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Il Prefetto nella R.S.I.

È probabilmente l’intento di evitare la reiterazione del ventennale dualismo tra prefetto e segretario federale a spingere la R.S.I. verso l’unificazione nel Capo della provincia del livello politico e di quello amministrativo in ambito locale. Nel primo Consiglio dei Ministri della Repubblica di Salò, Mussolini stabilisce che, sino a guerra ultimata, spetti al Capo della provincia realizzare “l’unicità del comando politico e amministrativo, essendo a capo tanto della prefettura quanto della Federazione fascista repubblicana”. La compresenza di due anime, burocratica e politica, in una sola figura conduce inoltre all’adozione di una nuova procedura di nomina, che avviene ora con decreto del Ministero dell’Interno, all’esito di una selezione operata d’intesa fra quest’ultimo e il Ministro

105 G. Melis, nella presentazione ad A. Cifelli, I prefetti del regno nel ventennio fascista,

65 segretario del partito. Nell’organizzazione provinciale del partito il capo della provincia si avvale dell’ausilio di un triumvirato federale o di un Commissario straordinario. Il nuovo organo fatica a

ottenere i successi sperati, come testimonia una circolare telegrafica di Mussolini nel febbraio 1944 con cui il Duce ricorda ai Capi delle province il loro ruolo di capi del partito.

L’esperienza del Capo della provincia si conclude con la liberazione del Nord Italia, accompagnata dall’insediamento ai vertici delle prefetture di prefetti politici, espressione del C.L.N., che già nei primi mesi del 1946 cederanno il passo a funzionari prefettizi di carriera.

Nel frattempo, si forma una consistente linea di pensiero che propone l’abolizione delle prefetture. “Via il prefetto!” tuona Luigi Einaudi nel 1944106, tacciando il prefetto di essere il “vero padrone

della vita amministrativa e, poiché “Democrazia e prefetto repugnano profondamente l’uno all’altro (…) non si avrà mai democrazia finché esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto (…). Elezioni, libertà di scelta dei

rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico”. Il futuro Presidente della Repubblica passa in rassegna gli ordinamenti liberi da quella “lue che fu inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone” che è il prefetto: Gran Bretagna, Svizzera, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Canada e Sudafrica, a riprova del fatto che un rappresentante dell’esecutivo sul

territorio non sia indispensabile per una buona amministrazione. Ne risulta un’accorata esaltazione del modello svizzero:”l’auto- governo continua nel cantone, il quale è un vero stato, il quale da sé si fa le sue leggi, se le vota nel suo parlamento e le applica per mezzo dei propri consiglieri di stato, senza uopo di ottenere approvazioni da Berna; e Berna, ossia il governo federale, a sua volta, per le cose di sua competenza, ha un parlamento per

deliberare le leggi sue proprie e un consiglio federale per applicarle e amministrarle. E tutti questi consessi e i 25 cantoni e mezzi cantoni e la confederazione hanno così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto,

106 L. Einaudi, Via il prefetto, in L’Italia e il secondo Risorgimento, supplemento alla Gazzetta

Ticinese, 17 luglio 1944, poi in Id., Il buongoverno. Saggi di economia e di politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp.52-59.

66 ossia la longa manus del ministro o governo più grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende proprie dei

ministri più piccoli.” Sviluppando queste premesse, Einaudi ritiene che la carica prefettizia cagioni la destituzione di significato e competenze dell’eletto locale, spogliato del diritto-dovere di interpretare la legge e della responsabilità verso gli elettori che ne deriva: ridotto, insomma, a un burattino nelle mani del prefetto. Conclude gettando foschi presagi sull’avvenire: ”finché esisterà il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale e al sindaco, al consiglio provinciale e al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al Ministro dell’Interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e politica dell’intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l’iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l’approvazione e intralcia il funzionamento dei corpi locali.(…)Il delenda Carthago della democrazia liberale è: via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere”. Questa feroce offensiva contro il prefetto non è isolata. Se di Salvemini abbiamo già

parlato, l’azionista Mario Boneschi definisce quella prefettizia come una “carica inutile e nociva107”. “Per la storia dell’umorismo

prefettizio108” è il titolo di uno scritto del 1950 cui Massimo Severo

Giannini consegna una sferzante critica alle ordinanze prefettizie, alle motivazioni dello scioglimento di Consigli comunali e

dell’annullamento di votazioni degli enti locali da parte del prefetto. Voci autorevoli, dunque, individuano nel titolare della prefettura il simbolo dell’autoritarismo, ne esaltano il rilievo ricoperto nella catena di comando fascista e meno la dipendenza dall’esecutivo. Così facendo, però, incorrono in un errore importante. Per la sua natura e la posizione che ha nell’ordinamento, il prefetto non è un sabotatore o un innovatore, ma tende a trasporre in periferia le caratteristiche del governo di cui è emanazione e braccio. Così, a un esecutivo autoritario corrisponderà inevitabilmente un funzionario prefettizio dedito alla repressione e al contenimento delle istanze

