza,

in alcuni reparti, il fatto di avere poca discrezionalità sul lavoro. Viene richiesto di svolgere determinate attività e in un determinato modo. È come se “tu debba lavorare come una macchina,

senza pensare di testa tua” (intervistata 2).

Alcuni interlocutori nel corso del racconto hanno ricordato “Prima c’era devozione verso

l’azienda. C’era un gruppo solido e unito che oggi non c’è più.” (intervistato 1). “C’è stato proprio un cambiamento di clima: minore motivazione, più atteggiamenti scontrosi, poca voglia di lavorare. Prima non era così, c’era più devozione verso l’azienda, da parte di tutti, almeno per quello che vedo.” (intervistata 5). Viene sottolineato un cambiamento di atteggiamento nei

confronti della organizzazione di lavoro, un progressivo minore interesse verso le modalità di svolgimento delle attività, minore preoccupazione nel terminare quelle attività necessariamente entro un certo orario. “Se prima ti facevi in quattro per, ad esempio, finire un bancale nel tuo

orario, ora se non lo hai finito, non importa, pace, che problema c’è! A quello che viene dopo dici che deve finirlo!” (intervistata 2). Accade dunque che i dipendenti si mostrano meno

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lavoro, minore impegno e coinvolgimento in un periodo di cambiamento appunto post- organizzativo (Hall et al., 1978; Caldwell et al., 2002; Susskind et al., 1998 cit. in Akhtar et al., 2016).

“Io mi sento fedele all’azienda anche perché sono 20 anni che lavoro li. Devo riconoscere che non ci hanno mai abbandonati nonostante tutto. […] Allo stesso tempo è vero che se avessero mano libera sui contratti ci avrebbero licenziati tutti, ma sono vincolati. Assumerebbero solo lavoratori esterni ecc.” (intervistato 1).

Una delle domande presenti nella traccia in questa macroarea, era concernente il fenomeno del free rider di cui si è parlato in occasione della opzione voce e quando si è discusso dello strumento dello sciopero. L’interesse era capire le sensazioni e i pensieri di chi effettivamente ha protestato, ha utilizzato la propria voce, ponendosi quindi in qualche modo in una posizione contrastante con la propria organizzazione di lavoro; e capire il pensiero di chi ha protestato rispetto a coloro che invece non lo hanno fatto. E in alcuni casi si è toccata tale questione senza aver chiesto esplicitamente agli intervistati di parlare di questo fenomeno.

“Molti non aderirono agli scioperi. Ognuno ha le sue motivazioni per aderire o meno. Sicuramente alcuni pensano: ‘tanto ci sono gli altri che scioperano, io passo bene e se otteniamo qualcosa ne beneficio anche io e alla fine ci ho anche risparmiato soldi’. E questo mi dà molto fastidio.” (intervistato 1).

A volte è capitato che si verificassero scontri tra dipendenti proprio per il fatto di non aver scioperato. “Ognuno fa quel che vuole, è vero, ma fino a un certo punto. Ad esempio, successe

che una collega quando prese la busta paga si trovò dei soldi in meno e brontolò. E io le risposi dicendole che io lo sciopero lo avevo fatto e quindi non doveva lamentarsi; lei mi disse ‘perché lo sciopero era anche per questo?’ e lì mi arrabbiai tantissimo.” (intervistata 4).

Emerge quindi una differenza tra i lavoratori. Vi è chi effettivamente si preoccupa delle questioni riguardanti l’azienda e il rispetto dei propri diritti, mentre altri non si preoccupano minimamente e a ciò consegue una minore, se non nulla, partecipazione alle attività sindacali. E con partecipazione, come abbiamo potuto capire anche nel corso del capitolo terzo, non ci riferiamo solo alla attività di sciopero; ma ci riferiamo a tutto ciò che concerne il “prender parte a”, all’interessarsi di determinate questioni, quindi ad esempio, partecipando alle assemblee sindacali. Partecipazione alle attività sindacali che deve essere attiva, con l’obiettivo di raggiungere un miglioramento, un cambiamento rispetto alle condizioni attuali. E quindi per far sì che l’organizzazione apprenda che qualcosa non va.

