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Le reazioni della giurisprudenza successiva e i numerosi dubbi irrisolti.

L’AUTOTUTELA INTERNA ED ESTERNA AL CONTRATTO: I CONTROVERSI RAPPORTI TRA REVOCA E RECESSO DELLA P.A.

10. Le reazioni della giurisprudenza successiva e i numerosi dubbi irrisolti.

Le coordinate espresse dall’Adunanza Plenaria sono state immediatamente recepite dalla giurisprudenza che ha utilizzato il medesimo criterio interpretativo per districarsi tra le varie forme di recesso contrattuale previste dalla normativa speciale in favore della p.a.

La regola appare sempre la medesima: laddove si riscontri una disposizione speciale che attribuisce una peculiare facoltà di recesso all’Amministrazione, quest’ultima è tenuta ad esercitarla laddove voglia sciolgliersi dal vincolo contrattuale, non potendo ricorrere al potere generale di revoca. Si instaura un concorso apparente tra l’art. 21 quinquies l. n. 241/90 e la norma disciplinante il diritto di recesso, che va risolto in favore di quest’ultima, atteso il suo carattere speciale.

Tale assunto è stato ribadito anche in relazione all’ipotesi di recesso di cui all’art. 1 comma 13 d.l. n. 95/2012, in precedenza analizzato, la cui applicazione esclude la possibilità di ricorrere alla revoca degli atti di gara qualora il contratto sia divenuto antieconomico281.

La norma introduce una forma di recesso-impugnazione, (diversamente dall’attuale art. 109 d.lsg. n. 50/2016, che in tema di appalti preve un recesso di pentimento) che consente all’Amministrazione di reagire ad un mutamento dell’assetto di interessi per effetto dell’incisione di un parametro esterno al contratto, rappresentato dalla valutazione di convenienza effettuata dalla Consip s.p.a.

Si tratta di una sopravvenienza che potrebbe essere gestita dalla p.a. attraverso il ricorso alla revoca ex art. 21 quinquies l. n. 241/90, rientrando nel presupposto dei sopravvenuti motivi di interesse pubblico (economico) che rendono inopportuno il contratto.

Tuttavia l’esistenza di una disposizione speciale, quale l’art. 1 comma 13 d.l. n. 95/2012, impedisce alla norma generale sulla revoca di operare, costringendo la p.a. che voglia sciogliersi dal vincolo ad azionare il rimedio negoziale del recesso.

Del resto, il riconoscimento di un potere di revoca sostanzialmente priverebbe di pratica applicazione la disposizione introdotta dal d.l. sulla spending review.

Va poi aggiunto che, collocato correttamente il rapporto nella fase di esecuzione del contratto, “l'art. 1, comma 13, d.l. n. 95/2012 meglio garantisce le reciproche posizioni che, è bene ribadirlo, non sono più ascritte alla sfera pubblicistica dell'azione, bensì a quella privatistica dell'esecuzione del contratto”.

La pronuncia esaminata dimostra come la soluzione espressa dall’Adunanza Plenaria del 20 giugno 2014 n. 14, si sia limitata a fornire un criterio interpretativo per risolvere eventuali antinomie normative, ma non si è spinta sino all’affermazione di un principio generale, capace di incidere a fondo nel rapporto tra autoritatività e contratto.

Ciò nonostante, in altre occasioni i giudici amministrativi hanno valorizzato oltremodo i principi che sembrano desumibili dalla Plenaria, affermando “che sarebbe illegittimo un provvedimento di revoca dell’aggiudicazione di una gara adottato le quante volte sia stato già stato stipulato il contratto di appalto, “atteso che in tal caso la revoca verrebbe stata adottata in assenza del suo essenziale presupposto, e cioè di un oggetto costituito da un provvedimento che continua ancora a spiegare effetti, non essendo tale l’aggiudicazione della gara in seguito alla stipulazione del contratto; in tal caso, per sciogliersi dal vincolo discendente da quest’ultimo,l’Amministrazione deve ricorrere all’istituto del recesso ai sensi dell’art. 134 del d.lgs. n. 163 del 2006”282

Da una lettura superficiale della sentenza sembra emergere una sterzata restrittiva verso i poteri di autotutela avvicinati al contratto, nell’ottica di un’esaltazione della pariteticità delle posizioni contrattuali che porta ad interpretare restrittivamente tutte le deroghe ad essa.