107 M. Boneschi, Lo Stato moderno. Antologia di una rivista, a cura di Mario Boneschi,

Comunità, Milano, 1967, pp.21-25.

108 L’articolo è stato pubblicato in Il Corriere democratico nel 1950, per poi essere rieditato

67 sociali; a un governo democratico, invece, un prefetto

fisiologicamente portato alla mediazione, un “broker sociale”. Le indagini di Cifelli, Melis, Woller, Minetti, Tosatti, Fino dimostrano inoltre che il corpo prefettizio ha subito minori influenze da parte del regime rispetto ad altri, procedendo sollecitamente

all’epurazione degli elementi più compromessi109.

La polemica antiprefettizia si salda presto con il dibattito sul decentramento amministrativo che anima il secondo dopoguerra, finendo per esserne integralmente assorbita. Nonostante le contestazioni, il funzionario prefettizio non forma oggetto di dibattito in seno alla Costituente, né è menzionato nella Carta costituzionale. Sopravvive in silenzio; nota Fino:”la ricostituzione elettiva delle Province avrebbe reso più difficile, se non proprio impossibile, una loro abolizione110”. Questo conferma

l’interpretazione secondo cui i padri costituenti “non riuscirono a immaginare un modello amministrativo diverso da quello fondato sul modello gerarchico-amministrativo diverso da quello fondato sul modello gerarchico-ministeriale, sul centralismo come garanzia dell’unità nazionale, sulla continuità degli uomini e della cultura amministrativa111”. L’articolo 124 della Costituzione prevede invece

la figura del Commissario del governo: un organo periferico dell’esecutivo, istituito presso ogni Regione onde coordinare le attività amministrative statali e regionali e di controllo sulle leggi regionali. Il commissario del governo viene abolito con la legge costituzionale 3 del 2001, in un momento di forte ripensamento del rapporto tra centro e periferia.

La scelta di confermare il prefetto non desta stupore. Un’ancora fragile Repubblica, impegnata nella propria ricostruzione dalle macerie, non può che trarre profitto dalla presenza di un corpo di amministratori già formato ( e, va detto, largamente orientato in senso conservatore). Un corpo, quello prefettizio, che trae la sua

109 A. Cifelli, I prefetti della Repubblica 1946-1956, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato,

Roma, 1990. G. Melis, Storia dell’amministrazione pubblica in Italia 1861-1993, il Mulino, Bologna, 1996, pp.425-436. H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1945-

1948, Mulino, Bologna, 1997; M. Minetti, L’epurazione nella Amministrazione pubblica tra il 1943 e il 1948, in Clio, 1, 2002, pp.85-113. G. Tosatti, Il Ministero dell’Interno. Uomini e strutture 1861-1961, Effegierre, Roma, 2004, pp.271-294. A. Fino, Riforma della Pubblica Amministrazione e decentramento. Province e prefetti dalla Liberazione alla Costituente, Congedo,

Lecce, 2004, p.58.

110 A. Fino, Riforma della Pubblica Amministrazione e decentramento. Province e prefetti dalla

Liberazione alla Costituente, Congedo, Lecce, 2004, p.15.

111 R. Romanelli, Centralismo e autonomie, in Id. (a cura di), Storia dello Stato italiano

68 forza anche dalla sua immobilizzazione. Se spesso le analisi si sono indirizzate sul tema delle epurazioni, raramente si è considerato il fatto che per i primi quindici anni dell’età repubblicana il

reclutamento è azzerato: dei 64 prefetti di prima classe, 62 hanno già svolto la loro funzione durante il fascismo. I due aspetti non sono incompatibili, giacché l’espulsione dei componenti più organici al regime è già avvenuta durante il primo governo Badoglio, per proseguire negli anni seguenti. In un contesto di instabilità politica e sociale, dunque, quello dell’Interno resta l’unico ministero dotato di funzionari periferici in grado di intervenire e rappresentare il governo sul territorio.