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Ancora più forte è stata l’affermazione della intervistata 3, che ricordiamo, è una dipendente della azienda ma che ricopre anche il ruolo di rappresentante sindacale: “Mi piacerebbe in qualche

modo punire certe persone. Mi piacerebbe che il risultato andasse solo a chi davvero ha partecipato allo sciopero. Mi dà fastidio perché si lotta per un bene comune quindi tutti dobbiamo lottare. Quando si fa un sacrifico, quando si lotta, dobbiamo prendere parte tutti.” (intervistata

3). Viene sottolineato inoltre che “Quando si rinnovano i contratti nazionali in un settore, i

benefici e quindi l’aumento contrattuale, sono per tutti: sia chi ha scioperato sia chi non ha scioperato. Quindi chi non sciopera dovrebbe essere molto grato a chi si sacrifica e non dovrebbe banalizzare il suo sforzo.” (intervistata 6). Il fatto è che “Tante colleghe credono che lo sciopero non serva a niente. E magari realmente non serve a niente, ma almeno ci abbiamo provato”

(intervistata 5).

“A me infastidisce chi fa sciopero e non sa neanche il motivo dello sciopero e non vanno neanche alla manifestazione. Lo sciopero deve essere sciopero. Lo sciopero non deve essere fatto per stare a casa, ma perché ci credi e quindi devi andare a manifestare. Quelli che non scioperano invece spesso e volentieri hanno paura delle ritorsioni, che in effetti sono presenti a seconda del reparto. Ci sono capi reparti che se te fai sciopero ti mettono a fare tutti i sabati di pomeriggio ecc. Le ritorsioni sì, ci sono.” (intervistata 2).

Emerge dunque il tema delle ritorsioni sul lavoro a seguito della partecipazione allo sciopero da parte dei dipendenti. “Ad esempio, se secondo loro ti comporti male, ti cambiano di reparto; se

fai sciopero, se vai contro l’azienda, usano questo metodo di spostamento di reparto. La logica è che se ti sposto, ti cambia la tua organizzazione perché ci sono reparti in cui gli orari sono peggiori rispetto al tuo reparto precedente (es. i turni spezzati che prevedono l’andare a lavoro mattina e pomeriggio). Se sanno che te preferisci un certo turno (spezzato o orario continuato), per loro può essere un’arma. Oppure addirittura ti mettono in cassa che gli orari sono ancora peggiori.” (intervistato 1).

È stato descritto come le ritorsioni si manifestano in termini di rigidità di comportamento da parte dei capi reparto, dunque mediante atteggiamenti freddi, caratterizzati da battutine negative e ricatti. Contrastante invece è la dichiarazione di un’altra interlocutrice: “Secondo me non ci sono

le ritorsioni. Secondo me è tutto relativo perché dipende da che orari preferisci tu.” (intervistata

4).

È l’unica intervistata che ha risposto in questo modo. Infatti, “Le ritorsioni magari sono più

nascoste ma ci sono. Lo vediamo negli orari, magari ti capita l’orario di chiusura più volte nella stessa settimana. E tendenzialmente è un orario che nessuno preferisce. Oppure ti tolgono il saluto. Si tratta di “ripicche” piccole ma che comunque ci sono.” (intervistata 5). L’intervista 5

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invece evidenzia alcuni atteggiamenti del capo reparto, quali lo sbuffare se vengono fatte delle richieste o lamentele se viene comunicato da parte del lavoratore di sentirsi poco bene fisicamente e quindi di essere impossibilitato ad andare a lavorare. “Ti fanno pesare le richieste che fai”. E ciò sembra avere delle conseguenze negative sulla motivazione lavorativa.

Per capire l’efficacia delle attività di sciopero relativamente alle vicende è stato chiesto agli intervistati se ci sono stati e quali sono stati i cambiamenti. Ed è emerso che l’azienda, per quanto riguarda le domeniche, non ha effettivamente ascoltato la voce dei dipendenti; per quanto concerne l’orario notturno un cambiamento – a seguito del cambiamento – c’è stato, ma di fatto la motivazione ha riguardato il fattore economico: gli incassi non erano abbastanza e la direzione ha ritenuto più conveniente chiudere il punto vendita a mezzanotte. Dunque, sembra che l’azienda, anche in tal caso, non si sia preoccupata delle esigenze e delle preoccupazioni dei dipendenti, e nuovamente, non abbia preso in considerazione le lamentele poste in essere dai dipendenti e dalla organizzazione sindacale.

