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Il Prefetto nell’Italia unita

Ormai spodestato, Napoleone ebbe a dire: “il letto era troppo comodo perché, cambiate le lenzuola, non vi si dovessero adagiare i Borboni restaurati”69. Un commento sagace sulla scelta di molte

delle ripristinate monarchie italiane (ma anche di quella francese) in favore della conservazione del sistema accentrato di governo degli enti locali basato sul prefetto: creatura napoleonica per eccellenza, esso diviene ben presto un formidabile strumento della

Restaurazione.

68 M. Meriggi, Società, istituzioni e ceti dirigenti, in (a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto) La

Storia d’Italia, volume I. Le premesse dell’unità. Dalla fine del Settecento al 1861, Bari, 1994, pp.

119 e ss.

69 Cit. nella voce di R. Malinverno, Prefetto, in Novissimo Digesto Italiano, XIII, Torino,

41 Ad adagiarsi sul “letto” accomodato da Bonaparte è anche il regno sabaudo, in cui l’influenza francese è inevitabilmente forte. Con la legge del 23 marzo 1853, n. 1483, su proposta di Cavour, il

Parlamento subalpino riorganizza l’intero assetto amministrativo dandogli una configurazione fortemente gerarchica. Detta legge, infatti, disegna l’apparato burocratico secondo un modello

piramidale, che vede nel ministro l’apice e si dirama verso il basso, comprendendo: il segretario generale, il direttore generale, il direttore capo di divisione, il capo di sezione, il segretario di prima e seconda classe e da ultimo l’applicato di I, II, III e IV classe70. La

riforma cavouriana si pone come un primo, importante passaggio di modernizzazione della pubblica amministrazione, creando un fecondo milieu per le successive innovazioni riprendendo quello che era lo spirito di fondo dei provvedimenti bonapartisti: la gestione delle provincie attraverso funzionari che rispondono direttamente all’esecutivo.

Meglio nota come “legge Rattazzi”, la legge 23 ottobre 1859, n. 3702 sull’ordinamento comunale e provinciale muta la geografia amministrativa dello stato sabaudo esaltandone i caratteri

accentratori. All’adozione del testo si perviene grazie allo

strumento dei pieni poteri, un regime che consiste nella “iniziativa del Governo del Re di chiedere alle Camere, adducendo motivi straordinari (in genere, lo scoppio di una guerra), un’autorizzazione all’esercizio della funzione legislativa per un tempo limitato e per materie che almeno formalmente risultano tassativamente indicate (anche se spesso sono tanto ampie da non poter essere in pratica circoscrivibili)71”. Nel caso di specie, i pieni poteri, concessi al

Governo La Marmora per la conduzione della Seconda guerra d’indipendenza, sono utilizzati dal Ministro dell’Interno Urbano Rattazzi per trapiantare in Italia il modello francese, suddividendo il territorio del Regno di Sardegna e della parte lombarda del Regno Lombardo- Veneto in provincie, circondari, mandamenti e comuni, tutti configurati nella sostanza come organi statali72. Ogni provincia

è amministrata da un governatore di nomina regia e direttamente dipendente dal Ministro dell’Interno. Un consiglio provinciale eletto dai cittadini più influenti designa i componenti della Deputazione Provinciale, cui spetta il ruolo di giudice

70 P. Aimo, Stato e poteri locali in Italia. Dal 1848 ad oggi, Carocci Editore, Roma, 2010. 71 Così G. Volpe, Storia costituzionale degli italiani, volume I, l’Italietta (1861-1915),

Giappichelli Editore, Torino, 2009, p.33.