Limitare, come già hanno fatto le riforme legislative, il potere di autotutela della p.a. rappresenta un’esigenza imprescindibile per assicurare la stabilità del rapporto, soprattutto quando esso si fondi su un titolo non provvedimentale ma contrattuale.

Tuttavia la pronuncia della Plenaria non sembra essere animata da tale ratio, né pare collocarsi all’esito di quel percorso di contrattualizzazione del diritto amministrativo, che avrebbe avuto come naturale conseguenza l’affermazione del principio che l’Amministrazione deve sottostare

integralmente alla disciplina privatistica, qualora scelga di ricorrere a moduli civilistici di gestione degli interessi pubblici.

Le attese in tal senso, sono state in buona parte deluse.

Ed infatti, un’analisi più approfondita delle statuizioni della Plenaria rivela tutta l’ambiguità della posizione espressa, che pur assestando un colpo all’autotutela pubblicistica ne caso specifico, finisce per avallarne l’esercizio in un numero più che considerevole di ipotesi.

Non può affatto sottovalutarsi la legittimazione che l’autotutela pubblicistica riceve in relazione agli appalti di servizi o forniture, alle concessioni (su ci si soffermerà successivamente), e ai contratti attivi stipulati dalla p.a., per i quali il potere di intervento autoritativo sopravvive alla conclusione dell’accordo.

L’autotutela esterna esce dalla maglie interpretative della pronuncia quasi rafforzata, consentendosi espressamente la revoca per tutte quelle fattispecie contrattuali che non prevedono una norma specifica sul recesso capace di escluderla.

L’asserita incompatibilità tra contratto e autotutela pubblicistica, che sembrava fondare l’ordinanza di rimessione, non viene affatto condivisa dalla Adunanza Plenaria, che non ritiene la stipulazione negoziale un passaggio idoneo a completare la dismissione della veste autoritativa da parte della p.a.

Anzi, la “parità solo tendenziale” predicata dai giudici del Consiglio di Stato, sottende il disconoscimento della pariteticità tra Amministrazione e privato contraente, e segna una battuta d’arresto nel processo di privatizzazione dei soggetti pubblici.

Inoltre, ammettere implicitamente il ricorso al potere generale di revoca per tutti quei contratti diversi dall’appalto di lavori, ancorché riconducibili all’ambito dei contratti comuni o di diritto speciale, significa contraddire la loro essenza privatistica: la facoltà unilaterale riconosciuta ad uno dei contraenti di sciogliersi dal vincolo comporta inevitabilmente un indebolimento dello stesso. Si attribuisce per tale via un formidabile potere di recesso in ogni tempo283 al contraente pubblico

che può essere spiegato solo nell’ottica del diritto amministrativo, e non certo alla luce delle categorie civilistiche: si prospetterebbe infatti una confusione con la condizione risolutiva legale meramente potestativa, tradizionalmente considerata nulla, essendo attribuita alla p.a. la possibilità di risolvere gli effetti del contratto con una manifestazione di volontà attenta all’interesse pubblico ma non a quello della controparte.

Si profila, inoltre, un’ingiustificata disparità di trattamento tra figure negoziali che divergono solo per l’oggetto della prestazione: non si comprende infatti perché il potere di revoca, escluso per gli appalti di lavori, possa continuare ad essere esercitato per gli appalti di servizi e forniture.

La considerazione che per tali fattispecie manchi una norma che disciplini il recesso è, concettualmente, troppo debole quasi a volere sostenere che la disposizione di cui all’art. 134 d.lgs. n. 163/2006, non derogherebbe al principio di parità tra le parti nel contratto, ma all’opposta regola dell’asimmetria autoritativa, secondo cui la p.a. potrebbe esercitare sempre i propri poteri pubblicistici anche innanzi alla stipulazione di un contratto privatistico, salvo espressa eccezione di legge, che le imponga un’iniziativa di diritto privato.