In effetti, delle comunicazioni erano state fatte da parte della Filcams CGIL: “I lavoratori e le

lavoratrici del Carrefour di Pisa si rendono disponibili a valutare una nuova organizzazione del lavoro, che tenga conto delle esigenze aziendali ma anche che rispetti e garantisca i diritti di tutti i dipendenti e che per questo chiedono all’azienda di non procedere con la decisione comunicata. In assenza di un segnale in tale direzione la RSU, congiuntamente alle OO.SS.17 territoriali valuterà le azioni con le quali dimostrare il dissenso delle lavoratrici e dei lavoratori dell’iper”.

Queste parole sono state estrapolate dal Comunicato della RSU Carrefour Pisa nei confronti della azienda. Il sindacato, quindi, ha cercato di rallentare, se non impedire, il processo di apertura notturna, avvertendo l’azienda che in caso di non ascolto e non presa in considerazione delle preoccupazioni poste in essere, avrebbero proceduto seguendo una diversa direzione: ossia quella dello sciopero. Ed è poi ciò che è avvenuto.

“Proclamare degli scioperi e farli, anche se il punto vendita non chiude effettivamente, significa provocare un disagio organizzativo tale per cui si devono organizzare diversamente.”

(intervistata 6). Ciò che è emerso dai racconti è che l’azienda Carrefour ha sempre cercato di ostacolare il verificarsi dello sciopero, anche se sapeva che non avrebbe funzionato al 100%. Una modalità attraverso la quale l’azienda cercò di impedire la manifestazione fu l’utilizzo di una sorta di cartellone appeso all’entrata del punto vendita, firmato dal responsabile nazionale dell’impresa, spiegando ai lavoratori la posizione aziendale. “C’erano scritte cose del tipo ‘il mondo sta

cambiando, ma noi teniamo ai nostri lavoratori, è una sfida ecc.’.” (intervistata 6).

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C’è chi pensa che “In generale gli scioperi non hanno funzionato molto. Alla fine, avevano la

legge dalla loro parte (decreto-legge Monti), e quindi non siamo riusciti a ottenere niente. L’azienda è andata dritta per la sua strada.” (intervistato 1). L’intervistato mentre parla si mostra

rassegnato e scontento rispetto alla situazione.

Vuoi per il basso grado di interessamento e partecipazione alle attività sindacali, vuoi per la paura delle ritorsioni sul posto di lavoro, “purtroppo a Carrefour non c’è molta adesione sugli scioperi,

mai” (intervistata 2). In effetti, “ci sono alcuni dipendenti che vorrebbero partire all’attacco subito e altri invece che temporeggiano. Anche per noi è difficile scegliere una strada perché abbiamo paura di fare sciopero e poi non essere seguiti dai nostri colleghi” (intervistata 3).

Questo è un rischio molto importante per il sindacato: se l’adesione è bassa, esso può avere delle ripercussioni sulla propria “legittimità”. L’intervistata afferma però che alle volte si presentano delle situazioni problematiche talmente “gravi” che l’interesse per l’adesione allo sciopero passa in secondo piano. Detto in altri termini, anche se ci fosse una sola persona disposta a manifestare e protestare, potrebbe comunque emergere l’idea di proclamare lo sciopero.

“Certe valutazioni si fanno a livello sindacale dall’alto fino a noi rappresentanti sindacali in azienda. Quindi le domande sono: qual è la modalità da scegliere? Si fa uno sciopero improvviso che l’azienda non si aspetta, magari di un’ora? Oppure si fa uno sciopero di una intera giornata? Ci sono miei colleghi che dicono magari che vogliono fare sciopero di una settimana e poi non lo fanno neanche se viene organizzato di un’ora. Alcuni che dicono che è meglio farlo più breve possibile per una questione economica. Tanti hanno rinunciato a fare sciopero per il discorso economico. I valori delle persone sono cambiati. Io, anche se sono in difficoltà, se sento che c’è una questione che ne vale la pena, non mi tiro indietro. Non mi interessa altro, mi sento di lottare.” (intervistata 3).

“Se è una cosa a cui credi e se lo facciamo tutti, magari qualcosa cambia. Almeno abbiamo fatto il possibile.” (intervistata 4). “Secondo me per essere uno strumento efficace deve essere fatto da tutti, altrimenti ha poco senso.” (intervistato 1). Tutti effettivamente concordano con tale

affermazione.