42 amministrativo. Il ruolo del governatore, che sostituisce

l’intendente generale, è sostanzialmente quello di un coordinatore degli uffici periferici istituiti ai vari livelli di governo territoriale dagli altri ministeri. Opera inoltre come rappresentante periferico dello Stato e quale capo della giunta esecutiva della provincia. Ai circondari è preposto un intendente, ai comuni un sindaco

individuato dal sovrano fra i ranghi dei consigli comunali. La legge del 1859 è imbevuta della concezione politica “liberal-autoritaria” di matrice benthamiana cara a Rattazzi e ad altri maggiorenti della sinistra piemontese, tutti fautori della necessità di un governo forte tanto al centro quanto in periferia73. Un saldo potere centrale, con

diramazioni sul territorio, è dunque considerato dal Rattazzi un indispensabile mezzo di consolidamento di un’altrimenti fragile unità74. Residua inoltre uno spazio per una ordinata partecipazione

dei cittadini alla gestione della cosa pubblica attraverso corpi locali a carattere rappresentativo, quantunque assoggettati a penetranti controlli governativi. Da una parte, dunque, aumentano i poteri decisionali delle autorità comunali; dall’altro proliferano gli organi statali che ne controllano e dirigono l’azione. Se infatti l’elettorato comunale viene leggermente allargato, fermo restando il principio censitario, il sindaco vede rafforzate le sue funzioni di ufficiale del Governo. Colpisce soprattutto l’ambigua natura della provincia, ad un tempo organismo autoamministrato e organo governativo: essa vanta infatti un Consiglio elettivo e una deputazione parzialmente elettiva, presieduta dal governatore, rappresentante dell’esecutivo a livello locale. Il governatore, inoltre, costituisce l’istanza decisionale in sede di controllo, ricevendo i ricorsi comunali contro gli atti dell’intendente e quelli dell’intendente avverso gli atti del Comune immediatamente esecutivi. Come noto, solo la Toscana rimane esclusa dall’ambito di operatività della riforma, in virtù di un regime transitorio la cui vigenza termina solo nel 1865.

La politica di compressione delle autonomie locali e di

corrispondente crescita dell’apparato periferico perseguita dai governi piemontesi è ben rappresentata dal r.d. 9 ottobre 1861, n.272 e dal r.d. 5 gennaio 1862, n.415, con cui vengono soppressi, rispettivamente, la “Luogotenenza generale delle Provincie

Napolitane”, il “Governo delle Provincie Toscane” e la

73 A. Porro, Il Prefetto e l’amministrazione periferica in Italia. Dall’Intendente subalpino al Prefetto

italiano (1842-1871), Giuffrè, Milano 1972, pp. 96-120.

43 “Luogotenenza generale nelle Provincie Siciliane”. Le relative funzioni sono “riportate al Governo centrale, salve le delegazioni che vengano con altri Nostri Decreti stabilite”75.

È con il regio decreto 250 del 9 ottobre 1861 che inizia a tutti gli effetti l’esperienza italiana del prefetto. Morto Cavour, il nuovo Primo Ministro, il barone toscano Bettino Ricasoli, estende a tutta l’Italia conquistata l’ordinamento provinciale e comunale sancito dalla “legge Rattazzi”. L’Amministrazione pubblica viene articolata localmente in comuni, circondari e province. La posizione dei governatori nelle province è attribuita al prefetto, quella dell’intendente nel circondario al sottoprefetto. Il consiglio di governo, organo ausiliario del governatore, muta la denominazione in “consiglio di prefettura”. Il richiamo alla stagione napoleonica, esempio di amministrazione moderna ed efficiente, non è più solo nella sostanza ma anche nominalistico. Le neonate Prefetture, specie quelle delle capitali degli Stati preunitari, sono collocate in importanti palazzi storici e assumono l’appellativo di "palazzo del Governo", per sottolineare il ruolo di rappresentanza del potere centrale in periferia. Segnatamente, la rappresentanza periferica dell’esecutivo spetta al prefetto, dipendente dal ministero

dell’Interno, che presiede la Deputazione provinciale e diviene il vero dominus dell’amministrazione locale. Altri decreti regi, come il numero 251 e 273 del 1861 attribuiscono al prefetto vaste funzioni prima esercitate dai ministeri in ambiti quali la sanità (nomina dei consigli sanitari, del viceconservatore del vaccino, dei visitatori delle farmacie); la pubblica sicurezza (casermaggio dei carabinieri e delle guardie di pubblica sicurezza); l’utilità pubblica