Né si comprende il riferimento ai contratti attivi. Questi, più di ogni altro contratto stipulato dall’Amministrazione, presentano pochissimi elementi di distacco dalla disciplina privatistica, e pertanto, l’ammissione di un potere autoritativo di revoca appare davvero ingiustificata, salvo a voler ritenere che l’immanenza dell’interesse pubblico all’azione amministrativa, determini una fisiologica instabilità dei rapporti in cui è parte la p.a.

Ciò che la Plenaria non sembra considerare adeguatamente è che in gioco non vi era solo l’isolato potere di recesso previsto dall’art. 134 d.lgs. n. 163/2006, ma un bilanciamento tra autoritatività e negozialità, ovvero le due anime che compongono la moderna Amministrazione.

Negare che una volta concluso il contratto, la p.a. perda la propria posizione di supremazia, e segnatamente i propri poteri di incisione unilaterale del rapporto, significa riconsiderare lo stesso fondamento dell’attività negoziale dell’Amministrazione.

La presenza del contraente pubblico altera la fattispecie contrattuale, che non coincide più con il suo omologo stipulato da soggetti privati, ma sembra essere attratta in un’orbita pubblicistica che l’evoluzione normativa e giurisprudenziale avevano con forza escluso.

Anche ponendosi dall’angolo visuale dell’Amministrazione, la soluzione fornita dalla Plenaria non convince del tutto.

L’affermazione della fungibilità tra i presupposti della revoca e del recesso non sembra pienamente condivisibile, soprattutto alla luce delle riforme normative che hanno interessato l’art. 21 quinquies l. n. 241/90.

Nella sua versione iniziale la revoca era consentita in presenza di sopravvenienze giuridiche e fattuali, nonché in caso di rivalutazione dell’interesse pubblico originario; fattori, che potevano trovare tutela anche attraverso lo strumento del recesso ex art. 134 d.lgs. n. 163/2006, che disciplinando uno ius poenitendi puro, non implicava alcuna limitazione casuale alla scelta della p.a. di interrompere il rapporto.

L’ampiezza della revoca coincideva con l’ampiezza del recesso, soprattutto grazie al riconoscimento di un diritto di pentimento anche nell’ambito dell’art. 21 quinquies l. n. 241/90; ciò avrebbe giustificato la soluzione poi espressa dalla Plenaria, che obbliga, in presenza dei medesimi presupposti ad esercitare la facoltà di recesso, temperando il sacrificio del privato con una maggiore remunerazione economica.

Tale assunto deve essere rimesso in discussione a seguito delle modifiche apportate all’ art. 21 quinquies dalla l. n. 164/2014, che da un lato limita la revoca per sopravvenienze fattuali ad un mutamento non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento, e dall’altro esclude la revoca per ius poenitendi per i provvedimenti attributivi di vantaggi economici, tra i quali come già visto certamente può rientrare l’aggiudicazione del contratto.

La facoltà di recesso, sotto il profilo causale, è rimasta invece immutata, talché i presupposti dei due istituti non risultano più sovrapponibili.

Il potere di recesso appare attribuire un potere di scioglimento addirittura più ampio rispetto alla stessa revoca, poiché non subisce la limitazione dell’imprevedibilità della sopravvenienza fattuale al momento di stipulazione del contratto, né il limite della sussistenza di un atto favorevole per il privato.

Quest’ultimo, si trova ancora una volta ad essere penalizzato nel suo interesse alla stabilità del vincolo negoziale, poiché costringendo la p.a. ad utilizzare lo strumento del recesso, si vanifica anche quell’intento legislativo che aveva inteso limitare il ricorso alla revoca per una maggiore tutela dell’affidamento.

Una soluzione coerente sarebbe allora quella di interpretare la norma che regola la facoltà di recesso alla luce della nuova conformazione dell’art. 21 quinquies, escludendo una facoltà di scioglimento ad nutum.

Infine, l’esclusione della revoca di pentimento per gli atti attributivi di vantaggi economici, dovrebbe indurre a limitare drasticamente l’impostazione della Plenaria che ammette il ricorso al potere di autotutela per i contratti diversi dall’appalto di lavori pubblici: se anche fosse vero che la p.a. non perde i propri poteri autoritativi per effetto della stipulazione negoziale, questi dovrebbero pur sempre essere regolati dalle norme che ne disciplinano l’esercizio, vietandosi la revoca dell’aggiudicazione per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario da parte dell’Amministrazione.

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