Gli interlocutori sottolineano come si siano sentiti un po’ frustrati per il fatto che altri colleghi non abbiano mai partecipato allo sciopero, o addirittura che abbiano fatto orari di “straordinario” nel mentre gli altri erano nell’area del parcheggio, di fronte il punto vendita, a manifestare. Alcuni intervistati ritengono però che il ruolo del sindacato sia diventato in qualche modo più marginale rispetto al passato, meno incisivo per quanto concerne la rivendicazione di determinati diritti che spettano ai lavoratori. “In passato se un dipendente avesse avuto un problema con

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l’azienda, il sindacato avrebbe fatto di tutto per risolvere quel problema, oggi molto meno.”

(intervistato 1). “L’azienda ha dato delle buonuscite perché era in esubero di personale, ed è

sembrato che il sindacato le abbia favorite”. Invece che trovare delle soluzioni o far pensare ai

dipendenti che “abbandonare” l’azienda comporta delle conseguenze che non possono non essere considerate, come ad esempio il rischio di non trovare un’altra occupazione, per il lavoratore 1 sembra che abbiano favorito le uscite. Quando abbiamo parlato della mobilità volontaria nel corso del sotto-paragrafo 4.4.1 abbiamo affermato che effettivamente l’organizzazione e l’organizzazione sindacale hanno stipulato degli accordi per far sì che alcuni dipendenti uscissero con un incentivo. Ad ogni modo, tale situazione ha suscitato delusione nell’intervistato in quanto non si aspettava un tale atteggiamento da parte del sindacato.

Questo scenario, relativo al fatto che le persone credono meno al ruolo svolto dal sindacato, viene confermato dalla rappresentante sindacale stessa, che afferma che effettivamente i sindacalisti hanno contributo in qualche modo alla costruzione di una propria immagine collettiva negativa.

“Ci sono stati sindacalisti che si sono comportati male, nel senso che hanno fatto il loro interesse. Oppure chi prendeva il permesso sindacale per andare a fare cose personali. E questi discorsi nelle persone girano. Ciò contribuisce alla sfiducia generale nel sindacato.” (intervistata 3).

A questo punto ai lavoratori sono state poste delle domande specifiche per quanto concerne i loro pensieri sulla uscita, sulla combinazione di questa con la voce e sul ruolo della lealtà nei confronti della azienda. Abbiamo inizialmente chiesto agli intervistati se hanno mai pensato di lasciare il loro lavoro. Alcune risposte sono state “Si ci ho pensato… Ho sempre fatto qualche lavoretto

extra ma comunque lasciare quello era difficile. Ci ho pensato tante volte ma non l’ho mai fatto perché le opportunità non erano migliori.” (intervistato 1).

“Sicuramente dover andare a lavorare di domenica e nei festivi a livello familiare ti comporta una grossa perdita. Se ci fosse la possibilità di trovare un lavoro dove potessi avere di meglio, andrei. Ma il problema è che la sicurezza che ti dà Carrefour, in pochi te la possono dare”

(intervistata 2).

“Io ho pensato di trovare un altro lavoro che si conciliasse con questo. Di lasciarlo, ho paura. […]. Da una parte mi piace il mio lavoro, lo apprezzo perché sono a contatto con le persone. Ma sento che sono capace di fare anche altre cose.” (intervistata 3).

“Si ci ho pensato ma non è tanto per il lavoro in sé, ma è il contatto con le persone che dopo un po’ diventa stressante. Dopo tanti anni al pubblico diventa pesante” (intervistata 5).

Si evince quindi che sostanzialmente tutti gli intervistati abbiano pensato, almeno una volta durante la loro carriera lavorativa, a lasciare il posto di lavoro.

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È stato poi fatta la stessa domanda relativamente all’opzione uscita ma riferendosi ai colleghi di lavoro. “Tanti colleghi lo hanno pensato e lo hanno effettivamente fatto (di uscire), soprattutto

con gli incentivi. Molti lo hanno fatto senza cercare di protestare; magari erano stanchi della situazione, pensavano di trovare situazioni migliori. So di alcuni che però non hanno trovato occupazioni migliori.” (intervistato 1).

Alla luce di quanto descritto nel capitolo secondo riguardo il modello EVL di Hirschman, emerge che se i dipendenti hanno fatto uso della uscita è solo perché sono stati incentivati dall’azienda stessa. Se cerchiamo di osservare le vicende attraverso il framework teorico costruito, notiamo