(mantenimento e trasporto degli infermi, esposti, maniaci ed indigenti; autorizzazione delle tumulazioni fuori dai cimiteri e trasferimento dei cadaveri fuori dalla giurisdizione; assegnazione di ricompense agli uccisori di animali rapaci); il culto (approvazione dei bilanci delle istituzioni ecclesiastiche non soggette agli

economati generali e delle costituzioni di patrimoni ecclesiastici; approvazione delle nomine nei conventi, monasteri e conservatori; controllo dei sussidi delle parrocchie e delle fondazioni; dispense ai parenti oltre il 4 grado per contrarre matrimonio). Per alcuni periodi (1861-1867, 1877-1911) le attribuzioni prefettizie abbracciano anche il controllo dell'istruzione pubblica locale.

75 C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia, 1848/1948, Biblioteca universale Laterza,

44 Quanto alle competenze del prefetto nei confronti delle

amministrazioni locali, oltre alla già menzionata presidenza della Deputazione provinciale occorre citare il controllo di legittimità sugli atti e le spese comunali, la scelta dei sindaci, la possibilità di partecipare alle sedute del consiglio comunale e provinciale, unitamente al potere di scioglimento di questi due organi76.

Vengono pertanto riunite in un’unica figura i compiti di carattere politico che la legge del 1859 assegnava ai governatori e quelli più strettamente amministrativi propri dei governatori: il funzionario di nuovo conio “rappresenta il potere esecutivo in tutta la provincia”, “ha diritto di disporre della forza pubblica e di richiedere la forza armata”, “veglia sull’andamento di tutte le pubbliche

amministrazioni, ed in caso di urgenza fa i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami di servizio”. Riprendendo le

espressioni di Carlo Cadorna (prefetto di Torino prima, Ministro dell’Interno poi) riportate da G. Melis77, il prefetto è inteso come

“un anello pel quale tutte le amministrazioni devono passare”, ricomponendo quell’unità dell’azione governativa talora

compromessa dalle scarse comunicazioni fra i ministeri. Come già in epoca napoleonica, si sceglie di riprodurre a livello periferico l’assetto del potere centrale, con un funzionario, il prefetto, che rappresenta l’alter ego del Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno, il quale tra l’altro dispone di larghissima discrezionalità ai fini della sua designazione (la nomina formalmente avviene con decreto reale dietro deliberazione del Consiglio dei ministri, a partire da una proposta del titolare dell’Interno). La fiducia già mostrata da Bonaparte nell’istituzione prefettizia emerge anche dalle parole di Ricasoli, quando il 12 settembre 1861 scrive a Giuseppe Pasolini per convincerlo ad assumere l’incarico di prefetto: “potessimo avere per un anno 59 cittadini i più idonei d’Italia in fatto di governo e di pubblica amministrazione, per mettere alla testa di ogni provincia, che sono appunto 59, sarebbe sicuro allora il riordinamento d’Italia! Che sono 59 migliori cittadini e il loro sacrificio per un anno?78”. Sarebbe nondimeno improprio

tacere delle difficoltà del centralismo italiano in questi suoi primi anni. Da un lato, infatti, il rapporto tra centro e periferia per il tramite del prefetto è complicato dall’intervento diretto dei singoli

76 G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana, Il Mulino, Bologna, 1996, pp.75 ss. 77 Ibidem, p.86.

78 Cfr E. Ragionieri, Politica e amministrazione nello Stato unitario, in Politica e amministrazione

45 parlamentari presso il Governo onde procacciare stanziamenti per il proprio collegio di provenienza; dall’altro ben presto si assiste a un incremento nel numero degli uffici periferici, che vanno a erodere la primazia prefettizia79. Esempio di questa seconda

tendenza sono l’istituzione nel 1867 dei Provveditorati agli studi, strutture periferiche del Ministero della Pubblica Istruzione, e la costituzione nel 1869 delle Intendenze di finanza, alle dirette dipendenze del Ministero delle Finanze. Ne deriverà un sistema in cui solo certuni dicasteri ovvero determinate funzioni sono

sottoposte al coordinamento prefettizio, mentre in altri casi il dialogo tra centro e periferia prescinde anche totalmente dalla mediazione del prefetto.

Il 20 marzo 1865 è promulgata la legge di unificazione

amministrativa del Regno d’Italia, numero 2248. Dei sei allegati di cui essa si compone viene qui in rilievo il primo. L’allegato A, difatti, reca la legge comunale e provinciale, che serba la vocazione accentratrice della “legge Rattazzi” e dei decreti a firma Ricasoli. Il Regno continua a essere scandito in quattro livelli amministrativi gerarchici: province (definite “corpo morale”), circondari,

mandamenti e comuni. Il comune, unità di base dell’ordinamento amministrativo, presenta un consiglio comunale di carattere elettivo, una giunta municipale, un segretario e un ufficio comunale. Il numero dei consiglieri, tra cui viene individuato il sindaco, varia a seconda della popolazione; a eleggerli sono i cittadini almeno ventunenni, in pieno possesso dei diritti civili e paganti le “contribuzioni dirette” nel comune. Trova dunque conferma l’impianto centralistico e gerarchico della realtà amministrativa periferica, in cui la vita politica locale è diretta e controllata dal Ministero degli Interni tramite il prefetto,

responsabile dinanzi al solo Governo e deputato alla trasmissione e all’imposizione dell’indirizzo politico governativo sul territorio. Il prefetto conserva infatti la presidenza della Deputazione

provinciale, organo provvisto di funzioni politiche di tutela su tutte le amministrazioni comunali, e del Consiglio di prefettura,

organismo consultivo composto da tre membri. Questo il dettato dell’articolo 3 della legge in parola: “il prefetto rappresenta il potere esecutivo in tutta la provincia; esercita le attribuzioni a lui

demandate dalle leggi, e veglia sul mantenimento dei diritti

79 Si veda anche G. Melis, La storia del diritto amministrativo, in Trattato di diritto

46 dell’autorità amministrativa elevando, ove occorra, i conflitti di giurisdizione secondo la legge 20 novembre 1859 n.3780; provvede alla pubblicazione ed alla esecuzione delle leggi; veglia

sull’andamento di tutte le Pubbliche Amministrazioni (…); sopraintende alla pubblica sicurezza, ha il diritto di disporre della forza pubblica, e di richiedere la forza armata; dipende dal Ministro dell’Interno, e ne eseguisce le istruzioni”. Si addiviene quindi alla erezione di una solida catena di controlli sugli atti degli enti locali, istituendo quello che G. Melis definisce “un cordone ombelicale amministrazione dell’Interno-prefetto-enti locali80”. Con questa

legge si imprime una decisiva impronta sulla storia delle autonomie locali. Da un lato si cerca di rimuovere o attenuare le distanze fra le periferie e il centro; dall’altro di assicurare un’uniforme azione amministrativa rendendo prima omogenea la direzione politica. La classe dirigente liberale prova a realizzare un progetto di erezione dello Stato calato dall’alto, prestando poca attenzione alle

autonomie decisionali delle comunità locali e dei corpi sociali, sacrificate sull’altare di un’unità da raggiungere a tutti i costi e nel più breve tempo possibile.

La letteratura storiografica ha spesso parlato di “prefetti

dell’unificazione”, usando questa formula per indicare i funzionari della prima generazione. Incaricati di vigilare sull’insieme delle propaggini burocratiche dello Stato e realizzare il collegamento fra centro e periferia, essi svolsero in molti casi “un’intensa attività di alfabetizzazione istituzionale nei confronti degli enti locali, furono tutori, prima ancora che i controllori, dei notabilati periferici e in definitiva seppero radicare (qualche volta ex novo e con indubbia energia) l’immagine stessa del nuovo Stato nelle province, contribuendo non poco a consolidare un’unità nazionale ancora provvisoria e insidiata da tante parti81”. L’esecutivo non incontra

limiti nella scelta dei prefetti, nel trasferimento di sede degli stessi e nella loro destituzione. Sino alla fine del secolo XIX, molto spesso nelle città di maggiore importanza sono preferiti i c.d. “prefetti politici”, colti fra i preminenti politici dell’epoca, mentre nei centri di minor rilievo si opta tendenzialmente per i c.d. prefetti

“amministrativi o di carriera82”. Esplicano, in definitiva, un ruolo

80 G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, il Mulino, 1996, p.

78.

81 Ibidem, pp.78-79.

82 C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli,

47 “pedagogico” verso la provincia, facendosi latori di una cultura che non è ancora propriamente amministrativa e affonda le proprie radici in una sensibilità politica spesso acquisita nelle società segrete liberali, se non addirittura nell’attività parlamentare. Quantomeno in una prima fase, tuttavia, è innegabile che le comunità locali siano in larga misura governate da un gruppo di ottimati socialmente omogenei, in una forma di cooptazione censitaria che Massimo Severo Giannini ha chiamato “monoclasse”. Questo emerge soprattutto laddove si guardi ai sindaci, che pur dovendo essere attinti dal novero degli eletti (peraltro da un corpo elettorale assai ristretto) sono nominati dal re e di fatto scelti proprio dal prefetto. Una siffatta omogeneità tra istituzione prefettizia e classe dirigente politica esce ulteriormente rinsaldata dalla previsione dell’articolo 33 dello Statuto albertino, in base al quale dopo sette anni il prefetto può essere nominato senatore e continuare nondimeno a svolgere la propria attività lavorativa. Nelle cerimonie solenni il prefetto deve poi indossare l’uniforme confezionata secondo il modello fissato dal r.d. 11 dicembre 1859 per i governatori delle province sabaude; un altro elemento che palesa il prestigio di cui rapidamente si ammanta tale carica è il trattamento economico di cui essa gode, più elevato di quello dei direttori generali e dei segretari generali dei Ministeri. In base all’art.8 della legge 20 marzo 1865, n.2248, il prefetto (e il sottoprefetto) sono tutelati con la “garanzia amministrativa”, in virtù della quale non possono essere chiamati a rendere conto del proprio operato a un soggetto diverso dalla superiore autorità amministrativa; un procedimento penale relativo all’esercizio delle funzioni dei predetti organi, inoltre, richiede per essere avviato l’autorizzazione del re, previo parere del Consiglio di Stato.

Il regio decreto 8 giugno 1865, n.2321 precisa l’organizzazione interna delle prefetture, ripartite in quattro divisioni83. Di queste, la

prima gestisce l’attività del Consiglio di prefettura e della Deputazione provinciale; la seconda controlla i corpi morali

(province, comuni, opere pie); la terza cura le questioni concernenti la pubblica sicurezza, il servizio militare di leva e la sanità pubblica. La quarta, infine, si occupa della contabilità e dispone di una competenza residuale che tocca tutto ciò che non sia stato espressamente demandato alle altre articolazioni.

83 N. Randeraad, Autorità in cerca di autonomia: i prefetti nell’Italia liberale, Ministero per i

48 Il sistema amministrativo così congegnato rimane sostanzialmente inalterato durante i governi della Sinistra. Sola, timida eccezione è l’infruttuoso tentativo di Giovanni Nicotera nel 1876 di abolire le sottoprefetture e rendere elettivi sia i sindaci sia i presidenti delle Deputazioni provinciali.

L’improvvisa morte di Depretis nel luglio del 1887 spiana la strada alla ascesa di Crispi, già titolare di numerosi dicasteri negli esecutivi “trasformisti” del primo. Proprio in qualità di Ministro dell’Interno in un governo a guida Depretis l’ex garibaldino ottiene

l’approvazione della legge 14 luglio 1887 n.4711 sui prefetti del Regno, con cui il Parlamento pone le basi per uno strettissimo controllo ministeriale sull’operato e la carriera di tali funzionari. L’articolo sette di questa legge, infatti, “amplia, rendendola in pratica priva di limiti, la facoltà del Ministro di collocare in

aspettativa o a riposo i prefetti per motivi di servizio, connotando così giuridicamente la funzione prefettizia, che i governi della Destra avevano considerato, in prevalenza, politica e basata su un rapporto fiduciario84”. Viene rimosso l’unico limite al potere

ministeriale di nomina, cioè il divieto di assegnare uffici retribuiti (come quello prefettizio) a deputati: la riforma permette dunque l’immissione nei ranghi dei prefetti di personale di formazione politica e contiguo all’esecutivo. Crispi sostiene che la riforma sia “necessaria perché la pubblica amministrazione possa regolarmente procedere”; ritiene cioè impossibile ripristinare in Italia quel

sistema di autonomie locali smantellato dalle leggi napoleoniche, le quali, a suo dire, avrebbero reso il popolo bisognoso della costante guida del Governo. Da qui, il gravoso compito dei pubblici

funzionari, specie prefettizi, di educare la popolazione

instradandola verso la libertà. Come acutamente nota G. Melis, “il paternalismo prefettizio viene programmato come l’esatto pendant del paternalismo governativo”. Lo strapotere ministeriale conoscerà un primo correttivo con il r.d. 7 marzo 1897 n.105, ove si stabilisce che a beneficiare delle promozioni al grado di prefetto siano gli iscritti in uno speciale ruolo di merito, compilato da una apposita commissione. Accedono a tale elenco i funzionari reputati “ottimi” di grado immediatamente inferiore a quello prefettizio. La

commissione selezionatrice è squisitamente burocratica, in quanto composta dal Ministro o dal Sottosegretario in qualità di presidente,

84 G. Volpe, Storia costituzionale degli italiani, volume I, l’Italietta (1861-1915), Giappichelli

49 da un Consigliere di Stato e uno della Corte dei Conti, da tutti i Direttori generali, dal capo dell’Ufficio di gabinetto e infine dal Direttore capo della divisione del personale (art. 2 del regolamento 7 marzo 1897). Il r.d. 12 novembre 1899 n.407, peraltro, ribadisce che l’ufficio di prefetto è suscettibile di conferimento anche a soggetti estranei all’amministrazione statale, deludendo le ambizioni del corpo burocratico alla riserva esclusiva dell’ufficio. Ne risulta un sistema composito, in cui la scelta può cadere su estranei o su funzionari astrattamente promovibili a prefetti. La libertà di scelta del Ministro, infine, torna a prevalere su ogni opposta

considerazione con il r.d. 2 febbraio 1902 n.26, il cui articolo 25 stabilisce che il titolare degli Interni non sia tenuto a rispettare la trafila dei gradi per le nomine a prefetto, dando dunque rilievo al fatto che l’azione dell’ufficio prefettizio impegna direttamente la responsabilità governativa.

A Crispi si deve un’altra legge destinata a incidere profondamente sul ruolo e il peso del prefetto nel tessuto ordinamentale italiano. Il 30 dicembre 1888 viene infatti promulgata la legge numero 5865 (confluita poi nel Testo Unico n. 5921 del 10 febbraio 1889), che apporta rimarchevoli modifiche all’ordinamento comunale e provinciale vigente dal 1865. I cittadini maschi di almeno ventuno anni, capaci di leggere e scrivere e paganti almeno 5 lire di imposta annuale sono ammessi al voto per i consigli comunali e le

deputazioni provinciali; un incremento del corpo elettorale amministrativo di circa un milione e trecentomila unità. La legge prevede che i sindaci dei comuni capoluoghi di provincia o con più